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Il vulcanismo nel Sahara e il suo inquadramento nella storia della geodinamica del nostro pianeta

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Samantha Cristoforetti, la nostra astronauta attualmente di stanza nella Stazione Spaziale Internazionale è una delle persone di cui in questo periodo si parla maggiormente nei siti scientifici. In un suo tweet ha postato una foto di una parte del massiccio del Tibesti, un complesso vulcanico che si trova in mezzo al Sahara. Il vulcanismo sahariano è poco noto ma è uno dei segni attuali di una attività vulcanica che negli ultimi 500 milioni di anni ha pesantemente inciso sulla storia della Terra, sia quella geologica che quella biotica. La nostra astronauta ha commentato "mi piacerebbe essere un geologo per poter leggere un pò di storia del nostro pianeta in questa fotografia". Pertanto colgo questa occasione che “Astrosamantha” mi ha offerto per inquadrare il magmatismo sahariano e collegarlo ad altri fatti importanti nella storia della geodinamica del nostro pianeta, dalle vulcaniti paleozoiche europee, alla frammentazione del Gondwana nel Mesozoico e all'origine del genere umano.  


Se si eccettua la zona dove il continente si sta spaccando, tra il Mar Rosso e il Mozambico, la zona del Maghreb e quella del Sinai, l'Africa è un continente praticamente asismico. 
Dal lato vulcanico offre qualcosa di più: sempre nella zona della Rift Valley, in special modo nell'Afar e un po' più a sud: particolarmente famosi da quelle parti sono i laghi di lava del Nyiragongo e dell'Erta Ale. Ci sono poi nell'area nordoccidentale il Monte Camerun, le Canarie e Capo Verde. 

Ma l'elenco dei vulcani africani è molto più lungo, perchè il Sahara è letteralmente tappezzato da vulcan: tra Algeria, Libia, Ciad, Niger e Sudan ne troviamo diversi. La loro attività è sporadica, ma ha lasciato tracce durante l'Olocene e anche in epoca storica. In alcuni casi siamo davanti ad edifici di tutto rispetto, alti oltre 3000 metri.
L'Haggar e il Tibesti tra Algeria e Ciad, sono i più noti.
Troviamo sia stratovulcani che piccoli vulcani a scudo e tanti tufi. I magmi appartengono alla suite alcalina e vanno da basalti abbastanza primitivi a prodotti ben differenziati e come tefriti e fonoliti (ciò spiega l'abbondanza dei tufi).

La domanda fondamentale è cosa ci facciano tutti questi vulcani. 
Innanzitutto osserviamo che, trattandosi di serie alcaline, siamo di fronte ad un classico magmatismo di punto caldo, in cui i liquidi si formano per bassi gradi di fusione parziale del mantello in zone piuttosto profonde (altrimenti, con un grado di fusione maggiore, avremmo delle tholeiiti). 
Questa attività è il riflesso della presenza sotto al continente africano di una delle due zone di risalita di materiale caldo dalla base del mantello (la seconda si trova sotto l'Oceano Pacifico). Le vediamo in questa immagine tratta da un lavoro di Claudio Faccenna del 2013 (Mountain building and Mantle dynamics).

Questa zona di risalita è presente da tempi molto antichi ed ha pesantemente interessato nel Paleozoico le zolle continentali che ora formano l'Europa (in particolare il continente noto come Baltica) e che proprio all'epoca stavano passandoci sopra. Ne troviamo la dimostrazione nella geologia dell'area fra le Isole Britanniche e gli Urali, dove sono frequenti imponenti serie di lave basaltiche, come la provincia dello Skagerrak, messasi in posto nel Mare del Nord e dintorni a cavallo fra Carbonifero e Permiano, i basalti di Volyn in Ucraina di età circa corrispondente all'inizio del Cambriano e sempre in Ucraina (forse, vista la guerra in corso...) i basalti di Pripjat. Ci sono serie del tempo anche più a nord, verso la penisola di Kola. 
In pratica tutta la Russia Europea e l'Ucraina sono tappezzate da rift paleozoici dovuti a questa attività. Sono tutte Large Igneous Provinces (LIP), e la più importante di tutte è la provincia magmatica dei Trappi siberiani, la maggiore LIP continentale degli ultimi 400 milioni di anni, e il più potente killer della storia della Terra, dato che ha causato alla fine del Permiano la madre di tutte le estinzioni. I resti di questa imponente serie di lave occupano parte della Siberia ad est degli Urali, dall'Oceano artico al Kazakistan (purtroppo non sono evidenziati nella carta qui sopra).

Qualche tempo dopo il passaggio di Baltica, nel Triassico, sulla zona di risalita è arrivato  il Gondwana, il grande continente meridionale, all'epoca debolmente collegato alla Laurasia a formare la Pangea lungo la fascia orogenica ercinica. E la cosa fu semplicemente devastante: dopo 300 milioni dalla sua formazione, il grande continente si frammentò piuttosto improvvisamente tra Giurassico e inizio del Cretaceo. L'inizio di questo processo è stato devastante: la provincia magmatica dell'Atlantico Centrale, ora dispersa fra Europa, Americhe ed Africa, provocò l'estinzione di massa della fine del Triassico. Poco dopo i vari settori della catena ercinica furono smembrati e così finì la breve esistenza della Pangea.


Poi, in uno stillicidio di episodi intorno a quella che sarebbe diventata l'Africa, si formarono varie Large Igneous Provinces, sulle tracce delle quali si sono aperti l'Oceano Atlantico meridionale e l'Oceano Indiano: Paranà – Etendelka, Karoo – Ferrar, Madagascar, Kerguelen. Le emissioni di CO2 di queste imponenti masse vulcaniche (dell'ordine delle diverse centiania di km cubici) sono alla base del clima molto caldo (ma sufficientemente umido) che ha caratterizzato il mesozoico.
Anche i basalti del Deccan, il killer dei dinosauri (nonostante che il meteorite continui ad avere numerosi sostenitori) si devono a questa situazione.

L'ultima, per adesso, Large Igneous Province provocata da questo pennacchio caldo è quella dell'Afar: quindi anche la Rift Valley e la formazione della placca somala sono dovute a questa situazione. Giova ricordare che nel 2005 una eruzione vulcanica mosse, tra materiale arrivato in superficie e rimasto a bassa profondità ben 2,5 km cubi di magma in pochi giorni (per confronto il Kilauea nelle Hawaii ne ha prodotti 4 in 30 anni e il Bardarbunga in Islanda nell'eruzione da poco terminata ha messo in posto poco più di 1 km cubo di basalti in 5 mesi).

Quindi il vulcanismo attuale del Sahara, insieme a quello delle isole della costa atlantica dell'Africa Settentrionale e a quello dell'Africa Orientale non è altro che uno dei riflessi attuali di una situazione molto antica che ha messo in posto in tempi lontani le vulcaniti paleozoiche europee, ha provocato la frammentazione del Gondwana (mar Rosso incluso), ha massicciamente inciso nella storia della vita sulla Terra, perché ha provocando diverse estinzioni di massa di varia importanza, ha separato e chiuso delle terre emerse e, nell'Africa Orientale e, da ultimo, ha sovrainteso alla nascita e alla evoluzione del genere umano.

Questo è un elenco dei vulcani sahariani che ho desunto dalla bibliografia scientifica:




Algeria


Haggar
ManzazNeoliticoConi di cenere e xenoliti serpentinitici
AtakarAttualeAlcalibasalti. Attività fumarolica e sismica. Testimonianze dei Tuareg su attività vulcanica
TaharlaQuaternarioTrachiti


Libia
HarujOloceneMolti piccoli vulcani a scudo
Wau-en-namusOlocene?Caldera recente (?)






Ciad






Tibesti
Tarso TohVI mill acColate basaltiche e maar
Tussidè TohoggiStratovulcano con trachiti e trachiandesiti.
Attività fumarolica
Tarso VoonoggiStratovulcano con caldera e solfatara molto attiva
Emi Koussi“pre - moderna”Alto 3400 metri è uno stratovulcano con caldere sommitali.
Ehi Musgau

Vecchio stratovulcano alto più di 3000 metri su cui non c'è niente
NigerTodraForse pochi secoli faTefriti e fonoliti seguite da lave basaltiche. Diversi coni di cenere





Sudan


Darfur
Jebel Marra3500 anni faCaldera. In precedenza basalti con sopra tante piroclastiti
meidob5000 anni faDuomi di lave trachitico - fonolitiche


Bayuda950 DCConi di cenere. Molti basalti hanno meno di 5000 anni.






Bardarbunga - aggiornamento al 29 agosto

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A dimostrazione della rapidità con cui la situazione sui vulcani si può evolvere, questo post era stato scritto ieri sera ma le cose stanotte sono andate molto velocemente: avevo scritto che “l'intrusione sta risalendo e ci sono già i primi effetti geotermici visibili sul terreno”. Ebbene, erano i segnali premonitori di qualcosa che è accaduto stanotte: si sono aperte delle fessure sopra all'intrusione, a NE del Bardarbunga, per fortuna oltre il limite del ghiacciaio Dynjujökull (una appendice del grande ghiacciaio Vatnajokull). Da una di queste è scaturito un po' di magma. Dopo un paio d'ore la quantità di materiale in uscita sembrava diminuire. La frattura è lunga circa un km e quindi siamo davanti ad una vera e propria eruzione lineare. In questo momento la sismicità lungo l'intrusione è diminuita, segno che il rilascio di pressione determinato dall'eruzione ha fatto il suo dovere.
Ieri sera c'erano delle notizie abbastanza precise sulla risalita di fluidi caldi di origine vulcanica nella zona in cui si erano aperte delle fratture, cosa che poteva davvero essere un presagio di eruzione imminente, anche perché ad esse si era aggiunto il tremore sismico; inoltre la lava dentro il dicco era risalita fino alla profondità di 2 km. 
Di conseguenza il codice per l'aviazione è stato nuovamente innalzato da arancione a rosso sopra il Bardarbunga, e permane giallo sull'Askja (“atto dovuto” a causa della sismicità che lo interessa).  Questa è la situazione ADESSO (metà mattina del 29 agosto). Fra due ore chissà... questa è la vulcanologia, ragazzi! 

Durante l'attività di un vulcano è difficile capire come stanno le cose, ma soprattutto è impossibile prevedere quello che può accadere anche da qui a poche ore. Esercitarsi nel fare previsioni è come giocare al lotto, solamente che se quando giochi i tuoi numeri non escono non è un problema, se scrivi che succederà una certa cosa e questa non succede fai la figura del bischero.
Cosa che non ho proprio voglia di fare.
Un'altra cosa fondamentale è far capire a chi legge dove arrivano i dati e le prese di posizione di quelli che fisicamente stanno studiando la situazione (quelli dell'Icelandic Met Office sono gli UNICI da considerare come base per poter dire cosa sta succedendo) e dove partono ipotesi, ragionamenti e prese di posizione di chi "mastica la materia" ma riceve i contributi dell'IMO senza poter o voler confrontarsi con loro.

Ci sono poi le prese di posizione di tanti incompetenti, a partire da quelli della maggior parte dei siti meteo italiani e altri dementi sciolti che non sanno nulla ed interpretano “ad minchiam” persino i comunicati dell'IMO.
a questo proposito vi racconto un episodio: quando ho espresso il concetto che la situazione preoccupa più gli italiani che gli islandesi e da noi nascono delle convinzioni assurde, una persona mi ha risposto che erano parecchio preoccupati anche gli islandesi e mi ha citato un breve comunicato dell'IMO (che ovviamente conoscevo perfettamente) in cui si parlava della sismicità nella caldera del Bardarbunga, che come è noto è dovuta alla risposta dell'edificio vulcanico alle variazioni della pressione del magma sottostante. Frase che è stata interpretata da questa persona come “secondo gli islandesi il vulcano sta per crollare”. Follia pura.
Ora, io non sono “il massimo” della competenza ma diciamo che cerco di descrivere per chi è meno ferrato di me nell'argomento quello che dicono all'IMO e in altri posti qualificati. In questo post voglio esplorare quelle che sono le possibili evoluzioni della situazione.


LA SITUAZIONE

- le depressioni a pentola e fratture nel ghiaccio che erano state notate mercoledì sono il segno dello scioglimento di parte del ghiacciaio sottostante; hanno provocato un aumento della portata di alcuni fiumi e del livello di un lago nelle vicinanze e alla fine sono state attribuite all'evento del 23 agosto: cioè quel giorno sotto il ghiacciaio c'è stata davvero una piccola eruzione, durata poche ore La mia opinione personale era che qualcosa fosse successo davvero, ma, al solito, se io penso una cosa e l'IMO dice il contrario, dal punto di vista scientifico non mi sento in grado di sostenere un parere opposto a coloro che monitorano la situazione, non lo trovo coerente con la linea di Scienzeedintorni

- la questione “eruzione sì – eruzione no” dimostra come sia difficile studiare un vulcano sepolto sotto 600 metri di ghiaccio. D'altro canto lo dimostrano anche quei 10 eventi degli ultimi 30 anni classificati come “possibili” eruzioni 

- il timore di mercoledì sera era che i fenomeni sul ghiacciaio fossero correlati con la formazione di fratture nel terreno che si stavano formando giusto in quel momento oltre il limite del ghiacciaio stesso, nella zona sovrastante alla crosta dove l'intrusione continua ad avanzare (come si è visto poche ore fa tali fratture sono davvero state usate dal magma per arrivare in superficie): invece erano il riflesso, arrivato in superficie con molto ritardo della fusione del fondo del ghiacciaio dovuta agli eventi di mercoledì. Di conseguenza c'è stato un leggero aumento della portata di alcuni fiumi e del livello di un lago.

- l'intrusione si estende per quasi 40 km verso NE, nel sistema di fratture detto Trollagigar, che collega il Bardarbunga all'Askja, un altro vulcano della zona. Il suo spessore è inferiore al mezzo metro

- l'arrivo del dicco nel sistema dell'Askja ha provocato l'inizio di attività sismica anche qui, esclusivamente come risposta dell'edificio alle novità nel campo si sforzo apportate appunto da questo fenomeno

- negli ultimi giorni la velocità di avanzamento è diminuita a meno di 2 km/giorno. Questa potrebbe essere la causa dell'eruzione, forse proprio perché l'avanzamento non compensa il volume di magma che arriva

- il fatto che l'intrusione sia andata oltre il limite del ghiacciaio è importante, in quanto, come sta avvenendo ora, la lava esce su suolo libero dai ghiacci e non si formano le interazioni lava – ghiaccio che determinarono le difficoltà del traffico aereo del 2010  


POSSIBILI SCENARI FUTURI 

La prima osservazione è sulla durata dell'attività, che ovviamente influenzerà molto lo scenario:  l'attività potrebbe anche essere cessata mentre scrivo queste note, durare ancora pochi giorni come, addirittura, parecchi anni (è un fatto raro ma in Islanda alle volte è successo davvero). È chiaro che più si va avanti (e a ritmi non inferiori ai 10 milioni di metri cubi al giorno prodotti) e più le possibilità che si verifichi una eruzione importante aumentano

Una variabile importante è il modo con cui cambia la pressione del magma in rapporto alla capacità dell'intrusione di espandersi: la piccola eruzione del 21 agosto, come quella in corso, sono state probabilmente dovute ad un sovraccarico di lava che l'intrusione non è riuscita ad assorbire 

L'IMO aveva constatato come fosse più probabile una eruzione nella zona di avanzata del dicco piuttosto che sotto al vulcano. Così in effetti è stato stanotte
Qualche giorno fa furono pubblicate delle note in cui secondo alcuni ricercatori c'era il rischio di un innesco dell'attività dell'Askja. Devo fare ammenda: mi sembrava fantascienza ma non avevo pensato alla possibilità che nella sua espansione il dicco potesse “centrare” la camera magmatica dell'Askja, cosa che invece è possibile proprio perché il magma si è intruso lungo una linea di debolezza che collega i due vulcani

A questo punto una eruzione direttamente dall'apparato centrale del Bardarbunga è meno probabile e quindi  i rischi di un evento come nel 1471 paiono pochi, a meno che non si svuoti completamente la camera magmatica
Se la cosa dura a lungo le prospettive sono essenzialmente due: il magma fuoriesce PRIMA di arrivare all'Askja e si forma una eruzione lineare oppure arriva alla camera magmatica dell'Askja. Su questo secondo caso oggettivamente non ho molto da dire e non essendo sicuro del fatto mio preferisco glissare

Parliamo un attimo quindi della prima prospettiva: una eruzione lineare che più continua l'attività più appare essere la conseguenza PIÙ PROBABILE (sottolineo più probabile, non sicura), a meno che non venga coinvolto l'Askja.


LE ERUZIONI LINEARI

Avevo parlato delle eruzioni lineari descrivendo la produzione di nuova crosta nel Triangolo dell'Afar. In una eruzione lineare il magma anziché da un cratere ristretto fuoriesce da una frattura o più probabilmente contemporaneamente da una serie di fratture più o meno allineate fra loro.

Di eruzioni lineari l'Islanda ne ha viste parecchie. Una proprio venuta dal Bandarbunga, 8000 anni fa, producendo la maggiore quantità di magma in una eruzione singola dell'Olocene: 21 km cubi.
Quell'evento ha delle analogie con quello attuale: copre quasi 1000 km quadrati in direzione SSW e si produsse lungo un altro sistema di fratture che si diparte dal Bandarbunga, il Thjorsarhraun. La lava in quell'occasione si mosse per 130 km in quanto fu letteralmente canalizzata come un fiume lungo una valle. 
Un altro evento lineare molto importante in Islanda fu quello del 1783/84, il Laki. Ne parlerò diffusamente fra un po' di tempo perché l'ho studiato molto e devo scriverci qualcosa sopra. Ebbe forti conseguenze anche sulla civiltà europea. Ma proprio per quello mi tocca aspettare, perché non voglio essere citato da catastrofisti vari: per arrivare a quei livelli occorre che questo evento si trasformi in qualcosa di particolarmente violento e ad oggi non è detto che debba succedere.

Risolto il problema dell'origine degli ungulati terziari dell'America Meridionale

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Una nuova ricerca effettuata usando il collagene ha finalmente risolto l'inghippo sulla origine dei due gruppi più importanti di mammiferi estinti sudamericani, i Notoungulati e i Litopterni. Era una questione in ballo già dai tempi di Darwin, fra i primi a studiare questi animali. Insomma, sembra ormai assodato che gli antenati di questi mammiferi siano venuti dall'America Settentrionale, attraverso un ponte di isole all'epoca posto sopra la zona di subduzione della crosta del Paleopacifico (la Placca di Farallon) sotto la zolla caraibica. Restano ancora dubbi sull'origine di altri gruppi di ungulati sudamericani (e difficilmente potranno essere risolti in futuro). Ma intanto è stato posto un importante tassello mancante nell'evoluzione dei mammiferi.

Le ricerche collocano l'origine dei mammiferi placentati in Asia settentrionale; i primi esponenti di questo clade, sia pure con caratteristiche ancora non completamente da placentato, sono addirittura giurassici (Juramaia sinensis). I placentati viventi sono suddivisi in quattro gruppi che riflettono la paleogeografia del mesozoico:
  • Laurasiateri (fra i quali carnivori, ungulati e pipistrelli) ed Euarcontogliri (Primati, Roditori, Lagomorfi etc) hanno una origine comune nella Laurasia, il continente settentrionale che comprendeva Nordamerica ed Eurasia (a parte India e qualcos'altro ora in Asia)
  • Afroteri (proboscidati, sirenidi e iracidi) si sono evoluti in Africa. Insieme a loro c'erano nel Terziario altri gruppi di afroteri che però si sono estinti quando le faune africane sono venute in contatto con quelle euroasiatiche, da cui sono state in gran parte soppiantate. Gli unici afroteri che sono riusciti a invadere l'Eurasia sono i proboscidati, i quali da quel momenti hanno conosciuto una distribuzione universale o quasi in tutti gli ambienti, da quelli caldi a quelli freddi.
  • Xenarthri in Sudamerica (formichieri, bradipi ed altri)

Se ormai appare chiara l'origine comune di Laurasiateri e Euarcontogliri (uniti nel clade dei Boreoeuteri) non abbiamo ancora certezze sulle relazioni fra Boreoeuteri, Afroteri e Xenarthri, nel senso che i dati spesso sono in contrasto fra di loro. Il quadro che ho messo, tratto da Springer et al. (2004) è estremamente significativo all'interno dei 4 cladi. Per quanto riguarda i rapporti fra i cladi gli autori sposano la soluzione secondo la quale la prima divisione è fra Afroteri e resto dei placentati, poi si dividono gli Xenarthri dai Boreoeuteria. Ma ci sono ancora altre posizioni possibili.

In questo quadro rimaneva una pesante incertezza, quella che avvolgeva gli ungulati terziari dell'America Meridionale (e almeno di parte dell'Antartide): notoungulati, litopterni, astrapoteri ed altri, le cui prime tracce risalgono al Paleocene e per i quali è stata proposta l'unione nel clade Meridiungulata.
L'America Meridionale ha vissuto isolata da quando si è separata dall'Africa e vi si era sviluppato dalla fine del Cretaceo un bioma autoctono al quale si sono integrati successivamente caviomorfi e scimmie platirrine, arrivati sul continente in maniera ancora non chiara.
Gli ungulati sudamericani hanno condiviso il continente con uccelli del terrore, carnivori marsupiali e tante altre forme tipiche, fra cui i placentati xenarthri e ne esiste una discreta documentazione fossile perché, oltre ai classici depositi fluviolacustri, le tante eruzioni esplosive dei vulcani andini ne hanno consentito la fossilizzazione alla base di depositi tufacei. Pertanto sono stati istituiti oltre 250 generi di questi mammiferi, il che ci dà un'idea della loro biodiversità.

Darwin nel suo viaggio intorno al mondo con la Beagle vide diversi fossili di questi animali. Ne notò le particolarità ma poi commise anche un errore (che, immagino, gli si possa perdonare...) attribuendo ad alcuni di loro lo status di antenati di mammiferi sudamericani attuali (per esempio pensò a Macrauchenia come antenato del Guanaco).

Astrapoteri, Xenoungulati e Pyroteri sono noti solo per poche forme di grandi dimensioni; sono scomparsi precocemente, tra Paleocene e Oligocene.
I Notoungulati erano il gruppo più numeroso: estremamente diversificati e diffusi, hanno occupato una vastissima serie di nicchie ecologiche e dato vita a forme piccole e grandi. 
Meno diffusi e diversificati, i Litopterni erano erbivori di medie dimensioni dalle abitudini probabilmente simile a quella degli equidi. Gli ultimi sparuti esponenti di questi due gruppi si sono estinti poco tempo fa, al passaggio Pleistocene – Olocene.

Ho detto gli ultimi sparuti esponenti perché, analogamente a quanto è successo da 39 milioni di anni fa in poi agli Afroteri, quando si formò l'istmo di Panama e i placentati del nord America invasero il continente questo contatto 3 milioni di anni fa è stato fatale per buona parte dei mammiferi sudamericani: quasi tutti i notoungulati, litopterni, uccelli del terrore e marsupiali carnivori si estinsero, mentre poco dal sudamerica arrivò nel nord (per esempio primati, opossum, armedilli e qualche uccello carnivoro oggi estinto). Solo pochissimi notoungulati e litopterni sono sopravvissuti fino al Quaternario per estinguersi solo 10.000 anni fa.

Il fatto che non esistano forme viventi ha impedito fino ad oggi di capire i rapporti fra questi ungulati e i quattro cladi principali dei mammiferi. E non tutti gli Autori sono concordi sulla loro origine comune: per esempio c'è chi ha proposto una origine nordamericana per i Litopterni e dall'Africa per i Notoungulati, il che ha impedito un consenso totale nella loro unione nei Meridiungulata
Gli altri gruppi sono ancora meno inquadrabili. Inoltre siccome le prime testimonianze risalgono al Paleocene c'è una ulteriore complicazione: sostanzialmente i mammiferi di quel tempo sono molto diversi da quelli successivi e quindi è più difficile trovare riferimenti validi. 

Due erano le possibilità più gettonate: una parentela con gli Afroteri (e forse con gli Xenarthri) oppure una discendenza da ungulati paleocenici nordamericani.

Da un punto di vista paleogeografico indubbiamente l'origine africana è più semplice: contatti fra i due continenti possono esserci stati anche in tempi successivi alla loro generale separazione (e in qualche modo ci sono stati, come dimostrano caviomorfi e scimmie del nuovo mondo, ma si vocifera da tempo anche di qualche possibile passaggio in senso inverso sempre nell'Eocene o giù di lì). 
Una origine nordamericana passa invece per una catena di isole che tra fine Cretaceo e Paleocene congiungeva la parte meridionale dell'America Settentrionale con la parte più settentrionale della cordigliera andina nella zona caraibica. Questo arcipelago era la conseguenza della subduzione della placca di Farallon (che costituiva il fondo del lato occidentale dell'Oceano Pacifico) sotto la zolla caraibica (in pratica corrispondeva alla zona più stretta dell'ogierna America Centrale. È comunque curioso che a parte i pipistrelli non sembra ci siano stati altri rapporti faunistici fra le due Americhe almeno fino al grande interscambio americano avvenuto alla stabilizzazione dell'istmo di Panama, 3 milioni di anni fa.

Per risolvere la questione, c'è chi ha tentato di estrarre il DNA dai fossili più recenti, approfittando della loro presenza fino almeno a 12.000 anni fa, ma purtroppo il clima caldo e umido ha impedito qualsiasi ridultato. Oggi è invece possibile lavorare con una proteina, il collagene, più stabile del DNA.
Sono stati utilizzati fossili dei generi Toxodon e Macrauchenia.
Toxodonè uno degli ultimi Notoungulati. Il suo stile di vita doveva assomigliare a quello degli ippopotami e probabilmente questa è stata la chiave della sua sopravvivenza in quanto non si è trovato in conflitto con i nuovi venuti. La sua estinzione è recentissima, praticamente al passaggio Pleistocene – Olocene, in sincronia con il resto della megafauna sudamericana.
Analogamente al resto delle estinzioni della megafauna avvenute proprio in quel momento da ogni parte della Terra, è stato proposto un coinvolgimento dell'uomo, da poco insediatosi nel continente. È possibile che si sia davanti ad un mix di cause: oltre alla caccia quei tempi sono stati contrassegnati da imponenti cambiamenti climatici e i mammiferi di grandi dimensioni, dal ciclo vitale lento, sono più vulnerabili ai cambiamenti rispetto a forme piccole, dal ciclo riproduttivo breve. La possibilità che uno dei più recenti reperti di Toxodon, un dente trovato nel Brasile meridionale, mostri segni di attività umana è ancora in discussione.
Macrauchenia rappresenta gli ultimi litopterni. La chiave della sua sopravvivenza al grande interscambio americano sono state le grandi dimensioni (era una belva lunga fino a 3 metri) e, probabilmente, il vivere in branchi: difficile la sua predazione. Anch'esso è scomparso al passaggio Pleistocene – Olocene.

Studiare fossili appartenenti a due ordini diversi (e spesso considerati di origine diversa) fornisce indicazioni utili anche sulle possibili parentele reciproche.
La prima notizia è che Litopterni e Notoungulati sono più simili fra loro che ad altri mammiferi. Pertanto questo suggerisce una origine comune degli ungulati terziari sudamericani (almeno di questi due ordini) e risolve il primo problema: non ci sono stati apporti da più continenti e la definizione di Meridiungulataè utilizzabile almeno per Notoungulati e Litopterni.

Per quanto riguarda la loro parentela con altri mammiferi, il collagene di Toxodon e Macraucheniasuggerisce una forte relazione con i perissodattili, gli ungulati a dita dispari (cavalli, tapiri e rinoceronti). I perissodattili, oggi molto ridotti in numero e diversità, hanno un passato glorioso nel Terziario inferiore.
Non solo, ma i dati dimostrano che gli antenati di perissodattili e Meridiungulata si sono separati fra loro dopo lo split fra Artiodattili e Perissodattili, probabilmente ancora nel Cretaceo.
È quindi esclusa una parentela degli ungulati sudamericani con i mammiferi originari dell'Africa. Vediamo quindi il posto dei Meridiungulata nel diagramma di Springer.

Purtroppo gli altri tre gruppi di ungulati sudamericani (Astrapotheria, Xenungulata e Pyrotheria) si sono estinti a metà del Terziario e quindi non è possibile applicare le tecniche genetiche su questi fossili.
Gli astrapoteri sono considerati parenti stretti dei notoungulati, per cui i dubbi sono molto pochi. Meno definita è la questione per Xenungulati e Piroteri, per i quali un'origine africana è ancora una possibilità, sia pure a questo punto più difficile di prima.

M.S. Springer, M.J. Stanhope, O.Madsen e W.W. de Jong (2004): Molecules consolidate the placental mammal tree - Trends in ecology and evolution 19, 430 - 438


Antibufala: i crateri gemelli australiani di cui si è parlato in questi giorni sono paleozoici e quindi a dispetto degli strepiti non potrebbero in ogni caso avere relazioni con l'estinzione dei dinosauri

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Una ricerca di alcuni geologi australiani sulla presenza di possibili tracce della caduta di meteoriti nel centro del continente ha avuto un impatto (è il caso di dirlo) mediatico piuttosto forte, specialmente perché è ancora radicata l'idea (sbagliata) che alla base delle estinzioni di massa ci siano appunto eventi astronomici di questo tipo. Qualcuno ha addirittura pensato (ma va...) all'estinzione dei dinosauri (e si continua con la bestialità di sostenere che i dinosauri si siano estinti per un impatto). In più dalle varie notizie in giro non si capiva l'età in cui sarebbe successo tutto questo e qualcuno addirittura ha scritto che neanche gli Autori avessero idea del momento. Tutto sbagliato: ho cercato l'articolo originale, l'ho letto e ho tratto alcune conclusioni. Soprattutto una:per gli Autori l'età dell'eventuale impatto è molto circoscritta tra Devoniano e Carbonifero, e quindi molto lontana dal Mesozoico. il probabile (anzi probabilissimo) impatto è molto più antico, siamo a cavallo fra Devoniano e Carbonifero, circa 350 milioni di anni fa e non 65. E quindi chiudiamo anche questa vicenda che è servita comunque a qualcuno per incassare visite a siti che sarebbe meglio non si impicciassero di cose "che non sanno e non intendono"....

Innanzitutto questo è l'articolo: A.Y. Glikson, A.J. Meixner, B. Radke, I.T. Uysal, E. Saygin, J. Vickers & T.P. Mernagh (2015): Geophysical anomalies and quartz deformation of the Warburton West structure, central Australia, pubblicato sulla rivista Tectonophysics, vol. 643, pagine 55–72.

Si tratta di uno studio che oltre a fornire dei dati nuovi offre una sintesi di tutto quello che si sa su quella zona.
Nonostante per me per l'ordine in cui sono state messe le cose non agevola la chiarezza della trattazione, abbiamo un caso abbastanza raro nella letterature scientifica in cui si riesce a leggere un lavoro senza dover ricorrere alla lettura di altri articoli per entrare nell'argomento (è necessario solo un accenno alle serie sedimentarie e magmatiche di cui si parla, facilmente reperibile in documenti liberamente consultabili).

Inquadriamo l'area: siamo praticamente nel centro dell'Australia, in una zona che è stata studiata anche per la presenza di possibili giacimenti di idrocarburi. Consta di due aree diverse, due bacini che hanno anche una storia diversa.
Il bacino di orientale di Warburton ha una storia complessa: una sequenza del Paleozoico inferiore è stata deformata nel Carbonifero dall'orogenesi di Alice Springs, durante la quale si sono formati i graniti della Lake Suite, anch'essi deformati; successivamente il tutto è stato ricoperto tra Carbonifero superiore e Terziario dai sedimenti del bacino di Cooper. La sedimentazione quindi si è interrotta soltanto nel Carbonifero inferiore durante l'evento tettonico di Alice Springs. Entrambe queste serie sono ben conosciute in quanto sono stati fatti diversi pozzi, anche per esplorazione petrolifera
La stratigrafia del bacino di Warburton occidentaleè diversa: non è stato toccato dall'orogenesi di Alice Springs perché l'area faceva parte della zona non deformata che si trovava davanti alla fascia tettonizzata. C'è una sequenza sedimentaria del Paleozoico inferiore (Cambriano – Ordoviciano) accompagnata alla base da un vulcanismo basaltico tipo quello di un rift. Dal Paleozoico medio invece la situazione si fa più complessa perché ci sono state diverse fasi di sedimentazione centrate in varie zone del bacino, intervallate da fasi di assenza di sedimentazione se non addirittura da fasi deformative.

L'anomalia magnetica positiva del bacino orientale non può essere associata ai graniti della Lake Suite (ne darebbero una negativa), bensì ad un corpo magmatico di composizione più basica contenuto ad una profondità di circa 6000 metri e che dovrebbe trovarsi in mezzo alla sequenza sedimentaria del bacino di Cooper.
Il bacino occidentale presenta anomalie del tutto simili simili. Annoto che ad occidente l'anomalia magnetica è spiegabile con la presenza di un corpo vulcanico basico formatosi durante la fase di rift.
I due bacini di Warburton hanno quindi storie molto diverse ma presentano la curiosa similitudine di avere varie anomalie geofisiche gemelle.
La faccenda quindi si fa intrigante, anche perché in Australia di zone con anomalie simili ce ne sono tante. E fra queste, una è chiaramente associata ad un impatto.

E che uno o più impatti abbiano colpito l'area lo dicono molti indizi.
Innanzitutto le strutture addebitabili ad uno shock improvviso in molti cristalli di quarzo, simili a quelle effettivamente trovate intorno a diversi crateri da impatto di varia età e collocazione geografica. Da notare che queste lamelle si trovano sia nella serie pre – carbonifera che in quella successiva, ma solo quelle nell'ambito più antico mostrano di essersi formate in situ, mentre quelle dei sedimenti post carboniferi appartengono a materiali erosi e ridepositati dopo l'evento che le ha causate.
Comunque, ci sono altre evidenze importanti della possibile presenza di due crateri:
- un gradiente geotermico elevato: è stato osservato diverse volte che dopo un impatto di certe dimensioni, l'area è divenuta sede per un periodo anche lungo di attività geotermica. Il tutto viene spiegato con la formazione durante l'impatto di fratture nella crosta, a profondità notevoli, lungo le quali risalgono fluidi idrotermali
- ci sono precise indicazioni sulla esistenza di queste fratturazioni profonde
- alcune caratteristiche geochimiche dei graniti della Lake Suite: in particolare un anomalo arricchimento in metalli pesanti, che potrebbe proprio provenire da questi fluidi risaliti dal basso

Dopodichè c'è un problema di non trascurabile importanza: mancano i crateri e mancano i depositi a loro associati, gli ejecta, formati da materiali schizzati in aria per l'impatto.
Per spiegarlo viene ipotizzato il probabile sollevamento dell'area di oltre 5000 metri durante l'orogenesi di Alice Springs, necessario a portare in superficie i graniti della Lake Suite. Questo sollevamento avrebbe distrutto anche le tracce del cratere. Se poi l'impatto è avvenuto in una zona che si è successivamente deformata (in questo caso con l'orogenesi di Alice Spring) è abbastanza ovvio che di tracce non se ne vedano più. La storia delle lamelle di quarzo dice la stessa cosa, dato che quelle in posizione originaria appartengono solo a sedimenti deposti prima dell'evento tettonico.

C'è quindi la reale possibilità che i due bacini di Warburton costituiscano un ricordo della formazione di due crateri gemelli, provocati da un corpo che si è diviso in due cadendo (ma ci sono anche dei meteoriti apparentemente unici che invece sono formati da due o più pezzi tenuti insieme dalla loro debole gravità).
Alcuni autori hanno precedentemente ipotizzato persino che i bacini di Warburton siano parte di una struttura ancora più grande, dal diametro di 800 km.

A questo punto bisogna fare delle considerazioni:
1. l'impatto non è confermato da dati diretti come un cratere o livelli di brecce da impatto, ma solo da tutte queste tracce indirette (che in ogni caso rappresentano indizi piuttosto sicuri)
2. l'impatto da un punto di vista temporale si colloca tra Devoniano e Carbonifero. Quindi il can can mediatico sulla possibile relazione fra questo duplice impatto e l'estinzione dei dinosauri è una bufala (come comunque anche quella che l'estinzione sia avvenuta per colpa del meteorite caduto nello Yucatan.... ma vabbè.... 



200 anni fa l'eruzione del Tambora.: 1. un vulcano non ordinario e l'eruzione dell'aprile 1815

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In ritardo come spesso mi succede, mi sembra giusto ricordare un evento fondamentale della storia umana e della vulcanologia avvenuto esattamente 200 anni fa (giorno più giorno meno): l'eruzione del Tambora dell'aprile 1815. I materiali prodotti dall'eruzione (sul volume dei quali il dibattito è ancora aperto a dispetto della sicurezza di svariati siti e le stime degli ultimi 30 anni sono molto più basse rispetto a quelle tradizionali) diminuirono la quantità di luce solare al punto di abbassare di almeno un grado e mezzo le temperature della superficie terrestre: per questo il 1816 è passato alla storia come l'anno senza estate. Dedicherò al Tambora e alla sua eruzione del 1815 due post: il primo è centrato sul punto di vista vulcanico, perché siamo davanti a un qualcosa di diverso dal classico stratovulcano indonesiano a magmi calcalcalini, sia pure sempre nel contesto della convergenza fra la zolla indoaustraliana e quella euroasiatica sovrastante; il secondo post verterà sugli effetti climatici di questo devastante evento, che hanno provocato un certo trambusto sociale.

Il Tambora sorge in una delle piccole isole della Sonda, Sumbawa. A Sumbawa affiorano essenzialmente rocce magmatiche piuttosto giovani, della famiglia dei graniti, formatesi una trentina di milioni di anni fa sempre a causa dello scorrere della zolla indoaustraliana sotto il continente euroasiatico. I movimenti tettonici hanno poi sollevato queste rocce fino a farle arrivare in superficie e sopra di esse si sono deposti dei calcari.
Il Tambora non è l'unico vulcano attivo o recente di Sumbawa ed è in una zona abbastanza complessa geologicamente parlando, molto meno lineare rispetto alla parte più occidentale dell'arco della Sonda, quella tra Giava e Sumatra. Prima del 1815 il vulcano era alto ben 4300 metri ed è ancora oggi una montagna imponente: a livello del mare ha un diametro di 60 km e il bordo della caldera, dal diametro di oltre 6 km, si trova a oltre 2800 metri di altezza. 

La prima sorpresa studiando il Tambora è il vulcano stesso: lì per lì, vista la sua collocazione, uno penserebbe ad un classico stratovulcano indonesiano che emette magmi ad affinità calcalcalina, sovrassaturi in silice, un tipo di vulcani spesso alla ribalta in quanto ad esplosioni, grandi o piccole (poco meno di 70 anni dopo sempre in Indonesia esplose il Krakatoa) e tipicamente correlato allo scontro fra zolla indoaustraliana e zolla euroasiatica.
Partiamo dalla sua forma: diversi siti riportano il Tambora come stratovulcano (compresa Wikipedia e il ben più autorevole Global Volcanism Program dello Smithsonian) ma nella letteratura scientifica la maggior parte degli Autori lo descrive come un vulcano a scudo, tipo quelli delle Hawaii e la base dell'apparato etneo, o quantomeno “simile ad un vulcano a scudo”, in quanto a differenza dei vulcani Hawaiiani ci sono anche dei livelli di tufi e ceneri varie. In effetti come si vede dalla foto i suoi fianchi hanno una pendenza minore di quella dei classici stratovulcani. 

La seconda stranezza, che deriva dalla prima, sono i suoi magmi: sottosaturi in silice, appartengono alla serie potassica e il loro comportamento è simile a quello dei basalti hawaiiani: prevalenza di lave su prodotti piroclastici. E mancano le classiche andesiti indonesiane.
Dopodichè una terza stranezza: un vulcano a scudo su cui avviene una esplosione devastante (anzi, la più devastante degli ultimi 500 se non 1000 anni).
Insomma, un vulcano a scudo in un margine attivo di zolla, con lave alcaline e che esplode. Tutto questo li per lì ti fa dubitare di quello che hai studiato. Ma (ovviamente!) c'è una soluzione razionale a tutte queste apparenti stranezze.

Cominciamo con il dire che altri, sia pur pochi, vulcani in Indonesia, tra Giava e Flores, mostrano le stesse caratteristiche petrologiche. Li vediamo raffigurati in questa carta, sono quelli con il cerchietto pieno: notiamo che sono tutti in posizione più settentrionale rispetto ai ben più numerosi vulcani che emettono magmi calcalcalini. Quindi non è un caso isolato e soprattutto il Tambora è coerente con la vulcanologia dei dintorni. 


APRILE 1815 - CRONACA DI UNA ERUZIONE

Nel 1815 il Tambora si è svegliato dopo almeno un migliaio di anni di silenzio. 
Naturalmente all'epoca non c'erano i dispositivi di oggi e quindi nessuno si poteva accorgere della attività sismica iniziata sotto il vulcano (ignoro se nei fianchi del vulcano ci fosse attività fumarolica, ma la trovo una ipotesi fondata; nel caso anch'essa avrà presentato cambiamenti). 

I primi segni dell'attività si evidenziarono circa un anno prima di quel 5 aprile 1815, data nella quale comparve sopra il vulcano una colonna di ceneri e gas. Ci furono anche le prime esplosioni che furono sentite a centinaia di km di distanza. Il giorno dopo la cenere del Tambora era già arrivata su Giava.
Siccome le esplosioni furono ritenute salve di cannoni la cosa destò un serio allarme e ci furono movimenti di truppe e di navi. Questo tipo di attività continuò ad un livello costante fino al tardo pomeriggio del 10 aprile, quando improvvisamente il ritmo aumentò; seguì la deposizione di uno spessore di pomici che nelle vicinanze del vulcano ha raggiunto il mezzo metro, dopodichè ci fu un primo collasso con il quale precipitò in basso una enorme massa di materiali (più o meno come a Pompei) che travolse tutto quello che trovò sulla sua strada con uno spessore variabile tra 5 e 30 metri. È l'ignimbrite inferiore. 
Secondo alcuni Autori la colonna eruttiva raggiunse i 43 km di altezza. 
Il tutto è sintetizzato nell'immagine sottostante, presa da un eccellente lavoro di Self e Rampino del 1984.


Ci sono decine di testimonianze anche sulle reazioni popolari in tutta l'Indonesia. Fra le più bizzarre quella degli abitanti di Martapura, nel Borneo meridionale: videro “oro cadere dal cielo” e qualcuno prese la cenere con l'intenzione di venderla come medicinale.... 

Intorno al vulcano questi depositi coprirono la penisola di Sanggar fino al mare. È interessante notare che, comunque,  l'attività di emissioni di ceneri continuò anche durante la produzione dell'ignimbrite. 
Quando l'ignimbrite arrivò al mare produsse uno tsunami. Per un paio di giorni nella zona il buio fu quasi assoluto e i boati furono sentiti ad oltre 1000 km di distanza.
L'attività è diminuita velocemente dopo l'11 aprile, proseguendo in maniera sempre più debole e saltuaria fino ad agosto. 

Il bilancio di perdite umane fu subito importante: 10.000 persone circa sono state sepolte dalle nubi ardenti, mentre altre morirono sempre a Sumbawa in seguito per patologie respiratorie o per le conseguenze dell'accumulo nelle acque, negli animali e nelle piante di sostanze velenose (fra le conseguenze dell'eruzione del Laki di pochi anni prima si annovera la decimazione del bestiame in Islanda proprio per le conseguenze delle emissioni gassose). Alla fine i morti furono 90.000. 
L'eruzione dovrebbe aver messo la parola fine ad un corpo magmatico di circa 30 km cubi di volume che esisteva sotto al vulcano, a profondità davvero basse, pochi km (per questo mi domando se c'erano fumarole o altro prima del 1835). Evidentemente è successo qualcosa che ha modificato gli equilibri nella crosta superficiale e ha dato il via all'eruzione.

La quantità di ceneri prodotte varia molto da Autore ad Autore. Questo perché una buona parte è caduta in mare e quindi il calcolo è piuttosto difficile, ma si è deposto almeno un centimetro di cenere in un'area che se fosse stata una terra emersa avrebbe contato mezzo milione di km quadrati. Alcuni carotaggi effettuati nei mari indonesiani  hanno fornito volumi un po' troppo elevati, segno che in qualche modo i depositi del Tambora finiti in mare sono stati rimossi da dove sono originariamente caduti. Le ultime stime danno meno di 60 km cubi di prodotti.
Dopo il 1815 il vulcano ha avuto vari cicli di moderata attività. Anche negli ultimi anni abbiamo assistito a periodiche piccole esplosioni e lanci di ceneri, ma nulla di particolare. 

L'ORIGINE DEI MAGMI DEL TAMBORA

Abbiamo visto che pur essendo in un contesto di collisione fra zolle, i magmi del Tambora non sono i classici magmi calcalcalini. Le ultime analisi geochimiche suggeriscono la loro derivazione dalla fusione parziale di lave basaltiche. La presenza sotto all'Indonesia della crosta dell'oceano indiano subdotta sotto la placca euroasiatica è naturalmente la logica sorgente di questi magmi, che si formano però dove la zona di subduzione è più profonda rispetto alla parte più meridionale dell'arco magmatico, in una zona che si può chiamare arco posteriore (rear arc), in cui la zona in subduzione si trova a profondità maggiore rispetto a quella sopra la quale vengono genenati i classici magmi calcalcalini di arco.

E veniamo alla terza stranezza: l'esplosione in un vulcano a scudo. Un vulcano a scudo è sinonimo di attività hawaiiana: i gas vengono rilasciati in maniera dolce in quanto il magma che fuoriesce in grande quantità è caldo e fluido. Quindi ci sono poche ceneri.
Però proprio in Italia abbiamo un altro esempio di magmi potassici che hanno provocato un guaio simile: l'ignimbrite campana di 39.000 anni fa che la maggior parte degli Autori attribuisce ai Campi Flegrei. 
Anche in Campania siamo davanti ad un contesto di scontro fra zolle, sia pure ben diverso da quello indonesiano. E, quindi, anche questa ultima stranezza diventa normalità.
E ci sono altri vulcani con magmi di questo tipo che sono capaci di fare cose sullo stesso stile.

Inoltre sul Tambora ci sono evidenti segni di una eruzione simile avvenuta ben oltre i 40.000 anni, fa la cui caldera è stata successivamente ricoperta da quelle lave che hanno prodotto l'enorme montagna esistente fino al 1815.

Quindi il Tambora è un vulcano un po' particolare ma pur sempre compatibile con il quadro tettonico della zona dove sorge e dal comportamento in linea con quello dei suoi magmi.
Sarebbe interessante però capire cosa ha portato all'eruzione, cioè perchè dopo un lungo periodo di calma è successo tutto questo. Potrebbe essere utile anche in funzione proprio dei nostri Campi Flegrei. 

Nel prossimo post parlerò invece della crisi climatica e delle sue conseguenze storiche, di cui alcune sono sicuramente reali. Altre sono meno sicure ma fortemente probabili.

200 anni fa l'eruzione del Tambora: 2. le conseguenze politiche e sociali delle modificazioni climatiche negli anni immediatamente successivi

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E veniamo al secondo post sull'eruzione del Tambora di 200 anni fa esatti. La grande perturbazione climatica dovuta all'eruzione ha inciso molto sul clima fresco che ha caratterizzato la decade 1810 – 1819, la più fredda degli ultimi 500 anni. Su questo aspetto ha influito un'altra eruzione stratosferica, avvenuta non si sa ancora dove(ma sicuramente vicino all'equatore) alla fine del 1808 e i cui effetti dovrebbero essere durati almeno fino al 1811.
In Europa, USA e Asia sono successe tante cose in quegli anni, innescate proprio dal clima infame. La scarsità di piogge monsoniche in Asia ha rovinato i raccolti per anni, mentre al contrario in Europa fame e carestie sono state provocate dal freddo ma anche dalle troppe piogge tra il 1816 e il 1818!
A questo, in una Europa ancora scossa dalla tempesta rivoluzionaria francese (che fra le sue cause annovera le conseguenze climatiche dell'eruzione del Laki del 1783), sono seguiti anche importanti cambiamenti politici.

COME E PERCHÈ IL TAMBORA INNESCÒ LA CRISI ATMOSFERICA

Gli effetti a livello climatico dell'eruzione del Tambora sono stati davvero imponenti. Ricordo negli ultimi 200 anni altri eventi del genere originatisi in Indonesia: l'esplosione del Krakatoa, nello stretto che separa Giava da Sumatra (1883) e quella dell'Agung a Bali (1963). Nel 1991 toccò invece al Pinatubo, nelle Filippine.
Nessuno di questi ha avuto però la stessa importanza: è interessante notare come l'intensità delle emissioni nella fase parossistica sia stata più o meno simile tra il Tambora e il Pinatubo, ma la differenza fondamentale fra i due eventi sta nella loro durata: il parossismo del 1815 fu 6 volte più lungo di quello del 1991.
Ed è altrettanto interessante notare come il Tambora abbia rilasciato meno SO2 rispetto all'eruzione del Laki del 1783, ma, a dimostrare l'importanza dello stile eruttivo oltre a quella della semplice quantità delle emissioni, ha generato più aerosol nella stratosfera perché la colonna eruttiva è risultata molto più alta di quella islandese che si fermò a soli 13 km dalla superficie.

Il biossido di Zolfo (SO2) una volta iniettato nell'atmosfera, viene ossidato e idrato formando un aerosol di acido solforico e acqua. Se questo rimane nella troposfera, la parte più bassa dell'atmosfera terrestre, l'SO2è un gas – serra (e quindi porterebbe ad un aumento delle temperature); ma se riesce ad arrivare nella stratosfera (che comincia a circa 15 km di altezza) altera il bilancio della radiazione solare, disperdendola e rimandandone indietro una parte: per cui provoca un raffreddamento che viene risentito dalla vegetazione e dalla superficie del mare. Inoltre gli aerosol interferiscono con lo strato di ozono.
Grandi eruzioni come quella del Tambora sono denominate eruzioni stratosferiche perchè la colonna eruttiva passa abbondantemente i 15 km di altezza e quindi i prodotti vengono scaricati direttamente nella stratosfera, dove arrivano in pochi minuti.

Per questo esiste una coincidenza molto precisa fra emissioni di ingenti quantitativi di biossido di zolfo delle più grandi eruzioni avvenute in età storica e momentanee diminuzioni delle temperature globali.
All'effetto degli aerosol di zolfo si deve aggiungere l'effetto schermante delle polveri sottili.

La concentrazione di SO2 diminuisce molto più rapidamente di quella di CO2 perché gli aerosol hanno una permanenza nella statosfera molto più breve, dell'ordine dell'anno, soprattutto perché ridiscendono di quota abbastanza velocemente: in generale il ciclo di basse temperature causato dalle eruzioni stratosferiche si conclude dopo 3 anni.


IL 1816: L'"ANNO SENZA ESTATE"

Gli effetti dell'eruzione del Tambora sono stati incisivi al punto tale che il 1816 è stato chiamato “l'anno senza estate” e appartiene alla decade più fredda degli ultimi 500 anni (1810 – 1819). Gli effetti, come c'era da aspettarsi, non si limitarono al 1816, proseguendo intensi almeno fino al 1818.
Ci sono degli indicatori sul fatto che l'evento originatosi a Sumbawa abbia amplificato gli effetti di una fase di raffreddamento preesistente, il cui motivo è da ricercare in un'altra eruzione stratosferica, di localizzazione ancora sconosciuta. Si sa solo che è avvenuta tra la fine di novembre e i primi di dicembre del 1808 grazie ad alcune osservazioni scientifiche eseguite in America Meridionale; si sa anche che è localizzabile intorno ai tropici perchè le sue tracce si trovano sia in Groenlandia che Antartide: eruzioni stratosferiche a latitudini maggiori di quelle tropicali possono inviare le loro emissioni di zolfo soltanto nelle calotte glaciali del proprio emisfero e sicuramente non nell'America tropicale perché era già sufficientemente abitata e studiata: un evento del genere non sarebbe potuto passare inosservato da quelle parti.

La diminuzione delle temperature causò ingenti danni all'agricoltura, con il conseguente corollario di carestie, aumento della mortalità ed emigrazioni, il tutto con risvolti politici e sociali di grande importanza.

Il 1816 in Europa occidentale e nel Mediterraneo Occidentale è stato caratterizzato da temperature anche di più di 3°C inferiori alla media e da piogge intense (in Giugno addirittura piovve il doppio del normale!); al contrario tra Scandinavia e Mar Nero il clima si è poco discostato dalla media.
Nella immagine tratta da J. Luterbacher and C. Pfister: The year without a summer, pubblicato in aprile su Nature Geosciences, si vedono gli scostamenti dalla media di temperature e precipitazioni nel giugno 1816:


La conseguenza fondamentale è stata la ritardata maturazione delle coltivazioni; se in Francia e in Svizzera l'uva non maturò nemmeno, in tutta questa vasta area poche coltivazioni giunsero a termine e a causa dell'umidità esagerata una buona parte dello scarso raccolto marcì. La carestia fu particolarmente elevata nelle Isole Britanniche (in Irlanda a causa dei danni alle coltivazioni di patate, anche se questa non è la grande carestia che sconvolse l'isola 40 anni dopo).
Il disturbo continuò almeno fino al 1818 e provocò una prima consistente emigrazione dall'Europa all'America.
Non sono invece molto convinto del nesso (ampiamente sostenuto soprattutto fuori dalla letteratura scientifica) fra la sconfitta patita da Napoleone a Waterloo e l'eruzione del Tambora, perché, nonostante il quadro molto anomalo delle forti piogge avvenute nei giorni precedenti la celebre battaglia sia coerente con quello che è successo l'anno dopo, questa avvenne appena due mesi dopo l'eruzione: mi pare un pò troppo presto. È invece possibile che i tumulti avvenuti in molte zone della Germania abbiano influito sui tentativi riformatori da cui in vari stati tedeschi si originarono i primi abbozzi dei poteri parlamentari odierni.
Un nesso piuttosto sicuro è invece quello con una violenta epidemia di colerache iniziò nel 1817 in India, una delle aree più colpite dagli eventi climatici.
Nei giovani Stati Uniti il freddo provocò una crisi agricola che è probabilmente alla base della prima grande crisi finanziaria degli States, il cosiddetto panico del 1819.

Il clima freddo e piovoso dell'Europa Occidentale è stato correlato all'indebolimento dei monsoni asiatici. Ed in effetti anche in Asia ci furono grossi problemi.
Un monsone estivo forte porta abbondanti precipitazioni (e temperature più calde) sull'Asia mentre se è debole le precipitazioni sono meno abbondanti e il clima è più fresco.
Viceversa sono risultati più forti i monsoni invernali, che portarono freddo e incrementarono ulteriormente le condizioni siccitose.
Pertanto in Asia l'improvviso indebolimento del monsone estivo causò una riduzione della produzione agricola. Gli anni tra il 1816 e il 1818 furono durissimi e non solo in Indonesia: anche la Cina (in cui si verificarono gravi lotte etniche) e l'India furono colpite ed è logico vista la quasi totale dipendenza per il sostentamento delle zone rurali e delle città dai raccolti propiziati dal caldo e dalle piogge del monsone estivo.
Tutto questo, colpendo essenzialmente l'economia locale, consentì una maggiore presa da parte del colonialismo europeo.

È quindi evidente che anche se molto probabilmente le piogge che precedettero la battaglia di Waterloo non hanno una relazione con il Tambora perché avvenute troppo precocemente, per il resto di conseguenze economiche, politiche e sociali questa eruzione ne ha indotte parecchie, per non parlare di chi è morto direttamente o indirettamente per la fame e le malattie!

Frane a forte componente orizzontale causate da sottili livelli particolari: gli "Orizzonti Proni allo Scivolamento" come importante causa di fenomeni franosi

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Quando a seguito di un crollo improvviso si capisce che il problema stava in una debolezza di base non considerata, si parla di gigante con i piedi di argilla. Questo vale in tutti i campi, da quello naturale a quello economico. In Geologia alcune frane hanno origine proprio dalla presenza alla base di pareti rocciose (anche alte centinaia di metri) di minime discontinuità litologiche. Avevo detto in un post precedente che in Inghilterra le frane sono un fenomeno quasi sconosciuto, tranne che su aree costiere. A leggere letteralmente il termine “landslide” si percepisce bene il senso di uno scivolamento e non di un crollo: questo perché la maggior parte delle frane di quel Paese sono proprio degli scivolamenti lungo una superficie spesso suborizzontale o inclinata di pochi gradi su degli orizzonti particolari, che si attivano all'improvviso: spessi pochi centimetri ma capaci di far collassare tutto quanto sta loro sopra, sono denominati SPH (Slide Prone Horizons – orizzonti proni agli scivolamenti) e spesso sono di difficilissima rilevazione. Per parlare di questo argomento è venuto a Firenze il professor Edward Bromhesd dell'Imperial College di Londra, uno dei massimi esperti mondiali dell'argomento. Pubblico volentieri un post su questo argomento, anche per i tristissimi riflessi di casa nostra: dopotutto anche la tragedia del Vajont è nata da un SPH....

Quella parete di roccia sembrava eterna: una scogliera di argille, arenarie e calcari sedimentatasi in un ambiente che cambiava di continuo: depositi di mare poco profondo, di laguna, delta e pianura costiera mescolati in un insieme disordinato. Una manna per i paleontologi, che vi trovavano ogni genere di animali, dai molluschi a resti di grandi vertebrati.
D'accordo, l'erosione agisce sempre e in continuazione, dilavando la roccia e generando numerosi, piccoli crolli; ma un giorno tutto questo ben di Dio si afflosciò miseramente ed improvvisamente su se stesso. La massa principale si spostò di parecchi metri, rimanendo comunque in gran parte intatta, pur se in una posizione più bassa di prima e inclinata.
La cosa incredibile è che tutto questo caos è stato guidato da un livelletto di pochi centimetri di spessore che non era stato riconosciuto. Questa sezione in particolare è sull'isola di Wight e il livello che ha causato il pandemonio è situato alla base del Gault, una argilla del Cretaceo inferiore.

Ma come è possibile che uno straterello di 3 centimetri possa mandare in crisi una serie di rocce spessa decine di metri? Semplice, basta che sia un “orizzonte prono allo scivolamento", meglio noto come SPH, Slide Prone Horizon, una denominazione ideata da John Hutchinson e da Edward Bromhead nel 2002.
Gli SPH sono delle bombe a orologeria: livelli particolari o per composizione o perché lungo essi si individua una discontinuità; la loro resistenza meccanica (in special modo a sforzi di taglio) può abbassarsi in maniera drastica ed improvvisa, di solito per colpa delle piogge.
Insomma, un corpo roccioso è tenuto insieme semplicemente grazie alle forze di attrito. Ecco, l'improvviso crollo della resistenza al taglio in quello straterello vi annulla le forze di attrito per cui tutto quello che sta sopra scivola via.

Come si vede da questa carta, presa dal lavoro di Edward Bromhead "Reflections on the residual strength of clay soils, with special reference to bedding-controlled landslides", pubblicata nel 2013 nella rivista Quarterly Journal of Engineering Geology and Hydrogeology, l'Inghilterra sudorientale è costituita da sedimenti che si sono formati tra Mesozoico e Terziario in una piattaforma continentale di mare piuttosto basso. La serie comprende litotipi diversissimi (argille, gessi, calcari, arenarie); le formazioni più note sono il Gault e i gessi bianchi di Dover del Cretaceo e la London Clay del Terziario inferiore.

FERROVIE E FRANE NELLA PRIMA METÀ DEL XIX SECOLO IN INGHILTERRA

Per addolcire al massimo le pendenze, come in tutto il mondo, le dolci colline del Kent e del Sussex sono state oggetto di tagli quando si è trattato di far passare le prime ferrovie. Lungo queste trincee sono avvenute spesso delle frane.

I primi casi documentati risalgono praticamente all'inizio di questa pratica nel XIX secolo. Nel 1839 fu aperta una ferrovia per collegare Londra con Croydon, una cittadina a sud della capitale inglese. La realizzazione comprendeva alcune trincee nella London Clay, delle quali una nel novembre 1841 fu interessata da una frana. Vediamo una riproduzione del disegno originale di C.H. Gregory del 1844, che distinse la parte alterata (in marrone) e quella in buone condizioni (in blu) della London Clay.
Gregory riteneva fosse stata colpa dell'acqua o perché aveva alterato i minerali o perché aveva aumentato la pressione dei liquidi, ma nel contempo capì che il movimento franoso aveva avuto una forte componente orizzontale; analogamente Robert Stephenson, figlio del leggendario George, descrisse una frana simile in un'altra trincea vicino a Northampton, Blisworth Cutting. Bliswoth Cutting è stata una operazione molto complessa per l'epoca: lo scavo interessò roccia impregnata di acqua e franò qualche anno dopo la sua costruzione. Il movimento aveva interessato una zona più o meno al contatto fra le argille di Blisworth e i sovrastanti calcari. In seguito all'evento, furono realizzati diversi muri di contenimento, a più livelli. In entrambi i casi nessuno pensò all'epoca che quella superficie suborizzontale fosse la causa del movimento e non il suo effetto.

Una interpretazione diversa fu data a proposito di un'altra frana, in occasione dell'incidente di Sonning Cutting a ovest di Londra, nel dicembre 1841, da un dipendente della Great Western Railway, compagnia ferroviaria esercente quel tratto di ferrovia (su Google Books ho trovato al proposito documenti dell'epoca!). La frana provocò il deragliamento di un treno, con diversi morti e feriti. Tal Bertram, dipendente della ferrovia, disse che il giorno prima era tutto regolare: c'erano delle fratture ma erano state sistemate e lo scorrimento non aveva interessato la zona delle fratture ma quella accanto.
Per Bertram lo scivolamento era avvenuto lungo uno strato orizzontale che si era indebolito sul quale erano diventate nulle le forze di attrito e attribuì alle stesse cause la frana di Croydon. Vediamo qui sotto il disegno. In rosso, indicato dalla freccia, l'orizzonte che si è mosso



UN TIPO DI FRANE MOLTO PARTICOLARE

È divenuto poi chiaro che le frane di questo tipo nell'Inghilterra Orientale, sia nelle trincee artificiali che lungo le coste, avvengono per movimenti orizzontali lungo una superficie che improvvisamente perde consistenza, appunto gli "Slide Prone Horizons".

Ma come si formano questi orizzonti malefici?
Potrebbe sembrare logico che si tratti di una rottura progressiva lungo il contatto fra due materiali diversi. Ma la realtà è diversa.
Una buona parte di questi livelli condivide una caratteristica, la forte percentuale di argilla smectitica, risultato dell'alterazione di materiali di origine vulcanica: durante la sedimentazione della London Clay sull'Inghilterra si sono deposti dei livelli di ceneri prodotte da attività vulcanica trasportata dai venti a grande distanza. Si parla ovviamente di eruzioni di grandi proporzioni (c'è anche la possibilità di una risedimentazione in mare di ceneri deposte sulla terraferma).
In questa foto, fornitami personalmente da Bromhead, si vede proprio un piccolo orizzonte fatto di ceneri provenienti da una eruzione vulcanica che potrebbe essere avvenuta a centinaia se non migliaia di km di distanza. Notate sopra e sotto quella parte un po' giallastra che deriva da alterazione del ferro.
Non ho analisi su questi tufi, ma le possibili provenienze possono essere ad ovest il vulcanismo delle fasi precoci dell'apertura dell'Oceano Atlantico settentrionale e a sud il vulcanismo legato alle questioni alpino – mediterranee e anche il magmatismo terziario intraplacca diffuso a pelle di leopardo in Europa Occidentale. Insomma.. sì... grossolanamente dal Mesozoico ad oggi l'Inghilterra non ha subìto forti disturbi tettonici ma non si è trovata lontanissima da zone in cui vulcanismo e tettonica erano un affare serio.

I problemi, specialmente nella London Clay, sono due:

  • non è facile trovare un intervallo argilloso in mezzo a delle … argille
  • non tutti questi intervalli hanno il potenziale distruttivo

    La London Clayè di età terziaria. Anche i sedimenti di Giurassico e Cretaceo dell'Inghilterra orientale contengono molti SPH; alcuni sono vulcanici, ma la maggior parte di questi ha un'altra origine: sono giunzioni fra litologie diverseo si sviluppano lungo superfici che derivano da interruzioni nella sedimentazione. Ne vediamo un esempio nella Fairlight Clay del Sussex.


    Un cambio di litologia o una lacuna di sedimentazione in ambienti come quelli tipici dell'ambiente di sedimentazione delle rocce dell'Inghilterra orientale sono dovuti essenzialmente a variazioni del livello marino e l'apertura dell'Atlantico settentrionale ne rappresenta una ottima motivazione, ma nel Mesozoico ci sono state anche imponenti variazioni del livello marino a scala globale (soprattutto nel Maastrichtiano).

    Un problema piuttosto importante è che non sempre gli SPH sono facilmente distinguibili. È successo anche che siano stati visti solo effettuando delle perforazioni in roccia fresca perchè l'alterazione tende spesso a mascherarli 


    ITALIA E ORIZZONTI PRONI ALLO SCIVOLAMENTO

    E in Italia?
    Anche in Italia ci sono orizzonti del genere.
    Il più tristemente noto è quello del Vajont, dovuto ad un misero orizzonte prono allo scivolamento di appena 10 centimetri di spessore.... a vedere il risultato sembra una cosa incredibile...

    Ma ce ne sono tanti altri e il bello è che la regione italiana è fra quelle dove attualmente abbiamo un ottimo potenziale di sviluppo di SPH: primariamente con tutti i prodotti che negli ultimi 100.000 anni i vulcani hanno emesso. Secondariamente le continue variazioni del livello marino hanno prodotto numerose discontinuità nella sedimentazione.

    È evidente che gli SPH rappresentano un rischio importante e – spesso – di difficile rilevamento.
    Una questione importante è la posizione dell'orizzonte nei confronti della falda acquifera: il rischio maggiore infatti lo si ha quando, per le piogge o per interventi antropici, la superficie della falda si innalza e li raggiunge. L'arrivo dell'acqua abbassa violentemente e drasticamente la resistenza al taglio di questi livelli e se la roccia sovrastante esercita uno sforzo idoneo, ecco che abbiamo lo scivolamento, che è improvviso e non sempre fornisce dei segni premonitori.

    Al Vajont, evento scatenato dalle forti piogge, i segni premonitori erano le fratture che si sono formate nella parte superiore di quello che stava diventando il corpo di frana (visibili in questa celebre foto di Edoardo Semenza)




    Quelli delle Scie Chimiche non sono spiritosi.. lo avevo detto. Minacce ed insulti ricevuti per i miei "post estivi da divertimento" sul complottismo nostrano

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    Paolo Attivissimo su “le Scienze” ha scritto che prendere in giro chi è sedotto dalle pseudoscienze e derubato dai loro imbonitori serva solo ad erigere un muro sterile ostilità. Ho avuto una dimostrazione pratica della cosa perché, dopo aver scritto un paio di post in agosto sul complottismo, in questa settimana sono salito alla ribalta degli sciacomici, quelli che credono che le scie prodotte dagli aerei non siano solo effetto della condensazione degli scarichi (o provocate da effetti aerodinamici) ma che siano un rilascio di sostanze chimiche venefiche (in particolare il Bario, chissà perché) tramite le quali il “Nuovo Ordine Mondiale” sta sterminando la popolazione mondiale. Ne è scaturito persino un commento un po' confusionario ed improprio – se non altro per il tono – sul secondo dei due post incriminati. Probabilmente qualcuno è capitato per caso in quella pagina e ha immediatamente avvisato di aver scoperto un altro “normalizzatore” (persona prezzolata per smentire il tutto). Ho risposto al commento in maniera pacata perchè francamente non ho molto tempo da dedicare a simili sciocchezze, se non dissertare di queste idee (un po' balzane) per i canonici 20 minuti al giorno su facebook insieme agli amici di “Le scie chimiche sono una cazzata” o “New World Order Italia”. E mi sono beccato persino l'attenzione del “mitico” Rosario Marcianò.

    Le scie di condensazione degli aerei sono aumentate per l'aumento del traffico aereo. È anche probabile che persistano più di prima per motivi tecnici e non nego che siano decisamente “brutte” da un punto di vista estetico; penso che gli unici ad esserne contenti siano gli appassionati del traffico aereo, ai quali questo consente di avere più possibilità di registrare il passaggio di una aeromobile. Una passione forse un po' originale ma assolutamente legittima come quella che per esempio ho io per i treni. 
    Il tono dei post (questo il primo in cui parlavo dei gruppi facebook complottisti e non e di una mia esplulsione da un gruppo complottista e questo il secondo, in cui ho descritto alcuni protagonisti e l'attenzione di alcuni politici al problema) era forse un pelino canzonatorio e di sicuro nell'occasione non ho fatto sconti a nessuno perché, con tutti i problemi che ci sono, è semplicemente demenziale perdere tempo pensando che le scie rilasciate dagli aerei siano un sistema di rilascio di sostanze venefiche escogitato da un gruppo di cattivoni che così vogliono sterminare mediante avvelenamento una buona parte della popolazione mondiale; chi, come me, contesta questa visione è soltanto un sudicio prezzolato di questo “Nuovo Ordine Mondiale” e merita tutti i mali possibili. Insomma, per farla breve gli “sciacomici” mi hanno beccato e non l'hanno presa bene. 

    La questione è che se io e altri ironizziamo su quelli che le credono un complotto per avvelenare l'umanità, questi personaggi invece si sentono serissimi. Qualcuno di loro evidentemente ha letto con qualche settimana di ritardo uno di quei due post un po' ironici scritti al mare per farmi due risate, lo ha lo ha postato sul gruppo di sciacomici di Pordenone, da me già citato, e ha anche avvertito il mitico Rosario Marcianò da Sanremo.
    Il commento pervenutomi sul post incriminato è stato scritto usando una certa foga: tira fuori di tutto dalla Merkel alle banche agli americani (cose di cui non ho mai parlato...);  ne estrapolo un paio di passaggi (l'originale è lì e in ogni caso se per qualche motivo viene tolto dall'autore – semprechè sia possibile che lo faccia – io ce lo rimetterò):
     “prima di tutto i miei complimenti per come riesci a disinformare...ma sei pagato per farlo...credo di si...!!
    e
    le persone come te che non vedono ad un palmo dal naso...e che fanno della non normalità....la normalità...ma non la prendere come una offesa....non tutti possono essere intelligenti....” 
    Su questo punto specifico gli ho risposto che quanto all'intelligenza, non essendoci una misura con cui si possa definirne la quantità (mi risulta che il Q.I, non sia universalmente accettato dai ricercatori) non sia scientificamente possibile definire chi sia intelligente (e quanto) e chi no. Pertanto mi limito a ritenermi dotato di una certa cultura e di una certa educazione, grazie alle quali mi permetto di esprimere perplessità sulle idee delle persone ma non di sindacare sulla loro intelligenza. Anche per questo sono convinto di vedere oltre il mio naso, nonostante porti gli occhiali.

    Ma su Facebook è stato scritto anche di peggio: per esempio nello spazio del mitico “Presidio di stop scie chimiche Pordenone”, dove è nata la faccenda, uno ha scritto che “merde del genere devono essere arrestate”. Taccio del resto.

    E ora veniamo a Marcianò. Innanzitutto da oggi faccio parte dei “normalizzatori”, cioè di quelli che secondo Marcianò sono pagati per tenere il volgo ignorante e ciuco nell'ignoranza della messa in atto di questa guerra contro l'umanità attraverso le scie chimiche. È una lista che parte da Paolo Attivissimo, comprende i membri del CICAP o presunti tali, scienziati di ogni ordine e grado, giornalisti, blogger e persone normali che hanno il torto, secondo Marcianò, di disinformare il popolo perché negano, essendo prezzolati, che gli aerei rilascino veleni per sterminare l'umanità. 


    Nella mitica pagina del “Comitato Tanker Enemy”, di cui riproduco parte dello screen (ho tutto, comunque), uno dice “Ci chiama anche gonzi sto imbecille di Aldo Piombino, a suo parere Rosario Marciano vive alle nostre spalle” (ma pensa un po'...), c'è chi usando scarsa fantasia mi manda a quel paese (grazie per l'affettuoso invito ma è un posto troppo affollato e io odio la calca, è una caratteristica di famiglia), chi mi dà di imbecille e, in un fantastico crescendo rossiniano, Marcianò scrive che “i disinformatori inventano tutto e sanno di poterti diffamare, tanto la magistratura non li tocca” (chiaro il riferimento alle sue visitine in tribunale che invece è costretto a fare... , NdR).
    Il commento successivo, che riproduco nella immagine, è “si ma se qualcuno gli modifica la configurazione ossea...” a cui il buon Rosario risponde con un molto carino “sarebbe auspicabile”.

    Marcianò ha poi rincarato la dose accusandomi, come si vede qui sotto, di aver preso parte alla macchinazione operata da altri personaggi grazie alla quale da un paio di anni un suo computer e altre cose del genere sono sotto sequestro, mentre sembra che la Guardia di Finanza stia facendo delle indagini per via di certe entrate provenienti dai gonzi che non sarebbero state dichiarate.
    Personalmente smentisco di avere partecipato a quella “congiura”. Non smentisco di conoscere personalmente Dalla Schiava, con cui per esempio mi vedrò la settimana prossima per motivi completamente estranei alle scie chimiche.



    Insomma, questi individui, fra i quali ogni tanto salta fuori qualcuno che propone simpaticamente di abbattere gli aerei (spero che rimangano solo le “pie intenzioni” di un leone da tastiera) non hanno preso molto bene quello che ho scritto, ma al solito si rifugiano nell'insulto o genericamente asseriscono di avere come prove “delle foto o dei filmati” e che sanno tutto “perchè lo hanno visto su YouTube”... Girano anche delle analisi chimiche, di cui alcune non si capisce come le abbiano prese, di altre non se ne capisce il senso.
    D'altro canto su come raccogliere prove sono abituati bene: un sodale di Rosario Marcianò è un biologo con una visione del metodo scientifico quantomeno originale visto che secondo lui “qualsiasi affermazione è valida fino a quando non viene confutata". L'esatto contrario del metodo scientifico, secondo il quale una affermazione è valida se e solo se viene dimostrata vera o si dimostra verosimile.

    Viene in mente che se questi personaggi hanno paura di essere avvelenati da qualcosa, anziché di scie chimiche potrebbero occuparsi, sempre a proposito degli aerei, di eventuali problemi portati davvero dai loro scarichi. Ma penso che ci siano cose più importanti, da chi sta avvelenando l'aria, l'acqua ed il terreno, per esempio nella Terra dei Fuochi ma anche altrove.
    Qualcuno si chiede se preferiscano fare così piuttosto che affrontare la realtà. Altri pensano che siano persone a cui dei problemi reali non glie ne frega niente e si sono creati un nemico immaginario da combattere coraggiosamente a suon di link, stando dietro ad una tastiera comodamente seduti a casa per poter credersi degli eroi e riempire così un pò la loro vuota vita.
    Qui penso che ci vorrebbe il parere di uno psicologo....

    Resta il fatto che quello delle Scie chimiche per qualcuno è un affare col quale pensa di spillare soldi a persone ingenue che domattina si metterebbero a cercare gli unicorni, se il loro mentore gli dicesse che esistono e che c'è un complotto in atto per nasconderli al mondo...


    Il terremoto del Nepal del 25 aprile 2015 e la diffusa sismicità nel continente asiatico dovuta all'incunearsi dell'India nell'Eurasia

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    Il terremoto del Nepal del 25 aprile 2015 si inquadra nella collisione fra India ed Eurasia, iniziata all'inizio del Terziario, collisione che ha inciso pesantemente ad esempio sulla storia dei mammiferi placentati. Himalaya e altopiano del Tibet sono il risultato più evidente di questo evento geologico, ma non sono i soli: per rompere qualcosa di massiccio spesso si usa mettere dentro l'oggetto da rompere un cuneo, martellandoci sopra; ecco, l'India sta entrando nell'Eurasia come un cuneo, provocando una serie di deformazioni in una fascia molto ampia, che arriva fino al Tien Shan e alla Cina sudoccidentale, con una sismicità che va ben oltre la zona di contatto fra le due zolle.

    Il sisma del 25 aprile è stato provocato dal movimento lungo un piano di faglia suborizzontale, vicino al limite fra la zolla euroasiatica e quella indiana che scende sotto l'Asia (anzi, è probabile che il movimento sia avvenuto proprio lungo il limite fra le due zolle). Lo vediamo in questo disegno tratto da Billam et al. (2002). Appartiene quindi al tipo di terremoti più devastanti, i cosiddetti terremoti di thrust. In quella zona le due zolle convergono a una velocità piuttosto bassa, circa mezzo centimetro all'anno. 

    A livello generale la causa della sismicità di quell'area è l'indentazione dell'India nel continente asiatico. Chiariamo questo termine: si definisce indentazione il movimento con il quale una placca (o una parte di essa) si introduce all'interno di un altro continente e in qualche modo lo disturba: se un solido si incunea dentro un altro, questo secondo in qualche modo si deve deformare.
    È anche quello che succede tra Veneto, Carinzia e Ungheria a causa della placca adriatica che entra in quella europea (per questo si sono separati le Alpi dai Carpazi, che si sono spostati verso est).

    Questa carta, presa da Chatterjee et al. (2013) mostra bene la situazione.
    1. Ad ovest vediamo che fra la zona di convergenza in Iran e quella in Himalaya c'è una grande distanza. Le due zone sono collegate fra loro da una linea trasversale, che corrisponde a una fascia di compressione ma soprattutto ad una grossa trascorrenza (la cosiddetta “faglia di Chaman”) complicata da una certa rotazione, a cui è legata la catena dei monti Sulaiman; in buona approssimazione è il limite fra l'Eurasia, ferma, e l'India che sta incuneandovisi dentro. Ne ho parlato a proposito del terremoto del Beluchistan del 2013.

    2. Nella zona Himalayana, di cui il Nepal fa parte la situazione è un po' diversa: l'immagine mostra la situazione 400 km a NW di Kathmandu ma la situazione è la stessa. 


    La zona di collisione inizia dove iniziano le colline prospicienti alla bassa Himalaya (è il sovrascorrimento frontale principale, conosciuto come Himalayan Main Thrust). È l'inizio del prisma di accrezione della Bassa Himalaya, che comprende numerosi altri sovrascorrimenti, a mano a mano più antichi più sono alti e vicini alla catena principale. I piani di scorrimento separano vari blocchi e sono suborizzontali anche se un po' inclinati verso NE.

    Poi c'è la grande catena himalayana, al di là della quale una grande valle la separa dal Tibet. Questa valle corrisponde alla sutura dell'Indo, dove scorrono le parti più alte del corso dell'Indo verso ovest e del Brahmaputra verso est. 
    In questa zona troviamo le ofioliti, cioè parte delle rocce che componevano il fondo dell'oceano posto una volta fra l'India e l'Eurasia. Qui finisce la zona principale di deformazione perché il Tibet fa parte della crosta del continente euroasiatico.

    3. Ad est dell'Himalaya il limite è più complesso e la deformazione interessa pesantemente la fascia tra Cina (Yunnan) e Indocina. Qui prevalgono movimenti trascorrenti, come si evidenzia in questa carta. Ne ho parlato a proposito del terremoto cinese dell'agosto 2014.


    LA SISMICITÀ DEL NEPAL

    La sismicità più importante di questa zona interessa la parte fra il Main Frontal Thrust e la catena principale, quindi il Nepal è tutto all'interno di questa fascia dove i terremoti non sono particolarmente frequenti perché il sistema è quasi bloccato, ma quando avvengono possono raggiungere intensità piuttosto elevate. 
    Possiamo ricordare due eventi del XX secolo, nell'agosto 1988, 250 km a SE, con M 6.9, che provocò 1.500 morti e quello del 1934, che colpì Kathmandu ed altre aree facendo 10.600 morti. 

    Il più forte terremoto registrato con la strumentazione nell'area himalayana è quello del 15 Agosto 1950, avvenuto in Assam, la parte più orientale dell'Himalaya, nell'india Orientale. Sempre in Assam è particolarmente importante il terremoto del 1897, in cui si evidenziò in superficie una dislocazione lungo la faglia che lo ha generato di ben 11 metri: è stata la prima evidenza che i terremoti si generano per lo spostamento del terreno lungo una faglia. Durante questo evento, non drammaticamente potente ma dagli effetti particolarmente persanti perchè molto superficiale, si osservarono onde nel terreno e massi pesanti qualche decina di kg furono lanciati in aria, segno che i valori raggiunti valori dell'accelerazione cosismica sono stati superiori alla accelerazione di gravità.

    L'epicentro della scossa di questi giorni è a ben 80 km da Kathmandu, ma la sua forza nella capitale è stata devastante per due motivi:
    1. l'energia di un terremoto non si irradia da un punto, ma da un piano (e più grande è il terremoto più grande è la superifcie interessata). L'epicentro è collocato nella posizione in cui è iniziata la rottura, ma l'area interessata dal movimento in questo caso è più o meno un rettangolo lungo un centinaio di km e largo una quarantina, parallelo alla catena Himalayana, come si individua dalle repliche che si vedono in questa carta elaborata con l'IRIS Earthquake Browser: Kathmandu è sopra al piano di scorrimento e quindi non è a 85 km da dove è avvenuto il terremoto, ma proprio sopra. 
    2. Nella capitale nepalese ci sono stati particolari effetti a causa della scarsa qualità degli edifici e, come è successo a Christchurch nel 2011 e a San Giuliano di Puglia nel 2002, per fenomeni di amplificazione locale delle onde sismiche.


    LA DISTRIBUZIONE DELLA SISMICITÀ IN ASIA: 
    UNA FASCIA MOLTO PIÙ LARGA DELLA ZONA DI CONVERGENZA FRA LE ZOLLE


    Ed eccoci a parlare di un aspetto piuttosto interessante con questa carta, tratta da Van Hinsbergen et al. 2012, che mostra la disposizione delle varie macrounità geologiche che compongono la zona di collisione fra tra Pakistan, India, Birmania ed Indonesia.
    In prima approssimazione la stratigrafia dell'Himalaya appare semplice; in realtà l'attribuzione paleogeografica di alcune di queste unità è ancora incerta e soprattutto la storia dell'orogene è molto dibattuta (vedi questo mio post).
    Ed è ancora più complessa la situazione tettonica, perché se da un lato, come abbiamo visto nella figura di Billam, esiste un chiaro limite attuale di zolla con i suoi bravi sovrascorrimenti, confrontiamo la carta di Chatterjee con quest'altra, ottenuta con l'IRIS Earthquake Browser, in cui si evidenziano i terremoti con M uguale o superiore a 6 degli ultimi 30 anni: vediamo come la fascia interessata dagli eventi si prolunghi ben oltre il limite fra le due zolle. Insomma, l'India mentre si incunea nell'Asia ne fa di tutti i colori, provocando deformazioni anche in zone molto lontane, magari riattivando vecchie zone di debolezza in una fascia larga centinaia di km, fino all'estremità settentrionale del Tibet lungo il bordo meridionale del bacino del Tarim e addirittura nei monti del Tien Shan, a nord di questo bacino. Sono zone che si sono aggregate fra loro nel Paleozoico e assolutamente lontane da limiti di zolla attuali.


    A ovest, dal mare arabico e dalla faglia di Chaman, fino all'Hindu Kush e al Pamir la sismicità è parecchio elevata, arrivando appunto alla antica catena del Tien Shan.
    Nel Tibet gli eventi non sono tanti, ma come si vede sono dispersi un pò in tutto l'altopiano. Forti scorrimenti interessano la fascia di confine fra il Tibet e il bacino del Pamir, a centinaia di km dalla zona di contatto fisico fra le due zolle!

    Anche il bordo orientale del Tibet è fortemente sismico. Vediamo in questa sezione per esempio come l'altopiano sovrascorra la crosta della Cina nella zona del Sichuan, nella zona colpita da forti terremoti negli ultimi 10 anni.
    Un'altra conseguenza è la deformazione della fascia a nord dell'Indocina, dove predominano trascorrenze capaci di provocare sismi piuttosto forti .

    Insomma, fra India ed Eurasia esiste teoricamente un limite di zolla abbastanza chiaro, la cosiddetta “sutura dell'Indo”, ma in realtà siamo davanti come per altre aree dell'Asia ad un “limite diffuso”, e ad una fascia in deformazione piuttosto larga.

    Bibliografia citata:
    Billam et al. (2002): Himalayan Seismic Hazard. Science 293, 1442-1444 
    Chatterjee et al. (2013): The longest voyage: Tectonic, magmatic, and paleoclimatic evolution of the Indian plate during its northward flight from Gondwana to Asia. Gondwana Research 23,238–267
    Cattin & Avouac (2000): Modeling mountain building and the seismic cycle in the Himalaya of Nepal. Journal of geophysical research solid Earth 105 B6,13389–13407
    Van Hinsbergen et al. (2012): Greater India Basin hypothesis and a two-stage Cenozoic collision between India and Asia, PNAS 109/20, 7659–7664


    La conservazione della fortezza di Shahr-e Zohak in Afghanistan: una ricerca italiana e i metodi ambientalmente compatibili per farlo

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    L'Italia ha una grande pratica nella conservazione dei beni culturali e ha le capacità per essere in prima fila anche quando si tratta di operare in Paesi poveri e zone remote. Le possibilità tecniche odierne in termini di rilevamento geomorfologico consentono di ottenere in tempi brevi una buona messe di informazioni, ma a causa degli scogli logistici ed economici vanno escogitati dei rimedi semplici, economici e soprattutto risolvibili con materiali e tecniche disponibili in loco. Un eccellente esempio di questo è la fortezza di Shahr-e Zohak, situata in una valle dell'Afghanistan centrale alle pendici meridionali dell'Hindu Kush. Siamo in un Paese martoriato da decine di anni di guerre ed occupazioni, ma ricco di testimonianze storiche uniche (purtroppo alcune volontariamente distrutte senza nessuna ricaduta pratica, come le enormi statue di Buddha che erano proprio in quella zona). Il sito monumentale è stato studiato da ricercatori dell'ISPRA e dell'Università di Firenze. Per tentare di bloccare o rallentare il degrado della struttura sono stati proposti e messi in opera dei rimedi semplici ed economici, ma che nel contempo avranno una certa efficacia pratica.

    Da quando nel 1973 nel Paese fu abolita la monarchia, l'Afghanistan è sempre stato in guerra: rivalità religiose, politiche, tribali ed etniche, insieme agli interventi militari esterni sono una caratteristica costante degli ultimi 40 anni. 
    Questa nazione dell'Asia Centrale, ricca di risorse minerarie, era ed è ancora ricca di beni culturali che sono stati ampiamente danneggiati in questi 40 anni di guerre in vari modi: molti siti archeologici per la loro posizione strategica sono stati usati come postazioni di artiglieria o occupati da eserciti o milizie o profughi; molti sono stati purtroppo minati in caso di ritirata degli occupanti per non essere lasciati in mani nemiche; altri sono semplicemente stati vittima dell'oscurantismo religioso, senza rivestire il minimo interesse strategico: l'esempio più famoso è rappresentato dalla distruzione delle due statue giganti di Buddha, impresa difficile che i Talebani hanno realizzato con accanimento e profusione di mezzi degni di miglior causa.
    In Afghanistan oltretutto il quadro di base sarebbe già molto complesso di suo per diversi problemi: il territorio montagnoso, le condizioni climatiche aride, le tecniche costruttive e la mancanza di restauri di molte strutture abbandonate da secoli.

    Vediamo un esempio di quello che si può fare per dare una mano e conservare la storia di questo martoriato Stato. Un sito piuttosto importante è la fortezza di Shahr-e Zohak, costruita a difesa della valle di Bamiyan. Siamo nell'Afghanistan centrale, lungo gli ultimi contrafforti meridionali dell'Hindu-Kush, proprio nella zona in cui si trovavano le due colossali statue di Budda, che non erano lì per caso, ma perché l'area è stata uno dei centri più importanti del buddismo dell'Asia Centrale: di lì passava la via della seta e quindi la valle rappresentava una tappa fondamentale dei commerci da e per la Cina, un'area privilegiata i cui viaggiatori, commercianti e pellegrini si scambiavano conoscenze. Il periodo buddista si concluse nel IX secolo d.C., con la conquista islamica.
    Shahr-e Zohak è il sito più orientale della valle di Bamiyan, scelta dall'UNESCO come patrimonio dell'umanità dal punto di vista del paesaggio culturale; la fortezza fu costruita al tempo della dominazione araba a partire da un nucleo che era già attivo nel VI secolo, e fu abbandonata quando i mongoli di Gengis Khan invasero l'area e la espugnarono nel XIII secolo.

    La situazione geomorfologica piuttosto complessa del sito rende difficile di suo la conservazione di un monumento del genere, e se poi ci mettiamo appunto i 700 anni trascorsi dall'abbandono, durante il quale ovviamente nessuno era interessato alla manutenzione del complesso, solo la scarsità delle piogge ha impedito la distruzione dei mattoni di fango (anche se l'aridità è – come vedremo - complice dell'erosione). Comunque molte delle costruzioni sono collassate o sono a grave rischio di collasso, non per la qualità dei mattoni, bensì per le condizioni geomorfologiche.
    C'è da considerare anche che la zona ha un rischio sismico abbastanza elevato visto che a qualche decina di km si sono registrati negli ultimi decenni diversi terremoti con M superiore a 6.
    Le fondazioni sono fatte di ciottoli fluviali, ma la costruzione è fatta di mattoni di fango ricavati dalla essiccazione di argille rosse, prodotte dall'alterazione delle rocce locali, marne e conglomerati che hanno riempito un bacino apertosi nel Terziario come riflesso della formazione dell'Hindu Kush.

    Il clima è abbastanza secco e fresco (anche perché siamo a circa 3000 metri di altezza), le precipitazioni hanno un picco all'inizio della primavera (ma di media siamo sotto i 200 mm/anno) e siccome le medie mensili oscillano fra circa +20 e -5°C è evidente che spesso più che piogge siano scarse nevicate. Le basse temperature quindi aggiungono ai normali problemi di un posto del genereanche l'erosione dovuta alla espansione nelle fratture dell'acqua quando questa ghiaccia.

    Uno studio di ricercatori italiani dell'ISPRA e dell'Università di Firenze ha avuto come oggetto proprio delle iniziative per la conservazione di questo interessante sito.
    Per prima cosa dovevano essere individuati i processi geomorfologici attivi nel sito e in che modo influenzassero il paesaggio e le strutture antropogenetiche. A causa della scarsità delle piogge non c'è copertura vegetale e proprio per questo i maggiori problemi di erosione sono dati dal ruscellamento superficiale durante e dopo le poche precipitazioni (con le pendenze in gioco la velocità delle acque è elevatissima). Inoltre le rocce della zona (conglomerati e marne) sono particolarmente erodibili in queste condizioni climatiche. Ne consegue una situazione di equilibrio piuttosto precario. Addirittura se piove un po' di più si riattivano dei corpi franosi perché le argille di cui sono composti si imbevono di acqua diventando plastici.
    Un altro problema è tipico delle fasi primaverili di disgelo: nel suolo il ghiaccio si trasforma in acqua aumentando la plasticità del suolo, che, complice la pendenza, si muove.
    L'erosione sta addirittura provocando grossi solchi nelle mura e la maggior parte delle torri sono crollate da tempo.

    Le tecnologie informatiche hanno sempre più importanza nello studio e nel monitoraggio di siti in difficoltà morfologiche e strutturali e soprattutto consentono ispezioni più rapide e precise rispetto alle tecniche tradizionali (anche se il geologo sa che questi mezzi integrano validamente quello che si vede e che non è possibile evitare delle ispezioni dirette).
    A Shahr-e Zohak sono state usate in maniera massiccia.
    Per prima cosa si è proceduto con un rilevamento dall'alto, eseguito ovviamente con un drone, le cui immagini sono state georeferenziate con le coordinate GPS.
    Il tutto è stato poi inserito in un sistema di informazione geografica che ha fornito una base topografica eccellente. Bisogna notare anche che con un sistema di questo tipo estrapolando i dati della semplice topografia si ottengono altre importanti carte, per esempio quella della pendenza del terreno, fondamentale per capire la distribuzione delle aree più a rischio di frana.

    Premettendo che è praticamente impossibile pensare di riportare la costruzione ai fasti di qualche secolo fa, resta solo da vedere cosa fare per impedire ulteriori crolli.
    E qui la cosa si fa interessante, perchè l'intervento proposto è piuttosto innovativo anche per le difficoltà logistiche che porrebbe una sistemazione di tipo tradizionale. Pertanto i rimedi devono essere semplici, poco costosi e pratici: operare con sistemi industriali (in questo caso di consolidamento) non è economicamente sostenibile ed è praticamente impossibile logisticamente trasferire in loco macchinari, attrezzature e materiali idonei e nel proseguo assicurare assistenza continua. Inoltre i rimedi devono essere il meno impattanti possibile, mentre la loro realizzazione e manutenzione devono essere svolti da personale locale con mezzi e materiali locali. Per cercare di salvare il salvabile occorre mitigare i fenomeni erosivi e diminuire la velocità delle acque di ruscellamento.

    I problemi della cittadella superiore, di quella inferiore e della scarpata sono molto diverse fra loro e quindi i rimedi sono stati studiati per ciascuna delle tre situazioni.
    Nella cittadella superiore il problema si manifesta in primavera, quando lo scioglimento delle poche nevi invernali e la pioggia primaverile si infiltrano nel suolo, lo imbevono e lo rendono soggetto a movimenti

    Sono previsti due tipi di intervento:

    1. l'introduzione a scopo di stabilizzazione del suolo di un cespuglio locale, adatto a queste difficili condizioni climatiche.
    Questa pianta è usata in zona come legname da combustione e la presenza di un suo stock consistente, sia pure in un'area difficile da raggiungere, potrebbe rappresentare una tentazione notevole per la popolazione locale, vanificando il tentativo: quando la protezione dell'ambiente o di un bene culturale cozza con gli interessi locali, specialmente se questi ultimi sono a breve orizzonte temporale (in questo caso risolvono il problema del riscaldamento per un inverno, ma dopo averle tutte distrutte siamo punto e a capo), occorre trovare delle soluzioni che contentino entrambi gli interessi; in soldoni in questo caso c'è bisogno di un accordo con la popolazione locale per evitare la distruzione delle piante. La proposta migliore è quella di usare la zona come vivaio, assicurando un equilibrio fra la crescita dei cespugli e il loro sfruttamento a scopo di riscaldamento.
    È un principio che mi piace molto perché così si ottiene la salvaguardia sia degli interessi pratici che dell'ambiente (o di un bene culturale, come in questo caso).

    2. sempre per ridurre il rischio delle frane, vengono costruite delle staccionate in legno che vanno in profondità nel suolo, fino al livello che le acque imbevono, impedendone il movimento.

    Nella cittadella inferiore il problema è un altro: la velocità del ruscellamento. Per questo è stato ideato un sistema di dighe (in pietra e/o in legno a seconda dei casi) che, oltre alla funzione di rallentamento ha anche lo scopo di distribuire la caduta delle acque in maniera più uniforme rispetto alle condizioni preesistenti.

    I problemi maggiori sono però nella scarpata che circonda la fortezza (la cui presenza è ovviamente alla base del perchè esiste Shahr-e Zohak). Qui la velocità del ruscellamento è elevatissima. Occorre pertanto iniziare dalla diminuzione della quantità di acqua che scende, e la soluzione escogitata incanala buona parte del ruscellamento in un alveo artificiale in cui la velocità di discesa sarà molto minore di quella attuale.

    Questi accorgimenti comunque sono limitati alle condizioni esterne al manufatto. Purtroppo è il tipo stesso di pietre da costruzione che pone problemi di conservazione: il fango essiccatoè sottoposto ad elevata alterazione a causa dell'umidità. Quindi migliorare la situazione è impossibile: l'unica possibilità è stoppare al massimo il degrado di questa imponente struttura.

    Per chi ne volesse sapere di più l'articolo che parla di questa ricercae da cui sono state tratte le immagini è: C. Margottini, F. Fidolini, C. Iadanza, A. Trigila e Y. Ubelmann (2015): The conservation of the Shahr-e-Zohak archaeological site (central Afghanistan): Geomorphological processes and ecosystem-based mitigation. Geomorphology 239, 73 - 90

    Il rallentamento della Corrente del Golfo nel passato e quello osservato attualmente

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    Il clima terrestre è un sistema globale molto sensibile e il cambiamento di un parametro può innescare fenomeni piuttosto significativi. Ad esempio è ampiamente citato in bibliografia scientifica il legame fra il sistema di circolazione dell'Oceano Atlantico settentrionale e il clima europeo: ci sono stati dei momenti in cui si è interrotto il flusso della Corrente del Golfo, durante i quali Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente sono stati soggetti a condizioni molto secche e fresche. Recentemente è stata persino trovata una relazione fra gli eventi dell'atlantico settentrionale e la quantità di metano nell'atmosfera antartica... Un articolo di un paio di mesi fa sul rallentamento della Corrente del Golfo comparso su Nature Climate Change ha destato un certo clamore. La questione del rallentamento della corrente del Golfo merita un po' di attenzione e cercherò di spiegare come funziona.

    La circolazione termoalina, visibile nella foto qui accanto, è una sorta di nastro trasportatore che redistribuisce il calore sulla Terra. Si chiama così perchè è guidata sia dalla temperatura che dalla salinità delle acque coinvolte e di quelle vicine. 
    Dai Caraibi la Corrente del Golfo porta l'acqua temperata lungo le coste europee, riscaldandole; qui si raffredda e si immerge, descrivendo una traiettoria a grande profondità lungo il continente americano per poi bordeggiare l'Antartide, per dirigersi successivamente verso il nord del Pacifico, dove finalmente risale verso la superficie; da qui ritorna verso il Capo di Buona Speranza, lo doppia e finalmente rieccola ai Caraibi. Un processo lento ma inesorabile, che coinvolge una enorme massa d'acqua. 

    Il rallentamento della corrente del Golfo (o, peggio, la sua momentanea interruzione) ha forti effetti sul clima in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente. Ho fatto notare come la deglaciazione seguita all'ultimo massimo glaciale sia stata accompagnata al pari di quelle precedenti da intervalli più freddi che hanno momentaneamente interrotto il trend di riscaldamento e che a uno di questi episodi, lo Younger Dryas, sia correlabile l'origine dell'agricoltura. Sono stati individuati parecchi di questi intervalli freddi e secchi, distribuiti durante tutte le transizioni quaternarie fra massimi glaciali e fasi interglaciali, denominati “Eventi di Heinrich”. 
    La calotta polare 16.000 anni fa ricopriva anche
    il mare a nord della penisola scandinava
    Gli "eventi di Heinrich", sono fasi in cui nell'Atlantico Settentrionale arrivano grandi masse di acqua fredda di provenienza artica. La traccia che hanno lasciato è tipica e consiste in un brusco cambio nella sedimentazione, in cui diventa preponderante una forte concentrazione di materiale proveniente da nord: la deglaciazione è contrassegnata da una enorme quantità di iceberg che, sciogliendosi, rilasciano tutto il carico di sedimenti dei ghiacciai da cui provengono. Siccome sono nominati dal più recente, l'ultimo di questi eventi è denominato “Heinrich 1” e si è concluso poco meno di 15.000 anni fa, lasciando lo spazio al più caldo e umido (almeno per l'europa) stadio di Bolling – Allerod che perdurò fino alla fine della glaciazione, 11.600 anni or sono. "Heinrich 1"è stato probabilmente innescato dal collasso della calotta che ricopriva il mare di Barents, a nord della Penisola Scandinava

    Innanzitutto bisogna capire la radice del problema e cioè se il rallentamento della Corrente del Golfoè legato a qualche fenomeno nella zona di partenza (cioè trae la sua origine da qualche fenomeno che avviene alle basse latitudini) o è il risultato di qualche cosa che succede nella zona di arrivo (cioè per qualche motivo c'è qualcosa che la ostacola verso nord) 
    Gli indizi portano alla seconda soluzione: il problema stia nella zona di arrivo della corrente. Vediamo perchè. 

    Le correnti dell'Atlantico settentrionale e centrale
    Sostanzialmente nell'Atlantico Settentrionale ci sono due correnti superficiali, una calda dal lato europeo (la Corrente del Golfo, appunto, proveniente dai Caraibi) e una fredda nel lato americano (la Corrente del Labrador, proveniente da nord). Questa situazione si riflette sul clima dei due continenti: ad esempio la capitale canadese Ottawa, posta alla stessa latitudine di Milano, registra in gennaio una media delle temperature massime di circa -6°C  e di – 15°C nelle minime, decisamente inferiore alla città meneghina. Il Labrador è all'altezza dell'Inghilterra meridionale ma il clima è decisamente molto più freddo.
    L'acqua temperata della Corrente del Golfoè piuttosto pesante perché l'evaporazione lungo tutto il percorso ne ha aumentato il contenuto salino; viceversa lungo le coste americane l'acqua proveniente dal nord, in massima parte frutto dello scioglimento dei ghiacciai, è molto meno salata. La carta ottenuta con la sonda Aquarius, un satellite frutto della cooperazione fra la NASA e l'argentino CONAE, ideata specificamente per il rilevamento della salinità marina, evidenzia la drastica differenza nel valore di questa fra le due sponde dell'Atlantico settentrionale e se confronterete la carta delle correnti con quella della salinità noterete come la massima salinità coincida con il percorso della Corrente del Golfo.


    Inoltre dobbiamo ricordarci che a 4°C l'acqua ha un massimo di densità. Le acque della Corrente del Golfo, già pesanti di loro per la elevata salinità, raffreddandosi aumentano ulteriormente la loro densità e quindi scendono in profondità, lungo una traiettoria che costeggia la piattaforma continentale dell'America Settentrionale. È la AMOC (Atlantic meridional overturning circulation, termine traducibile come inversione verso sud della circolazione atlantica). Notare che con “meridional” si intende “verso sud” e quindi l'Atlantico meridionale non c'entra nulla come invece potrebbe sembrare. 

    L'affondamento delle acque della Corrente del Golfo viene disturbato se un intenso flusso di acqua fredda proveniente da nord si immette improvvisamente nell'oceano. È acqua che deriva dello scioglimento dei ghiacci (o dall'improvviso svuotamento di immensi laghi glaciali) ed è molto pesante non per il contenuto salino (che è basso) ma perchè ha una temperatura vicina ai 4°C; pertanto anche queste acque cercano di scendere in profondità proprio nella zona dove cercano di scendere quelle della Corrente del Golfo, ostacolandone il movimento. 

    Ne consegue che più acqua affluisce da nord, meno acqua della corrente del Golfo riesce a scendere in profondità per dirigersi a sud lungo la costa americana e durante le fasi acute di scioglimento dei ghiacci polari la quantità delle acque settentrionali è talmente importante da bloccare letteralmente lo scorrimento delle acque provenienti dai Caraibi per un certo periodo, innescando gli Eventi di Heinrich
    Anche lo Younger Dryas e l'evento freddo di 8.200 anni fa hanno avuto origine dall'improvviso afflusso di acque fredde nell'Atlantico Settentrionale.
    Quando poi l'afflusso da nord diminuisce sensibilmente fino a valori – diciamo così – normali (tipicamente dopo circa 1500 anni), si ricostituisce la situazione standard: le acque provenienti dai Caraibi possono ricominciare a scorrere, ripristinando la circolazione termoalina e le condizioni calde ed umide delle coste atlantiche europee. 

    Adesso, secondo un lavoro su Nature Climate Change (1), ci sono chiari segnali di un forte afflusso di acque fredde nell'Atlantico settentrionale. La prova è una diminuzione della temperatura del mare nelle acque prospicienti il Canada, anticipata da importanti variazioni nella salinità negli anni '70 (la cosiddetta Grande anomalia della salinità del 1970). 
    Il raffreddamento dell'Atlantico nordoccidentale, iniziato appunto all'inizio degli anni '70, ha avuto una interruzione a cavallo del 2000 per poi riprendere, ed è un effetto apparentemente paradossale del riscaldamento globale, che provoca aumento delle temperature nell'Artico maggiore che altrove e di conseguenza in un aumento del tasso di scioglimento dei ghiacciai. Questa carta, tratta dal lavoro in oggetto, mostra il trend delle temperature globali: si nota come a fronte di un trend di generale aumento, l'Atlantico nordoccidentale sia l'unica zona con la temperatura in diminuzione (a parte una piccola zona in Africa), proprio a causa del maggiore afflusso di acque fredde provenienti dai ghiacci groenlandesi ed artici in generale. 

    È interessante notare che lo studio su quanto succede oggi conferma le ipotesi fatte sul passato, e cioè che la causa dell'interruzione del flusso della Corrente del Golfo durante gli Eventi di Heinrich è una ripercussione nell'Atlantico settentrionale dei fenomeni di deglaciazione.

    La diminuzione della velocità della Corrente del Golfoè un sintomo della febbre del pianeta, perchè è una diretta conseguenza dal riscaldamento globale in atto. Per quanto riguarda l'evoluzione futura, secondo gli Autori del lavoro, è estremamente importante cosa succederà in Groenlandia: un aumento dello scioglimento della sua calotta ghiacciaia potrebbe portare ad un ulteriore rallentamento della Corrente del Golfo (se non un suo blocco), innescando una redistribuzione delle precipitazioni e delle temperature non solo in Europa. 

    (1) Rahmstorf  et al. (2015): Exceptional twentieth-century slowdown in Atlantic Ocean overturning circulation. Nature climate Change 5, 475–480. DOI: 10.1038/NCLIMATE2554

    Il picco di metano nei ghiacci antartici durante gli Eventi di Heinrich: le strane interconnessioni dei cambiamenti climatici

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    Il clima terrestre è un sistema in cui alcuni avvenimenti possono innescare dei cambiamenti in zone piuttosto lontane, dimostrando così la complessità e l'interdipendenza del sistema a scala globale. È noto che una deglaciazione molto spinta nelle zone artiche si accompagna ad un temporaneo raffreddamento e inaridimento in Europa e tutto sommato, dopo qualche piccolo dubbio ("il pianeta si riscalda ma l'Europa si raffredda" non suona benissimo...) è stato facile capire il perché. Artico, Atlantico settentrionale ed Europa sono vicini, ma è stato recentemente notato che gli effetti di quanto si svolge da queste parti si ripercuotono sulla fascia equatoriale e vengono persino registrati nelle aree più lontane, persino in Antartide.

    Nel post precedente ho parlato di come il volume delle acque di deglaciazione provenienti dall'Artico influenzi la velocità della Corrente del Golfo: maggiore è questo volume, minore è la velocità della corrente, che nei casi estremi si può addirittura fermare. In tal caso – paradossalmente - la deglaciazione porta in Europa, Mediterraneo e Vicino Oriente un peggioramento delle condizioni atmosferiche, in un quadro climatico freddo e arido.
    Un'altra correlazione apparentemente strana è stata recentemente dimostrata in un lavoro pubblicato su Science (1): la deglaciazione nell'emisfero settentrionale ha apportato un aumento di metano nell'atmosfera in Antartide nella parte finale dei cosiddetti “eventi di Heinrich, momenti in cui a causa dell'eccessivo afflusso di acque dall'Artico la Corrente del Golfo si ferma. 
    Questi episodi sono riconosciuti perché nell'Atlantico settentrionale in quei momenti si depositano sedimenti provenienti da nord. I dati dell'andamento del rapporto fra gli isotopi 16 e 18 dell'Ossigeno nei ghiacci groenlandesi (che è un ottimo indicatore delle temperature) dimostrano che gli eventi di Heinrich sono contrassegnati da un freddo piuttosto intenso.

    I ricercatori (primo firmatario dell'articolo è Rachael H. Rhodes dell'università dell'Oregon) hanno analizzato delle carote di ghiaccio prelevate nella calotta dell'Antartide occidentale, che sostanzialmente coprono gli ultimi 60.000 anni, in particolare la quantità di metano e le sue variazioni.
    Perché proprio il metano? Perchè la quantità di metano contenuto nel ghiaccio antartico oltre ad essere dipendente da quanto gas viene sequestrato o liberato da permafrost e idrati dei fondi marini, è un segnale della risposta della biosfera (almeno di quelle delle zone umide) ai cambiamenti climatici.
    Le variazioni nel tempo del contenuto di metano in Antartide sono all'incirca in armonia con le variazioni del rapporto fra gli isotopi 16 e 18 dell'Ossigeno in Groenlandia e della calcite in una grotta in Cina, tranne che durante le fasi finali degli Eventi di Heinrich, in cui nel Continente Bianco si osserva un picco improvviso della quantità di metano.

    È una cosa abbastanza sorprendente di cui però abbiamo una spiegazione, per la quale dobbiamo introdurre il concetto di “zona di convergenza intertropicale”.

    Gli alisei dell'emisfero settentrionale (o "di nordest”) si dirigono verso sud – ovest, mentre quelli dell'emisfero meridionale (gli “alisei di sud – est”) si dirigono verso nord – ovest. È ovvio quindi che ad un certo punto si devono scontrare e lo fanno proprio lungo una fascia che è la zona di convergenza intertropicale. Quando si scontrano l'aria tende a risalire verso l'alto e quindi a rilasciare l'umidità.
    La zona di convergenza intertropicale è quindi una fascia dove piove parecchio e si muove secondo le stagioni, spostandosi verso l'emisfero dove è estate.

    Durante gli eventi di Heinrich si evidenzia in tutto l'emisfero settentrionale una certa siccità, il che implica uno spostamento verso sud della zona di convergenza intertropicale, che a pensarci bene è logico: se si sposta durante l'anno verso l'emisfero in cui è estate, sarà altrettanto sensibile a degli “inverni prolungati” causati da queste vicissitudini dell'emisfero settentrionale.
    E qui viene alla ribalta il metano atmosferico, di cui le paludi sono grandi produttori naturali durante le reazioni di decomposizione dei vegetali morti: una maggior piovosità aumenta l'estensione delle zone umide al posto degli ambienti di savana. 
    Gli eventi di Heinrich, in special modo verso la loro fine, spostano la zona di convergenza intertropicale alle basse latitudini dell'emisfero meridionale, dove si registra un aumento delle piogge e di conseguenza dell'estensione delle zone umide rispetto alle savane. Una logica conseguenza è quindi l'aumento della produzione di metano in quell'area.

    Il gas prodotto nelle paludi è entrato nella circolazione atmosferica che prevede sostanzialmente una salita verso la stratosfera nella zona di convergenza intertropicale e una discesa nelle aree polari di ciascun emisfero. Seguendo le correnti questo metano è arrivato in Antartide ed è rimasto intrappolato nei ghiacci a dimostrare che gli eventi di Heinrich influenzano il clima a livello globale, non solo nei dintorni dell'Atlantico settentrionale dove si verificano.

    Di riflesso, siccome la risoluzione delle età nelle carote di ghiaccio è particolarmente precisa, è stato finalmente possibile ricavare con una ottima approssimazione la data e la durata degli ultimi 6 eventi di Heinrich, che con la sola stratigrafia dell'Atlantico Settentrionale non era ben determinabile.


    (1) Rhodes et al., 2015: Enhanced tropical methane production in response to iceberg discharge in the North Atlantic. Science 348, 1016–1019

    La necessità di nuovi treni più veloci per i servizi locali e a medio raggio

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    Ogni tanto su Scienzeedintorni mi occupo di trasporti e specificamente di trasporto su rotaia. Questo perché sono un convinto sostenitore del trasporto pubblico, specialmente su rotaia, al posto di quello privato su gomma per una serie di motivi economici e ambientali. Purtroppo il trasporto ferroviario in Italia è quantomeno perfettibile e le prospettive ci sarebbero: l'utenza ha dimostrato che l treno lo prende se è più conveniente in termini di velocità e comodità, basta vedere il netto passaggio dall'auto e dall'aereo al treno ad alta velocità fra Roma e Milano e il successo di nuove linee o nuove fermate messe intelligentemente. Ma c'è un settore del trasporto ferroviario, quello “a medio raggio” che è molto poco servito, eppure meriterebbe di più. La necessità di iniziare la sostituzione del parco carrozze “per medie distanze” potrebbe costituire una opportunità per “andare oltre” aumentando gli standard di velocità e rendere più interessante il treno per percorrenze un po' più lunghe di quelle del pendolarismo su direttrici non servite dall'Alta Velocità o in parallelo a questa. È un progetto che – tanto per dire - rappresenta l'obbiettivo principale delle Ferrovie Tedesche

    Il treno in Italia sconta una totale mancanza di cultura ferroviaria dell'italiano medio, troppo legato all'automobile. Per questo sono considerati inutili e se una persona si definisce appassionata di automobili viene considerata normale, mentre se si interessa di treni sicuramente ha qualche rotella fuori posto. Parimenti sulla costruzione di nuove autostrade nessuno (o pochi) hanno da ridire, sulle ferrovie invece sì. Mi chiedo cosa sarebbe successo se le linee ad alta velocità fossero frequentate come la fallimentare autostrada Bre-be-mi o se anziché per la costruzione della variante di valico la frazione di Ripoli del comune di San Benedetto Val di Sambro fosse stata severamente danneggiata dalla costruzione della nuova linea ferroviaria.... nugoli di NO-TAV a protestare dovunque. Invece quando i fallimenti sono sulla costruzione di strade niente manifestazioni di protesta.... È solo, secondo me, una questione di mancanza di cultura ferroviaria in un Paese individualista dove chi prende l'auto è un ganzo e chi prende il mezzo pubblico è uno sfigato (e anche per questo i mezzi pubblici italiani sono mediamente molto lenti: perché gli amministratori cittadini preferiscono in genere non scontentare gli automobilisti che favorire gli utenti dei mezzi pubblici).
    Eppure il mezzo pubblico è il sistema più vantaggioso da un punto di vista ambientale ed energetico.
    Chi mi conosce sa che posso essere definito un pasdaran dell'Alta Velocità (guardate questa polemicafra me e un No-Tav sulla Torino – Lione, opera da me sostenuta a spada tratta). Anche se, facendo dei semplici ragionamenti, mi sono ampiamente espresso contro il Ponte sullo Stretto e continuo a pensare che i soldi che dovrebbero essere spesi per la Venezia – Trieste possano essere impiegati, sempre dalle parti di Trieste, in modo ben più utile: il porto giuliano è eccezionale per spazi, profondità del bacino e collocazione geografica e avrebbe eccellenti prospettive se solo ci fossero collegamenti ferroviari decenti verso l'Europa centrale.

    In realtà questo contrasto fra Alta Velocità (spesso vista come un giocattolo da ricchi) e trasporto regionale esiste solo in Italia.
    Oggi abbiamo un sistema AV molto rigido (per scelte commerciali e non tecniche, che ne permetterebbero un unso più dinamico) che però funziona bene ed è diventato il modo più normale per muoversi lungo la direttrice Salerno – Torino. 
    Il trasporto ferroviario locale invece è essenzialmente concentrato nelle zone più vicine ai grandi centri urbani dove svolge un ruolo sociale enorme perché evita il collasso da traffico in numerose città che, come Firenze, raddoppiano di giorno o quasi la popolazione rispetto ai residenti. Purtroppo è spesso bistrattato e i suoi utenti sono considerati di serie B rispetto a quelli AV (basta vedere le angherie che subiscono tutti i giorni i pendolari che da Arezzo e Valdarno si recano a Firenze nei confronti dei viaggiatori delle Frecce sul tratto terminale della direttissima) ed in generale non si può dire che il servizio sia particolarmente soddisfacente.
    C'è poi un terzo tipo di trasporto, quello a medio raggio: spostamenti un po' più lunghi di quelli vicinali, ma più corti delle tratte AV e/o non serviti da queste linee. Questo traffico è l'obbiettivo del nuovo programma di investimenti delle ferrovie tedesche. Sarebbe giusto pensare anche in Italia a migliorare questo genere di servizi, con ottimi riflessi anche per il traffico pendolare.

    Treni e automobili hanno percorrenze, costi e modo di guida completamente diversi, per cui parlando di treni ci si deve per prima cosa togliere qualsiasi riferimento alle autovetture.
    Una locomotiva E 444 in condizioni originali
    La vita utile di un rotabile ferroviario è di una quarantina di anni (un po' meno adesso per i mezzi ad azionamento elettronico), se durante il suo ciclo il veicolo è stato sottoposto a regolari cicli di manutenzione, riuscendo dall'inizio alla fine della carriera a percorre milioni di km. Noto che comunque ci sono rotabili, macchine e vagoni, che sono riusciti ad essere in servizio anche ben oltre 50 anni dalla loro costruzione. Quanto alla percorrenza totale è possibile che alcune E444, le gloriose “Tartarughe”, siano riuscite a passare i 10 milioni di km percorsi nella loro lunga carriera!
    Se la vita è lunga, anche il prezzo è alto: una carrozza oggi costa ben più di un milione di euro e per una locomotiva ce ne vogliono almeno 4 (oggi comunque ci sono aziende che noleggiano locomotive). Questo succede sia per la complessità del mezzo che per lo scarso numero di esemplari prodotti: anche un'automobile prodotta in minima serie avrà molti più esemplari di una carrozza ferroviaria, per non parlare delle locomotive, per le quali difficilmente si arriva al migliaio di pezzi.
    Da queste considerazioni consegue che una Impresa Ferroviaria, specialmente di grandi dimensioni come Trenitalia, non può lasciare niente al caso e deve ragionare in un'ottica delle decine di anni.
    Le nuove carrozze "Vivalto"
    In questi anni per esempio le carrozze Vivalto (sulle quali ho qualche perplessità sulla qualità di alcune soluzioni tecniche) stanno sostituendo le carrozze a piano ribassato che furono ideate negli anni '60 e costruite massicciamente negli anni '70 per venire incontro alle esigenze del trasporto dei pendolari per distanze piuttosto brevi e che, nonostante numerosi miglioramenti, mostrano la loro età, soprattutto nella loro bassa velocità massima (140 km/h) e nello scarso confort.

    Carrozza per Medie Distanze prodotta negli anni '80 
    Nei prossimi anni invece inizieranno a compiere 40 anni le carrozze “per medie distanze”, concepite alla fine degli anni 70 per compiere viaggi più lunghi rispetto a quelli di quelle “a piano ribassato” (annoto che questa distinzione teoricamente rigida, è nella realtà piuttosto elastica, dato che non è infrequente vedere carrozze a piano ribassato su tragitti piuttosto lunghi).
    Quindi Trenitalia (che purtroppo temo rimarrà ancora a lungo incontrastato dominus del trasporto pubblico nella maggior parte delle Regioni) dovrà iniziare prima o poi (diciamo nei prossimi 4 / 5 anni) a porsi il problema della sostituzione delle carrozze per medie distanze di entrambe le serie (quelle con le porte più grandi, chiamate tecnicamente vestiboli, in posizione paracentrale, che quelle con le porte più piccole alle estremità).
    Penso che si dovrebbe fare di tutto per ottenere un significativo incremento nella qualità nel trasporto regionale a medie distanze: maggiore velocità e ambienti più comodi.

    Se vogliamo elevare gli standard dei treni regionali a medio raggio (e per medio raggio intendo servizi su relazioni lunghe anche ben oltre i 100 km, ma che fermano in tutte le località principali attraversate, come per la linea Firenze – Roma sono Montevarchi, San Giovanni Valdarno, Arezzo, Chiusi, Orvieto, e Orte) dobbiamo pensare ad una nuova classe di treni che possano raggiungere una velocità massima di 200 km/h: anche molte linee ferroviarie non AV ammettono in alcuni tratti velocità superiori ai 160 km/h, la massima raggiungibile dai mezzi oggi in dotazione al trasporto regionale.

    Bisogna inoltre notare come i treni in dotazione al trasporto regionale abbiano velocità ammesse in genere più basse di quelle dei treni AV o intercity. Vediamo questo cartello, tratto dal sito di Alfonso Martone, come ce ne sono tanti sulle linee: ci sono 3 velocità massime diverse che a seconda del rango di appartenenza un treno può fare. A parte i treni con carrozze a piano ribassato, che sono di rango A, il più lento (che comprende tutti i treni merci), le carrozze per i treni regionali appartengono al rango B, cioè quello intermedio. Appartengono al Rango C, quello più veloce, fra i treni regionali solo i "mezzi leggeri" (quelli dove non c'è una locomotiva, ma le unità di trazione sono anche vetture passeggeri) come il nuovo Jazz. Tutte le carrozze per treni Intercity e AV sono in rango C (C'è poi il rango P riservato ai pendolini, ma è una questione su cui qui non occorre entrare).

    È ovvio che questi nuovi treni dovranno essere posizionati in rango C, per sfruttare al meglio le potenzialità che offrono le linee: ad esempio nel cartello si vede che un treno in rango A può andare fino a 140 km/h, in rango B a 160 km/h, mentre uno in rango C a 180.
    Un treno in rango B non può mai passare i 160 km/h e quindi anche dove la linea consentirebbe di andare più veloce non può, ma queste differenze ci sono anche in tratti più lenti: dove la linea ammette velocità inferiori ai 150 km/h il rango C è di norma sempre più veloce del B di almeno 5 o 10 km/h.
    Quindi sono evidenti i vantaggi di un mezzo che viaggi fino a 200 km/h in rango C rispetto al materiale attuale che viaggia fino a 160 km/h in rango B.

    Qualcuno ha capito l'importanza del “medio raggio” e non a caso si tratta delle Deutsche Bahn, le mitiche DB, sicuramente l'impresa ferroviaria di riferimento a livello mondiale, che ha deciso di avviare una nuova politica per le relazioni di medio raggio con l'obbiettivo di “fare più passeggeri” in questo tipo di servizi, rubandoli sia alla mobilità privata che alle autolinee. L'operazione parte da nuove relazioni e nuovi treni, ma anche dalla velocizzazione di alcune linee. Nella carta qui sotto le linee rosse sono quelle ad alta velocità, in blu le relazioni che riguardano questa operazione (i nuovi treni potranno anche correre lungo le linee AV)
    Convogli di questo genere sono già disponibili (e vanno anche a 250 km/h. Per esempio i Javelin della Hitachi, treni “regionali” che oggi convivono senza problemi con i treni AV su una linea nata espressamente per l'Alta Velocità come la inglese HS1 che collega Londra con l'Europa attraverso il tunnel sotto la Manica.
    Ho nominato i Javelin perché ho un pò studiato il traffico della compagnia che li usa, la Southeastern Railways, ma anche altre case costruttrici hanno materiali del genere a listino (per esempio la Stadler).
    Questi treni sarebbero utili anche per molti pendolari nei dintorni delle aree urbane (penso per esempio a chi da Piacenza va a Milano o dal Valdarno superiore a Firenze)

    Insomma, dopo aver già negli anni '70 e '80 rinnovato e potenziato il parco dei servizi vicinali e regionali e negli anni '90 aver provveduto a costruire ferrovie e rotabili per alta velocità come nel resto dell'Europa, sarebbe giunto adesso il momento, sfruttando la prossima necessità di sostituire un intero parco rotabili per raggiunti limiti di età, di pensare a una serie di provvedimenti per quel traffico intermedio che non è né locale né a lunga percorrenza, e che oggi usa molto poco il vettore ferroviario.  

    Quali sono le linee in cui sento la necessità di questi nuovi materiali?
    Tutte le linee principali, fermando nelle principali stazioni: Firenze – Roma (percorrendo solo i tratti estremi nella DD) le linee tirreniche Roma – Pisa – Genova,  Roma – Napoli via Formia e Napoli – Reggio Calabria, l'adriatica Bologna Ancona – Bari – Lecce,   la Firenze – Prato  Bologna e da qui verso Milano, Brennero e Venezia – Trieste, le trasversali Roma – Ancona, Roma – Pescara e Roma – Puglia, la Torino – Genova, Torino – Piacenza – Bologna,  la Torino – – Venezia e tante altre. 
    Linee anche lunghe in cui la domanda di trasporto non è solo da capolinea a capolinea e lungo le quali ci sono diversi centri importanti oggi serviti “non benissimo”: non c'è solo chi si sposta fra Roma e Milano, ma anche chi da Vicenza deve andare a Brescia o da Arezzo a Parma. 
    Il sistema Alta Velocità da quando è nato ha riorganizzato le modalità di viaggio fra i centri principali: oggitra Roma e Milano 6 persone su 10 usano il treno, 3 l'aereo e solo una l'auto. Occorre aumentare l'incidenza del trasporto passeggeri su ferro anche su distanze minori o su zone non servite dalle linee AV.
    Il tutto possibilmente dovrà anche passare dall'adeguamento soprattutto in termini velocistici di alcune linee.

    Due note finali:
    1. da questa analisi ho escluso i traffici notturni e quelli a lunghissima percorrenza. Ma non è detto che la tipologia di treni che ho indicato non possa essere applicata anche a tali relazioni.

    2. avevo impostato questo post un paio di mesi fa. Ora Trenitalia ha dichiarato i programmi per il futuro. Ci sarà l'acquisto di nuovi mezzi ma purtroppo non si parla di aumentare la velocità dei treni regionali, né c'è un impegno verso il “medio raggio”  

    Anche l'anomalia dell'Iridio osservata al passaggio Cretaceo – Paleocene proviene dai Trappi del Deccan e non dall'impatto dello Yucatan

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    L'anomalia dell'iridio costituisce uno dei principali aspetti che hanno concorso alla formulazione dell'ipotesi dell'impatto meteoritico per spiegare l'estinzione dei dinosauri e di tante altre forme di vita al passaggio Cretaceo – Terziario ed era presente nel 100% delle sezioni disponibili all'epoca. Con il progresso della ricerca - tuttavia - oggi la troviamo solo in un quarto delle seziono del K/T conosciute (85 su 345). 
    Ormai è chiaro che anche l'anomala abbondanza di Iridio proviene dai Trappi del Deccan e non dal meteorite. Un altro passo per chiudere definitivamente con quella balla spaziale dell'asteroide – killer e vedere l'evento della fine del Mesozoico innescato da immense eruzioni basaltiche come è successo per tutti gli altri eventi di estinzione di massa (con forse un paio di eccezioni). Vediamo perché.
    La figura in (1): il K/T corrisponde al punto J.
    Il Maastrichtisno comincia un pò sotto il punto C
    L'anomalia dell'Iridio inizia vicino al punto F,
    un pò dopo l'inizio del Maastrichtiano superiore 

    La ricerca di possibili cause terrestri dell'anomalia dell'iridio è nota solo agli addetti ai lavori, eppure già dagli anni '80 c'era chi la faceva risalire ai basalti del Deccan. Cominciamo con un aspetto decisivo della questione: l'esame dei sedimenti evidenzia un picco principale dell'anomalia al K/T, ma questa comincia ben prima (anche il gruppo degli Alvarez lo aveva chiaramente indicato nella figura 3 del lavoro su Gubbio del 1980 (1), ma ha glissato su questo particolare di non trascurabile importanza). La stessa cosa è stata notata in parecchi altri luoghi. Se l'Iridio fosse stato rilasciato improvvisamente da un evento istantaneo, sarebbe logico aspettarsi un brusco picco iniziale. Invece abbiamo una ascesa graduale, che comincia centinaia di migliaia di anni prima.
    Pertanto si rendeva necessario trovarne altre possibili sorgenti. Una buona spiegazione era che nei dintorni del K/T ci sarebbe stata una serie di impatti multipli, ciascuno dei quali avrebbe rilasciato Iridio e altre cose come le microsferule.
    Livelli veramente alti di Iridio sono presenti soltanto in sei località: Stevns Klint in Danimarca, Caravaca in Spagna, El Kef e Elles in Tunisia, Meghalaya in India, e Woodside Creek in Nuova Zelanda. In quest'ultima località alcune microsferule ad alto tenore di Iridio sono state interpretate come alterazione di cristalli di pirite formatisi in situ. La stessa spiegazione è quella oggi più accettata anche per i livelli ad elevato contenuto di cristalli di pirite nel Fiskeler.

    Le microsferule in Nuova Zelanda da (2)
    In secondo luogo la distribuzione della quantità di Iridio non segue un criterio di distanza dallo Yucatan: ad Haiti e in Messico ci sono concentrazioni intorno a 1 ppb, contro 48 in Danimarca, 6 a Gubbio, 56 in Spagna e 72 in Nuova Zelanda (però ad essere precisi non segue neanche un criterio di distanza dall'India). Perché avviene tutto questo? Perché l'Iridio si deposita meglio in un ambiente riducente che in un ambiente ossidante e infatti ne troviamo una pronunciata anomalia dove al passaggio Cretaceo – Paleogene si stavano sedimentando argille ad alto tenore di materia organica e/o solfuri tipici di un ambiente privo di ossigeno: questi livelli possono essersi comportati come trappole per concentrare gli elementi siderofili. Ne consegue che l'assenza di condizioni chimiche appropriate può aver prevenuto la precipitazione dell'Iridio presente comunque nell'acqua o in atmosfera, o di altri elementi siderofili; questa ipotesi viene confermata dalla mancanza dell'anomalia dove non si sono verificate le anossie ed è continuata la sedimentazione calcarea.
    In terzo luogo nessuna anomalia è stata trovata negli ejecta di Chicxulub, dove è presente una debole concentrazione di Iridio – minore di 1 ppb – soltanto nei sedimenti sovrastanti che datano al Cretaceo terminale (i sedimenti del Maastrichtiano superiore dimostrano che la caduta del meteorite è avvenuta prima del limite K/T).

    Troviamo tracce di anomalia dell'Iridio in altre occasioni che rappresentano momenti particolari nella storia della vita sulla Terra, per esempio nella Repubblica Ceca, associata (toh!) a degli scisti scuri di origine anossica dall'importante contenuto di materia organica; sono rocce antichissime, hanno oltre 600 milioni di anni e dunque sono più antiche del Cambriano. Altre anomalie sono state evidenziate in alcuni limiti corrispondenti ad altri eventi di estinzione di massa, come quello fra il Precambriano ed il Cambriano e alla fine del Devoniano.

    Però, per attribuire alle eruzioni indiane l'anomalia dell'Iridio i ricercatori hanno avuto un problemino di non trascurabile importanza: di questo elemento nei trappi ce n'è davvero poco. Anzi, la sua concentrazione è più alta nei sedimenti deposti tra una colata e l'altra (da 0,05 ppb a 0,12 ppb) che nelle lave (0,027 ppb)!!
    Un dato simile appare a prima vista molto sconfortante e difatti gli impattisti l'hanno presa come una dimostrazione delle origini extraterrestri.
    Eppure per capire che la provenienza dell'iridio dal Deccan era possibile (anzi, probabile) sarebbe bastata una semplice ricerca bibliografica, cosa che evidentemente o non hanno fatto o ne hanno ignorato i risultati a bella posta.

    La storia ha inizio nell'isola di Hawaii, quando nel gennaio del 1983 cominciò l'eruzione del Kilauea ancora in corso oggi, dopo ben 30 anni. Sul Mauna Loa, un'altro dei grandi vulcani dell'isola, c'è un osservatorio nato per monitorare i cambiamenti climatici osservando da oltre 50 anni la circolazione globale di particelle solide nell'atmosfera e la composizione dei gas. In quei giorni nei filtri usati per campionare le particelle solide si accumulò oltre al normale pulviscolo atmosferico, un po' di polvere proveniente dalle fasi iniziali dell'eruzione del Kilauea, con una anomala concentrazione di alcuni elementi (selenio, arsenico, indio, oro e zolfo).
    Fu soprattutto evidenziata una pazzesca anomalia dell'Iridio, per cui, ad esempio, il rapporto iridio / alluminio di queste emissioni era 17.000 volte superiore a quello delle lave del vulcano! I ricercatori supposero che l'iridio contenuto nelle lave fosse stato prelevato dal liquido finendo in un composto volatile, probabilmente un fluoruro (3).
    La cosa si faceva decisamente interessante e per capirci di più i ricercatori andarono direttamente alla fonte dei volatili, le fumarole del Kilauea, che mostrarono lo stesso arricchimento.
    Probabilmente queste sono le osservazioni che portarono Officer e Drake a indicare già nella prima metà degli anni '80 le lave del Deccan come origine dell'Iridio (4).
    Anche alcune lave fresche del Kilauea contengono quantità abbastanza ingenti di Iridio (0.40 ppb), che però si trovano essenzialmente nei cristalli di cromite, un ossido di Cromo che è uno dei primi minerali a cristallizzare durante la risalita del magma: l'Iridio può sostituire il Cromo nei reticoli cristallini, perché i due elementi hanno dimensioni atomiche compatibili.

    Nel 1989 ci fu un'altra scoperta analoga in polveri provenienti dai vulcani antartici delle Pleiadi, deposte sui ghiacci del Continente Bianco: come quelli hawaiiani, anche questi magmi si originano in profondità nel mantello e il tenore di Iridio delle polveri è oltre 100 volte maggiore di quello delle lave (5).
    Anomalie nel contenuto di Iridio sono state trovate in varie serie stratigrafiche ben distribuite nello spazio e nel tempo e non solo nei dintorni del passaggio Cretaceo / Paleogene; oggi è chiaro che sono una caratteristica abbastanza comuni nei prodotti volatili che si liberano durante la risalita di alcuni magmi di origine profonda che vengono in superficie in zone lontane dai margini di zolla (i vulcani dei cosiddetti punti caldi).
    In questi magmi la presenza di una certa quantità di zolfo promuove una serie di reazioni grazie alle quali si formano composti volatili in cui si inserisce l'Iridio (di solito dei fluoruri), abbattendo la quantità di Iridio nella fase liquida e aumentandola in quella volatile.

    Nel 2008 due ricercatori indiani hanno studiato i sedimenti della valle del fiume Narmada nell'India centrale, Siamo in mezzo ai basalti del Deccan, in un luogo dove le colate si mettevano in posto in un ambiente palustre con laghi abbastanza estesi che si ripristinava ogni volta che cessava l'attività vulcanica. In quella zona fra l'altro vivevano molti dinosauri, di cui sono state trovate soprattutto le uova. In una serie sedimentaria spessa circa 6 metri fra due delle tante colate ci sono 3 orizzonti di colore scuro molto interessanti, spessi meno di un centimetro, a distanza di 25 / 30 centimetri l'uno dall'altro, con un alto tenore di Iridio: i primi due 1300 ppb, il terzo 700 (6). Non sono molto convinto della datazione assoluta di questi depositi presentata in quel lavoro, ma sicuramente sono di poco più vecchi del K/T perché contengono faune del Maastrichtiano superiore.
    Tutti i sedimenti della zona provengono dall'erosione meccanica e chimica delle lave sottostanti ma forti anomalie positive dell'Iridio le troviamo esclusivamente in quei tre livelli, a dimostrare che alti valori di iridio nei sedimenti si formano solo in una situazione chimica molto particolare.

    Cono attuale del Piton de la Fournaise
    all'interno della caldera di circa 5.000 anni fa
    Per concludere bene la faccenda e dimostrare un legame stretto fra Iridio e Trappi del Deccan, i volatili prodotti dal Piton de la Fournaise, il vulcano dell'isola di Reunion, nell'Oceano Indiano mostrano un alto contenuto di Iridio, molto maggiore di quello delle sue lave. Anche in questo caso, come nelle Hawaii, l'iridio è associato a minerali del fluoro (7).
    Perchè questa osservazione è così importante? Perché, il Piton de la Fournaise attualmente si trova sulla posizione dell'India quando sono stati eruttati i basalti del Deccan.
    Siamo quindi davanti alla ennesima argomentazione in favore dell'idea che l'anomalia dell'Iridio al limite Cretaceo/Terziario abbia avuto origine dai Trappi del Deccan.

    Queste cose che fanno crollare una certezza fondamentale degli impattisti sono note da oltre 20 anni, ma purtroppo poco conosciute fuori dal ristretto novero di chi studia le estinzioni di massa

    BIBLIOGRAFIA CITATA:

    (1) Alvarez et al., 1980: Extraterrestrial causes for the Cretaceous - Tertiary extinction K/T Experimental results and theoretical interpretation. Science268, 1095–1108
    (2) Brooks et al., 1985: Weathered spheroids in a Cretaceous/Tertiary boundary shale at Woodside Creek,
    New Zealand Geology 13, 738-740
    (3) Zolleer et al.,1983: Iridium Enrichment in Airborne Particles from Kilauea Volcano. Science222, 1118–1121
    (4) Officer e Drake, 1983: The Cretaceous-Tertiary Transition. Science219, 1383–1390
    (5) Koeberl, 1989: Iridium enrichment in volcanic dust from blue ice fields, Antarctica, and possible relevance to the K/T boundary event. Earth and Planetary Science Letters 92, 317–332
    (6) Shrivastava e Ahmad 2005: A review of research on Late Cretaceous volcanic-sedimentary sequences of the Mandla Lobe: implications for Deccan volcanism and the Cretaceous/Palaeogene boundary. Cretaceous Research 26/1, 145–156
    (7) Toutain e Meyer 1989: Iridium‐bearing sublimates at a hot‐spot volcano (Piton De La Fournaise, Indian Ocean), Geophys. Res. Lett.16(12), 1391-1394


    La frana di Ricasoli (Montevarchi - Arezzo): situazione e monitoraggio

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    L'abitato di Ricasoli è posto sulle colline del Valdarno superiore, nel comune di Montevarchi. Questo piccolo centro abitato è gravemente interessato da una serie di dissesti franosi (sul versante a nord dal 2001 e su quello a sud dal 2013) che hanno messo a rischio diversi edifici. Ci sono in atto delle operazioni di monitoraggio della situazione e i lavori per mettere in sicurezza l'abitato sono stati in parte realizzati. La situazione è quindi costantemente sotto controllo della strumentazione messa in opera dal gruppo di Geologia Applicata del Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze e rappresenta un interessante caso di studio.

    Le Balze del Valdarno presso Piantravigne
    Sull'origine della fossa del Valdarno Superiore e degli altri bacini della Toscana ci sono punti di vista diversi, come avevo sottolineato qui. Qualunque ne sia l'origine, tra il Pliocene superiore e il Pleistocene inferiore, diciamo tra 3 e 1,8 milioni di anni fa, la vallata è stata occupata da un sistema lacustre a cui appartengono tutti i sedimenti che affiorano al suo interno, il cui spessore massimo è di circa 500 metri e che sono suddivisibili in 3 cicli diversi. All'epoca il clima era subtropicale, caldo e umido: i laghi scomparvero per l'abbassamento del livello marino e l'instaurarsi di un clima più secco all'inizio dell'era glaciale; da quel momento l'erosione ha modificato il paesaggio e i depositi fluvio – lacustri formano le dolci colline che caratterizzano la vallata.

    Queste colline, indubbiamente suggestive, sono particolarmente prone a fenomeni erosivi perchè i sedimenti plio - quaternari hanno una scarsa coesione e qjuindi godono di scadenti proprietà geotecniche; in aggiunta  ci sono livelli ad elevato contenuto in materia organica, dalle caratteristiche ancora peggiori; ne risultano un arretramento dei versanti continuo e costante (anche se difficilmente apprezzabile a scala temporale umana) e una elevata franosità, specialmente in presenza di alcune litologie. Inoltre a causa della natura del terreno e dei suoli e della diffusione dei depositi delle frane, una buona parte delle acque piovane anziché scorrere via si infiltra nel suolo, imbevendolo e peggiorando ulteriormente la situazione.
    Perciò l'area è letteralmente tappezzate da frane, di cui una buona parte attualmente quiescenti (ma che vanno riconosciute per evitare guai).
    I fenomeni franosi si possono dividere a seconda della litologia prevalente: le pareti sabbiose sono soggette a crolli, le aree argillose e limose sono invece soggette a scivolamenti.

    L'erosione ha prodotto nel versante sinistro dell'Arno un sistema di crinali e valli perpendicolari al bacino. I crinali hanno più o meno tutti la stessa altezza che corrisponde quindi più o meno alla superficie più alta a cui era giunto il fondo dei laghi preesistenti. 
    Ricasoli è un suggestivo borgo situato su uno di questi crinali e oltre al classico arretramento dei versanti è interessato oggi da una frana principale superficiale nel versante settentrionale e da una serie di altri dissesti su entrambi i lati. In questa immagine, per confronto ed esempio, sono segnate le frane recenti visibili sul crinale a nord di quello di Ricasoli, che si vede dal paese (la più grande ha addirittura due nicchie diverse a testimoniare la sua complessità).



    Il costone è essenzialmente costituito dalle sabbie di Casa La Loccaia e questo è un problema proprio perché le sabbie sono molto permeabili e quindi presentano una circolazione idrica sotterranea che le indebolisce. Queste sabbie appartengono all'ultimo ciclo sedimentario del Valdarno e poggiano sui depositi del secondo ciclo.
    Il contatto fra le sabbie e i sottostanti limi e sabbie del torrente Oreno (appartenenti al secondo ciclo sedimentario) non è visibile in affioramento nell'area ma solo grazie alle stratigrafie ricavate dai pozzi.
    Sotto alla formazione dei limi e sabbie del torrente Oreno troviamo le argille del torrente Ascione e i limi di Terranova.


    La frana superficiale principale del versante nord è iniziata nel 2001 a seguito di forti precipitazioni, nella zona più a monte dell'abitato. A questa sono seguiti altri crolli e scivolamenti che si sono propagati lungo questo lato, verso valle. Nel versante sud, che già nel dopoguerra aveva subito importanti dissesti (i più anziani ricordano perfino una strada ora franata dove erano addirittura passati dei carri armati), i fenomeni sono ricominciati solo nel 2013. Hanno minori dimensioni, una tendenza evolutiva più lenta ma hanno interessato maggiormente la zona edificata.

    Un'altra conseguenza delle frane è la perdita di questo questo pozzo, posto a metà del costone nord: è diventato improduttivo perché il terreno si è mosso circa 4 metri sotto di esso, rompendone la camicia. 

    Esistevano poi  delle indicazioni per cui era probabile anche l'esistenza di uno scivolamento profondo. I dati del monitoraggio hanno successivamente confermato l'ipotesi: la zona è interessata pure da un movimento non visibile in superficie; lo scorrimento, suborizzontale, avviene lungo su una superficie posta una ventina di metri sotto il piano di campagna della valle; è possibile che corrisponda al contatto fra i limi e sabbie di Oreno e le argille dell'Ascione, ma siccome queste contengono degli intervalli di torbe in cui il valore di resistenza al taglio è piuttosto basso, la superficie potrebbe corrispondere ad un livello più debole ad alto contenuto organico (torba), costituendo un orizzonte prono allo scivolamento.

    Il Dipartimento di Scienze della Terra dell'Università di Firenze si occupa del monitoraggio di questa zona di dissesto con una strumentazione piuttosto varia.
    Inizialmente sono stati eseguiti una dozzina di sondaggi tramite delle perforazioni profonde tra 40 e 90 metri); una parte di questi pozzi è stata attrezzata con tubi inclinometrici, estensimetri a filo e piezometri. Su questi pozzi vengono effettuate misurazioni periodiche con una sonda che misura ogni 50 centimetri le variazioni angolari del tubo inclinometrico e permettono di individuare le superfici di scivolamento. 
    Le misure sono affiancate a prove di resistenza in situ e prove dei materiali in laboratorio. 

     Un estensimetro su un edificio e dei distanziometri laser
    In seguito è stata approntata una rete di monitoraggio su alcuni edifici a rischio, comprendente distanziometri ed fessurimetri. 
    Tutta questa strumentazione è automatica e i sensori sono collegati ciascuno ad un proprio nodo (visibile accanto allo strumento e che lo interroga a intervalli predeterminati). Il nodo fa parte di una rete wi-fi dedicata che opera a frequenze diverse da quelle normalmente in uso, grazie alla quale trasmette i dati ad un nodo centrale, dal quale vengono inviati via GSM ad un terminale remoto. I nodi, specialmente quelli più lontani, possono comunicare con quello centrale anche attraverso gli altri nodi se non riescono ad ottenere una connessione diretta.

    il nodo centrale  per trasmette i dati provenienti dagli strumenti
    e  il pannello solare che ne ricarica le batterie
    Il nodo centrale, oltre alla batteria è munito di pannelli solari a causa del suo maggior consumo di energia. Altri pannelli solari alimentano una stazione meteorologica, che è stata intallata a completamento del monitoraggio per ottenere in tempo reale vari parametri tra i quali sono specificamente importanti la pluviometria e l'igrometria.

    Tutto funziona a batterie senza collegamenti con la rete elettrica. Il sistema a batterie è stato sviluppato per lo studio delle frane non solo perché non sempre dove c'è una frana ci sono a disposizione punti per il prelievo di energia elettrica, ma anche perché così si evitano problemi dovuti ai frequenti sbalzi di tensione. Per cui anche dove la rete elettrica è disponibile è sempre preferibile evitare di allacciarvisi. Quanto alla durata delle batterie il sistema è ottimizzato per una loro lunga durata e sono di facile sostituzione. 
    Naturalmente è stato effettuato anche un censimento delle fratture sugli edifici che viene costantemente aggiornato in caso di novità. 


    In questa immagine si vede la sistemazione della frana principale sul versante nord. Sono state messe in posto delle palificazioni in legno e terre armate, accompagnate da reti. Qualche perplessità suscita la realizzazione del sistema di drenaggio: è essenziale che l'acqua eviti quanto più possibile di immettersi nella zona in frana e quella che ci entra deve essere immediatamente fatta evacuare e i dreni realizzati paiono un po' troppo superficiali mentre dovrebbero andare più in profondità.


    Un altro provvedimento importante visibile qui sopra è stato lo sbancamento della parte più alta della collina nella zona non abitata, effettuato togliendo uno spessore di un metro di terreno per alleggerire lo sforzo sulla zona in frana. 
    Per evitare che le acque piovane si infiltrino nel terreno sotto l'area sbancata, è interessante la realizzazione di un canale a trincea subito prima della scarpata per convogliarle nella rete fognaria (visibile con un pò di attenzione dalla fotografia). Simili trincee sono state realizzate anche sui gradoni della sistemazione della frana.

    Purtroppo a valle della sistemazione le frane continuano sul versante nord, mentre sul versante sud i lavori non sono ancora partiti. Sono stati solamente coperti con dei teli di plastica a scopo di impermeabilizzazione alcuni terreni.

    Ricasoli rappresenta un buon laboratorio sulle dinamiche geologiche di un centro abitato situato su una zona in frana. 
    La presenza della rete di monitoraggio costituisce un indubbio vantaggio per i residenti: dà loro la tranquillità di sapere che in mancanza di allarmi la situazione è stabile e avverte prima che avvengano movimenti importanti: in questo contesto è importante anche la presenza della stazione meteorologica, in grado di valutare quando il maltempo rischia di provocare guai. 
    Vista la tipologia dei fenomeni, è necessario che il monitoraggio dei movimenti rimanga permanente per tenere sotto controllo eventuali problemi futuri.


    Smaltimento in pozzi profondi dei reflui del fracking e sismicità indotta: chiariti finalmente i rapporti

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    Ho parlato spesso del fracking, pratica ambientalmente molto discutibile, e della sismicità indotta che non è causata dal fracking in se e per sé ma dalla reimmissione in pozzi profondi di quella parte dei fluidi impiegati che, anziché starsene buoni buoni a qualche migliaio di metri di profondità nella roccia fratturata, torna indietro e deve essere in qualche modo depurata o smaltita a causa del suo contenuto “non propriamente salubre”. In USA la scelta principale è quella di collocarla in profondità per allontanarla dalle falde acquifere superficiali e dalle acque dolci, ma questo sistema ha portato nella zona centrale degli “States” un aumento esponenziale della sismicità, con qualche episodio piuttosto forte. Quindi una serie di studi hanno cercato di capire le motivazioni di tutto questo e ora, finalmente, dopo aver stabilito che la sismicità è dovuta alla reiniezione, si è capito perchè il fenomeno si attiva solo su alcuni pozzi. A questo punto si aspettano i rimedi.

    L'ultimo articolo su Science a proposito dei rapporti fra sismicità indotta e estrazione di idrocarburi registra diverse reazioni scomposte anche in Italia: da un lato i "petroliofili" che gridano vittoria dicendo che è successo solo nel 10% dei casi, negando poi tutte le controindicazioni ambientali del fracking (finanche la pericolosità dei composti chimici impiegati), dall'altra gli ambientalisti nostrani che gridano allo scandalo e che anche per questo proclamano che non sia il caso di trivellare l'Adriatico (continuando a non capire che in Italia non si può fare fracking...). Non ne posso più... 

    Vediamo dunque di ricapitolare la situazione.
    Dal 2009 è bruscamente aumentata la frequenza della attività sismica nell'area centrale degli USA, quella delle grandi pianure e degli altopiani posta tra le Montagne Rocciose a Ovest e gli Appalachi ad est; molti eventi sono stati avvertiti dalla popolazione e qualcuno ha persino provocato forti danni in un'area in cui, siccome non se ne sentiva il bisogno, gli edifici sono stati costruiti non certo per resistere ai terremoti.
    L'aumento è estremamente evidente, mentre si nota che la sismicità naturale non associata alle reiniezioni sia rimasta più o meno costante.
    Di questi eventi i più forti sono stati nel 2011: Prague (M 5.6, Oklahoma), Trinidad (5.3, Colorado) e Guy (4.7, Arkansas); nel 2012 si è registrato il terremoto di Timpson (M 4.8, Texas). Il fenomeno continua: ad esempio in Oklahoma nel 2014 si sono prodotti 32 terremoti con M 4 o più, contro gli zero del 1994. La nuova situazione ha ovviamente suscitato un serio allarme nella popolazione e nelle autorità e la comunità geologica americana ha iniziato a studiare la situazione (anche se l'industria del petrolio americana ha sempre cercato di minimizzare la questione). Per una presentazione della storia delle ricerche in proposito, potete leggere questo mio post di 2 anni fa.

    il Fracking: perforazione orizzontale che rompe
    una serie di rocce di origine argillosa dure e compatte
    L'ipotesi di una associazione fra questi terremoti e la nuova pratica della perforazione orizzontale, il fracking, era suggerito dalla contemporaneità degli eventi. Ben presto però è stato chiaro che la colpa non fosse da addebitare al fracking in se stesso, ma rappresentasse un danno collaterale di una pratica accessoria, l'immissione in profondità dei cosiddetti liquidi di flow – back, quella parte delle acque immesse a pressione nel sottosuolo per rompere le rocce contenenti il gas che, anziché rimanere tranquilla dove è arrivata, se ne torna indietro (tipicamente un po' meno del 20% del totale).

    Questo fenomeno, tuttavia, non è diffuso in maniera costante ma riguarda più specificamente certe aree rispetto ad altre. La domanda quindi era capire perché alcuni pozzi di reiniezione provocano terremoti e altri no. Cliff Frohlich, uno che di queste cose si è occupato approfonditamente, nel 2010 notò nell'area del Texas dove viene coltivato il Barnett Shale, una delle formazioni più importanti del sistema americano di oil e gas shales, che il collegamento fra sismicità indotta e pozzi di reiniezione avveniva in presenza di ritmi di reiniezione superiori ai 150.000 barili (17.350 m3) al mese (1).

    La reiniezione dei fluidi può avere due scopi:
    - il primo è la stimolazione della produzione dei pozzi di idrocarburi convenzionali (pozzi "EOR": Enhanced Oil Recovery): si iniettano liquidi per poter ricavare altro petrolio da riserve impoverite
    - il secondo è il collocamento in una riserva profonda di acque inquinate che sarebbero un pericolo per le acque superficiali e per quelle delle falde sfruttate a scopi idropotabili e irrigui (pozzi "SWD": Salt Water Disposal)

    Questo collegamento è stato esteso dall'area del Barnett Shale a tutti gli USA centrali da altri ricercatori americani che hanno pubblicato i loro risultati questo mese su Science (2).
    Nel lavoro sono sotto inchiesta sia le attività di estrazione convenzionali che le reiniezioni direttamente conseguenti al fracking. I pozzi EOR rappresentano il 75% del numero dei pozzi, ma è più facile che siano gli SWD a provocare terremoti, perché nei primi il quantitativo di fluidi immessi deve essere più o meno uguale a quello dei fluidi estratti dai pozzi petroliferi attivi (per cui le variazioni di pressione dei fluidi nel sottosuolo rimane più o meno costante), mentre i secondi immettono fluidi in zone dove non c'è estrazione e quindi ne risulta un aumento della pressione dei liquidi nel sottosuolo.

    L'associazione fra reiniezione e sismicità indotta non è costante. Se la sismicità indotta si produce sempre vicino ai pozzi, non è vero il contrario: ci sono ampie zone in cui si reinietta senza sismicità indotta. Sono stati esaminati (ovviamente tramite software...) i dati di 187.000 pozzi incrociandoli con gli eventi sismici (o, meglio, con l'incremento degli eventi sismici) avvenuti entro i 15 km di distanza, ricavati dall'Advanced National Seismic System's compprehensive earthquake catalog. L'associazione fra pozzi e scosse è stata trovata in circa il 10% dei casi.
    Per cui la reiniezione è una condizione necessaria ma non è da sola sufficiente per indurre la sismicità. In questa carta sono segnati in blu i pozzi che non hanno dato problemi, in giallo quelli che li hanno dati.
    Carta dei pozzi di reiniezione da (2): si nota il raggruppamento nello spazio di quelli coinvolti nella sismicità

    Quindi vanno cercati altri parametri che la devono influenzare. Weingarten e i suoi hanno considerato:
    - il volume di fluidi iniettato
    - il tasso di iniezione
    - la pressione alla testa del pozzo
    - la distanza dal basamento cristallino.

    Questa ultima merita una precisazione per i non geologi: anche dove in superficie ci sono rocce sedimentarie prima o poi scendendo si incontrano rocce cristalline. Negli USA centrali questo succede a profondità molto diverse: ci sono punti dove poche centinaia di metri di sedimenti coprono il basamento, mentre in altri punti bisogna sono parecchie migliaia di metri.

    Di questi parametri il tasso di iniezione risulta quello più importante, come era emerso nel 2012 e come si vede dalla figura qui sopra: la percentuale di pozzi associati con la sismicità indotta aumenta all'aumentare del tasso di iniezione. Non ci sono invece particolari associazioni fra sismicità e quantità totale di fluidi introdotti.

    Vediamo ora un'altro aspetto: la relazione spaziale fra terremoti naturali e "artificiali":
    in quest'altra carta, sempre tratta da (2), i cerchi bianchi rappresentano la sismicità naturale,
    quelli rossi la sisimicità indotta

    La carta qui sopra suggerisce che anche la sismicità indotta abbia una logica “geologica”, perché i terremoti artificiali (cerchi rossi) si innescano in generale nelle stesse zone di quelli, sia pure infrequenti, di origine naturale. Quindi insieme al motivo per cui il fluido viene iniettato (stimolazione della produzione o stoccaggio permanente) e alla sua quantità, va considerata anche la geologia del sito, in particolare la vicinanza del pozzo ad una faglia attiva o quiescente. 
    Il criterio geologico decisivo è quello della profondità del basamento cristallino: vediamo la carta di Mooney e Kaban della profondità del basamento cristalino in USA (3). Di fatto ci sono zone dove l'attività di iniezione è molto intensa ma non c'è traccia di attività sismica né naturale ne indotta e sono tutte aree dove la copertura sedimentaria molto spessa: per esempio alcuni grandi bacini sedimentari, come quello del San Juan (New Mexico), di Williston (nord Dakota) e del Michigan e le aree costiere di Texas e Louisiana.

    È evidente che in questi bacini sedimentari lo spesso volume di depositi non è interessato da faglie, oppure queste non sono nelle condizioni di attivarsi in presenza di un alto tasso di iniezione di liquidi come quelle del basamento cristallino.
    Le zone dove il basamento è molto meno profondo, come l'Oklahoma e l'interno del Texas, sono invece quelle più soggette al fenomeno.

    A questo punto ritengo che questo articolo possa mettere la parola fine (se qualcuno continuasse ad insistere al proposito) sulla stupidissima questione dell'innesco artificiale dei terremoti emiliani del 2012, dovuto secondo qualche personaggio un po' eccentrico alla attività di estrazione di idrocarburi (e in particolare alla reiniezione nel pozzo Cavone).

    BIBLIOGRAFIA SCIENTIFICA CITATA:

    (1) Frohlich (2012) Two-year survey comparing earthquake activity and injection-well locations in the Barnett Shale, Texas. PNAS 109;13934–13938
    (2) Weingarten et al. (2015): High-rate injection is associated with the increase in U.S. mid-continent seismicity. Science 348; 1336 – 1340
    (3) Mooney and Kaban (2010) The North American upper mantle: Density, compositionm and evolution J. Geophys. Res. 115, B12424

    Le cause comuni delle estinzioni di massa: i dinosauri non si sono estiniti a causa del meteorite ma per le eruzioni dei Trappi del Deccan.

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    Nel 1980 un gruppo di ricercatori dell'università californiana di Berkeley propose che alla fine del Cretaceo un meteorite condritico cadde sulla Terra, rilasciando una forte anomalia dell'Iridio; le polveri derivate dall'impatto stesso e quelle degli incendi innescati dai residui incandescenti dispersi in tutto il mondo provocarono una sorta di inverno simile al teorizzato inverno nucleare, e portano all'estinzione molti animali, fra i quali i dinosauri. Nel 1991 fu accertata l'esistenza di un cratere nello Yucatan di età e dimensioni compatibili con quanto ipotizzato 10 anni prima e nel 1994 la cometa Shoemaker – Levy cadde su Giove: a questo punto il connubio meteorite – estinzione sembrava ormai certo. In realtà le cose non stanno così,ma questa nozione sta faticando molto ad uscire dal ristretto nucleo di persone che si interessano specificamente dell'argomento. Voglio quindi cercare di far capire che questo e la maggior parte delle estinzione di massa sono avvenute a causa di una particolare attività vulcanica, quella delle Large Igneous Provinces e che anche al K/T si stava mettendo in posto una serie del genere, quella dei basalti del Deccan, circa un milione di km cubi di magmi prodotti per la maggior parte in poche decine di migliaia di anni.

    Per una grossa fetta di scienziati, specialmente fuori dal mondo delle Scienze della Terra, per imedia e per l'uomo comune non ci sono dubbi: l'estinzione dei dinosauri è dovuta all'impatto di un meteorite avvenuto lungo le odierne coste della penisola dello Yucatan, in Messico.Bene, questa è letteralmente una balla spaziale, per dirla come Mel Brooks. La realtà è molto diversa, ma i cosiddetti “impattisti” hanno silenziato in vari modi gli oppositori di questa ipotesi, per cui per molto tempo nessuno o quasi è stato informato dell'esistenza di una ipotesi alternativa. 
    Non lo ero neanche io fino al dicembre 1990, quando su “Le Scienze” due articoli, scritti da dei pezzi da 90 delle ricerche in proposito, confrontavano le due ipotesi sulla estinzione della fine del Cretaceo: il primo sosteneva che la causa fosse la caduta del meteorite nello Yucatan (1), mentre l'altro focalizzava la particolare sincronia fra molte delle principali estinzioni di massa e la messa in posto di grandi espandimenti vulcanici (2).
    Questo secondo articolo mi convinse parecchio, e 20 anni dopo, grazie ad un lavoro che ne parlava, capii che quando andai da studente universitario a Gubbio avevo ragione sul fatto che il livello scuro del K/T e un altro livello simile, il Livello Bonarelli, si erano formati per gli stessi motivi.

    Nel marzo 2013 si è tenuta al Museo di Storia Naturale di Londra una conferenza che ha riunito i principali esperti sullo studio delle estinzioni di massa; dagli atti, contenuti nel volume speciale n.505 della Geological Society of America, è ampiamente dimostrato che il meteorite con l'estinzione dei dinosauri non c'entra niente. C'è anche una interessante intervista a Gertha Keller che presenta il volume.
    In pratica siamo davanti ad un ritorno di quelle che erano le idee precedenti a quando gli Alvarez formularono l'idea del meteorite e cioè che alla radice del problema c'erano dei cambiamenti climatici, in particolare un forte riscaldamento la cui causa, come ipotizzato dagli anni '80, sono i basalti del Deccan. Vediamo perchè.

    1.il K/T è stato solo l'epilogo di tutta una serie di fenomeni che hanno provocato una lunga serie di problemi alla vita sulla Terra nel Maastrichtiano superiore. C'è una precisa relazione fra l'evoluzione climatica del Maastrichtiano superiore e del Daniano inferiore con le 3 fasi principali dell'attività nel Deccan. L'impatto invece è avvenuto quando la perturbazione climatica e quella biotica erano in corso da un bel po' di tempo


    2. le estinzioni di massa sono legate dal punto di vista temporale con l'attività delle Large Igneous Provinces (LIP): un evento di LIP consiste nella produzione di parecchie centinaia di km3 di magmi (se non milioni). In questa immagine i tassi di estinzione sono confrontati alle LIP: vediamo chiaramente il legame fra i trappi siberiani con l'estinzione di fine Permiano e fra la Provincia dell'Atlantico Centrale con l'evento di fine del Triassico. 
    E anche alla fine del Cretaceo c'era una attività di Large Igneous Province simile, i Trappi del Deccan, una serie impressionante di lave che nella Penisola Indiana coprono oggi, dopo 65 milioni di anni di erosione, circa 500.000 kilometri quadrati con spessori che raggiungono i 2000 metri. È una quantità inimmaginabile, capace di coprire tutta l'Italia, isole comprese, con tre Km di lave!
    Le LIP degli ultimi 300 milioni di anni (più quella della Yacuzia un pò più antica)

    La più antica connessione del genere oggi accertata è quella tra l'estinzione alla fine del Cambriano inferiore e la provincia magmatica di Kalkarindji in Australia, circa 510 milioni di anni fa ma è probabile che si possa andare ancora più indietro, anche a 2 miliardi di anni fa. 
    Le uniche eccezioni sembrano essere l'evento di metà Carbonifero e quello di fine Eocene, che condividono un'altra caratteristica: hanno preceduto l'instaurarsi di importanti cicli glaciali

    3. il cratere dello Yucatan non è datato al passaggio Cretaceo / Paleocene ma lo precede di qualche decina di migliaia di anni, probabilmente tra 120 e 150 mila: lo si nota perché sopra ai prodotti dell'impatto ci sono sedimenti del Maastrichtiano terminale.
    Questo è certificato dalla Commissione internazionale di stratigrafia geologica, secondo la quale il limite K/T viene definito dalla presenza di anche una sola di queste caratteristiche: 
    - fase acuta dell'anomalia dell'Iridio, estinzione di tutte le specie tipicamente cretacee di foraminiferi planctonici, a parte Guembelitria cretacea (una forma resistente ad acque particolarmente acide e prive di Ossigeno)
    - la presenza dei primi foraminiferi tipicamente paleocenici (ad esempioParvuloglobigerina eugubina )
    - la particolare variazione del δ13C, il rapporto fra la quantità di 12C e 13C nei sedimenti e nei gusci animali (lo stesso osservato alla fine del Triassi
    co e alla fine del Permiano, per esempio). 
    Non ci sono gli ejectadell'impatto perché, appunto, è avvenuto prima

    l'enorme estensione dei Trappi del Deccan
    4. secondo l'ipotesi dell'impatto il K/T è stato un momento freddo e buio a causa delle polveri dell'impatto e degli incendi; invece è successo l'esatto contrario: il limite si colloca durante un forte riscaldamento iniziato circa 50.000 anni prima, provocato dalle emissioni di gas – serra (soprattutto CO2) provenienti dal Deccan. È vero che tra la collisione ed il K/T c'è stato un momento un po' più freddo, in cui è persino possibile la presenza nelle zone polari di piccole calotte glaciali (il che giustificherebbe il momentaneo abbassamento di qualche decina di metri del livello marino) (3). Ma questa fase più fresca è stata causata dai gas e dai volatili rilasciati nella stratosfera nei momenti iniziali della seconda fase dell'attività in India (quella più forte e che era in corso al K/T). È interessante notare che anche negli altri episodi di estinzione di massa la fase acuta si è avuta durante una fase di riscaldamento e aumento del livello marino che ha seguito un momentaneo abbassamento del livello marino in condizioni climatiche più fresche (4)

    5. l'estinzione improvvisa dei foraminiferi planctonici è visibile se (e solo se) non viene riconosciuta l'esistenza di una lacuna di sedimentazione, cioè di un momento in cui per qualche motivo, per un certo tempo cessa la deposizione dei sedimenti. In questo caso il problema è dovuto a quella fase a basso livello marino di cui ho parlato qui sopra. Dove invece la sedimentazione è continua si nota una gradualità nelle estinzioni, Fra i casi più noti citoEl Kef in Tunisia, Nye Klov in Danimarca o il bacino del Krishna – Gadavari in India, ma ce ne sono decine di altri (5).

    6. Il K/T è stato un momento di particolare acidità delle acque marine per il forte aumento del contenuto di CO2. Per gli impattisti proveniva dalla fratturazione dei calcari della piattaforma carbonatica dello Yucatan causata dall'impatto. In realtà il fenomenoè iniziato molto prima dell'evento cosmico ed è stato provocato dalle emissioni di gas legate al vulcanismo del Deccan. Si può inoltre notare che dopo la fase acuta del K/T una diminuzione dell'acidità coincide con un tentativo di recupero della biodiversità; questo tentativo è stato bloccato da un nuovo aumento dell'acidità, avvenuto in corrispondenza della terza fase parossistica dell'attività indiana. Non ci sono evidenze di un aumento dell'acidità scatenato dall'impatto

    7. anche l'anomalia dell'Iridio viene dal Deccan: ho scritto un post specifico su questo argomento, che riassumo brevemente: è stata notata nei volatili prodotti da magmi alcalini intraplacca, ad esempio nella corrente eruzione del Kilauea (6) e nei vulcani antartici delle Pleiadi. E, particolare di non trascurabile importanza, la contengono anche i volatili prodotti dal Piton de la Fournaise, il vulcano che è oggi situato dove stava passando l'India nel momento in cui si producevano i Trappi del Deccan (7).
    Inoltre come si vede dalla figura tratta dal lavoro del team degli Alvarez del 1980, a Gubbio l'anomalia inizia ben prima del K/T, ha una interruzione e poi riprende fino al picco della fine del Cretaceo (8). Mi spiegate come è possibile che l'anomalia sia iniziata PRIMA della caduta se viene da questa? Inoltre quella prima fase in cui l'iridio aumenta corrisponde (toh...) alla prima fase dell'attività nel Deccan.
    Anche nello Yucatan l'anomalia ha un andamento simile a Gubbio.
    L'anomalo contenuto di Iridio nei volatili si forma a causa di reazioni nella fase volatile dei magmi alcalini prima che eruttino

    8. le microsferule dei sedimenti del K/T non sono alterazione di tectiti (con questo termine si definiscono particelle vetrose prodotte dalla fusione improvvisa delle rocce a causa del calore prodotto dall'attrito con l'atmosfera e dalla collisione stessa e che si sono risolidificate più velocemente di quanto sarebbe stato necessario per formare dei cristalli), ma hanno una origine sedimentaria locale.

    9. il K/T è un momento in cui la percentuale di argille smectitiche aumenta temporaneamente diverse volte rispetto alla normalità in cui si depositano argille illitiche. Queste smectiti hanno un forte arricchimento in Ferro, Magnesio e altri elementi metallici contenuti nelle lave del Deccan

    10. Anche la presenza di fullereni non implica che siano stati prodotti dagli incendi seguiti all'impatto: ceneri e fullereni sono relativamente comuni in molti sedimenti del Cretaceo superiore a causa della grande diffusione all'epoca di incendi boschivi che era dovuta al contenuto di ossigeno nell'atmosfera, più alto di oggi. Le condizioni di maggiore aridità durante il riscaldamento del Maastrichtiano terminale ne hanno ulteriormente aumentato la frequenza. Da notare che proprio gli incendi sono una parte essenziale delle motivazioni per cui le angiosperme hanno in gran parte sostituito le conifere nella seconda metà del Cretaceo.

    11. secondo gli impattisti un livello spesso fino a 3 metri lungo la costa del Golfo del Messico fra Messico settentrionale e Texas rappresenta i depositi dello tsunami provocato dall'impatto. Ora, a parte la ricostruzione molto fantasiosa degli eventi (onda di ritorno compresa...) il livello mostra 3 lunghe interruzioni della deposizione contrassegnate da paleosuoli e tracce di attività degli animali che vivevano sul (e nel) fondo marino. In realtà questo livello risale alla famosa fase a basso livello marino di cui sopra in cui ci sono state temporanee interruzioni della sedimentazione ordinaria e ripristinate le condizioni normali la sedimentazione è ritornata ad essere quella marnosa precedente

    12. ci sono diverse evidenze sul fatto chel'epicentro della crisi biotica sia stato in India e non nei Caraibi

    13. recenti studi sul paleomagnetismo hanno dimostrato che le lave della seconda fase dei trappi del Deccan si sono deposte in un tempo ridottissimo, poche decine di migliaia di anni(9). La concentrazione estrema delle eruzioni ha rivoluzionato i modelli climatici che invece consideravano una attività protrattasi per diverse centinaia di migliaia di anni, secondo i quali era difficile che i gas emessi dalle eruzioni potessero concentrarsi in maniera tale da provocare tutti questi danni

    14. l'eruzione in Islanda del Laki nel 1783 (ne ho parlato qui) rappresenta una simulazone anche se debolissima di cosa succede durante un evento di Large Igneous Province: con “solo” 17 km3 di magma prodotti (contro le decine di migliaia di una singola colata di LIP) una nebbia secca avvolse l'Europa, provocando danni all'agricoltura e un aumento del tasso di mortalità per patologie respitatorie e – a cascata – cardiache.

    15. e questa è l'ultima (e la più bella): le più recenti tracce di esistenza dei dinosauri sicuramente datate precedono il K/T di almeno 400.000 anni, anche nella mitica formazione di Hell Creek nel Montana. Di fatto non è ancora stata dimostrata la presenza di dinosauri in epoche più vicine al K/T: chiunque lo dice non porta chiare dimostrazioni: sono chiaramente fossili del Maastrichtiano superiore ma non ci sono indizi che appartengano proprio alla fase finale. E non lo dico io ma J.Davis Archibald, che è uno dei massimi esperti del settore, secondo il quale non è dato sapere ancora se i dinosauri si sono estinti improvvisamente o gradualmente, né di rpeciso quando. Si nota comunque una diminuzione della loro diversità in tempi precedenti (10).

    Concludendo, i trappi del Deccan sono una causa decisamente convincente per capire le motivazioni e l'andamento dell'estinzione di massa di fine Cretaceo, mentre l'impatto dello Yucatan assolutamente non lo è.
    E anche Alvarez figlio adesso si sta limitando a proporre che l'impatto abbia in qualche modo accelerato la messa in posto dei basalti della seconda fase del magmatismo indiano.
    Ma quello che è successo nel Deccan è successo diverse altre volte, e senza un meteorite a rompere le scatole....

    (1)Alvarez We Asaro (1990)Un impatto extraterrestre. Le Scienze204, 40–46
    (2)Courtillot (1990) Un'eruzione vulcanica. Le Scienze268, 47–54
    (3)Milleret al., (2005)Visions of ice sheets in a greenhouse world. Marine Geology217, 215–231
    (4)Keller et al., (1993)Gradual mass extinction, species survivorship, and long-term environmental changes across the Cretaceous-Tertiary boundary in high latitudes. Geological Society of America Bulletin 105/8; 979 – 997
    (5)Hallam eWignall (1999) Mass extinctions and sea-level changes Earth-Science Reviews48, 217–250
    (6) Olmez et al., (1986), Iridium emissions from Kilauea Volcano. Journal of Geophysical Research – Solid Earth91/B1, 653–663
    (7) Toutain & Meyer (1989) Iridium‐bearing sublimates at a hot‐spot volcano (Piton De La Fournaise, Indian Ocean), Geophys. Res. Lett.16(12), 1391-1394
    (8) Alvarez L.et al., 1980, Extraterrestrial causes for the Cretaceous - Tertiary extinction K/T Experimental results and theoretical interpretation. Science268, 1095–1108
    (9) Chenet et al., (2009) Determination of rapid Deccan eruptions across the Cretaceous-Tertiary boundary using paleomagnetic secular variation: 2. Constraints from analysis of eight new sections and synthesis for a 3500-m-thick composite section. Journal of Geophysical Research, vol 114, no. B6, B06103, pp. 1-38., 0.1029/2008JB005644
    (10) Archibald J.D., (2014), What the dinosaur record says about extinction scenarios. Geological Society of America Special Papers 505, 213–224


    Individuare le georisorse disponibili intorno alla catena alpina: il progetto GeoMol

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    Il progetto GeoMol – Assessing subsurface potentials of the Alpine Foreland Basins for sustainable planning and use of natural resources, promosso dal ministero per l'ambiente del land della Baviera in collaborazione con varie istituzioni, fra le quali per l'Italia l'ISPRA e le regioni Lombardia ed Emilia – Romagna, ha voluto esplorare le georisorse esistenti in alcune aree – campione nei grandi bacini sedimentari che circondano le Alpi: la Pianura padana a sud e il bacino delle Molasse Svizzere a N, con una ulteriore applicazione in un'area nel bacino Pannonico tra Ungheria, Slovenia e Austria che non fa parte del progetto principale. I dati scientifici sono stati inseriti in due software specifici consultabili on line sul sito, uno su mappa e uno in 3DIl tutto è pubblicato in un report (1) scaricabile liberamente. Una operazione del genere dimostra come nei bacini intorno alle Alpi il sottosuolo possa essere sfruttato per la geotermia e per lo stoccaggio di gas. Con i vantaggi a cascata in termini di ambiente, bilancia commerciale e posti di lavoro.

    Lo scopo del progetto Geomol era l'individuazione delle georisorse dei grandi bacini sedimentari intorno alla catena alpina prendendo in esame delle aree campione, visibili nell'immagine qui accanto.
    A Sud della catena alpina c'è la pianura padana: sopra un basamento paleozoico si trova una serie sedimentaria la cui deposizione è iniziata nel Triassico. La successione è davvero spessa: in alcune zone solo nel Pliocene si sono deposti 5 km di sedimenti. Questo bacino oggi è stretto fra le Alpi e gli Appennini che lo hanno in parte deformato, quindi la sua struttura tettonica è complessa.
    Il bacino delle molasse, sviluppatosi a partire da 35 milioni di anni fa (fine dell'Eocene) lungo il margine settentrionale della catena è un'area arcuata e lunga un migliaio di km e larga tra 30 e 100, grossolanamente dalla Savoia alla Boemia. Questi sedimenti, che raggiungono i 7 km di spessore, provengono dall'erosione della catena in formazione: si sono deposti su di un basamento cristallino paleozoico simile alle rocce che compongono le vecchie catene erciniche affioranti come Massiccio Boemo, Vosgi, la foresta Nera e Massiccio Centrale Francese, parzialmente coperto da una serie marina tra Mesozoico e Terziario inferiore.
    Anche le molasse sono state oggetto di deformazioni da quando si sono formate ad oggi, ma in maniera più ridotta rispetto a quanto è avvenuto a sud.

    Nella fase iniziale del progetto sono stati esaminati i dati geologici disponibili: carte e sezioni a varia scala, una gran quantità di profili sismici e dati di sondaggi e stratigrafie di pozzi. I pozzi sono serviti soprattutto ad individuare esattamente il significato delle discontinuità emerse dai profili sismici per calibrarli, come si vede dalla figura qui accanto.

    LE GEORISORSE NEI BACINI INTORNO ALLE ALPI

    Una georisorsaè un qualsiasi potenziale di utilizzo del sottosuolo: falde acquifere, miniere, pozzi per gli idrocarburi sono gli esempi più classici, ma sono georisorse anche acque termali, corpi geotermici e le zone adatte per stoccare gas nel sottosuolo. Sono raffigurate in questa immagine del servizio geologico olandese.


    Per valutare le georisorse delle aree campione sono stati indicati alcuni parametri:
    - le caratteristiche dei sedimenti dei bacini, la cui successione è nota
    - l'assetto strutturale
    - la distribuzione delle temperature

    A livello minerariole cose non vanno bene, nel senso che le uniche risorse possibili sarebbero gli idrocarburi (ma la maggior parte degli oltre 250 serbatoi scoperti è ormai già stata sfruttata quasi totalmente, e non è considerata realistica l'ipotesi di nuove scoperte importanti) e il carbone (le cui ultime coltivazioni sono state abbandonate entro il 2000 per i costi di estrazione troppo alti; le riserve sarebbero consistenti numericamente ma a causa delle elevate emissioni di CO2 connesse al suo utilizzo, non vengono considerate utili.
    Riveste invece una grande importanza la produzione di acque a scopo termale, idropotabile, irriguo ed industriale

    La georisorsa più importante secondo GEOMOL è la geotermia (ecco perché è stato lo studio delle temperature è stato un obbiettivo fondamentale del progetto). Il calore interno terrestre è dimostrato dalle elevate temperature che le maestranze dovettero sopportare quando furono traforate le prime grandi gallerie transalpine come il Sempione e dalla presenza di acque termali calde. Il gradiente geotermico varia da zona a zona (un valore “medio” è di circa un grado ogni 30 metri). Sono stati usati vari metodi per misurarlo.
    Parlando di geotermia in Italia vengono automaticamente in mente Larderello e i suoi soffioni. Nelle zone circumalpine non ci sono vulcani né magmi intrusi nella crosta superiore ancora caldi come in Toscana, però la geotermia si può fare con temperature molto più basse: già tra i 20 e i 40 °C le acque vengono usate a scopo termale o per il riscaldamento con pompe di calore. Oltre questa temperatura si possono utilizzare gli scambiatori di calore e già a 100°C si può pensare al riscaldamento industriale o alla generazione di energia.

    Il potenziale geotermico indica la capacità del sottosuolo a rendere utilizzabile questa risorsa, rinnovabile e che presenta (a parte alcuni casi come Larderello .....) livelli di produzione di gas – serra molto bassi. I vantaggi sono evidenti: oltre al contrasto dei cambiamenti climatici, il minore ricorso ai combustibili fossili riduce l'inquinamento atmosferico che deriva dal loro uso, trasporto e trasformazione; e si deve pure considerare i riflessi sulla bilancia commerciale, vista la quasi totale dipendenza dall'estero in questo settore. Vediamo qui la carte delle variazioni della profondità della isoterma dei 100°C nell'area a E del lago di Costanza, che dimostra la possibilità di raggiungere con le perforazioni profondità interessanti per sfruttare il calore terrestre.
    La presenza di faglie in cui risalgono dal profondo fluidi a temperatura più alta è la situazione più favorevole.
    C'è anche l'ipotesi di aumentare la permeabilità di rocce interessanti dal punto di vista geotermico che ne difettano in modo da poterle sfruttare meglio.

    Nella zona bavarese del bacino delle Molasse già nel 1938 furono trovati liquidi idrotermali ad alta profondità durante l'esplorazione a scopo di ricerca di idrocarburi. Lo sfruttamento delle risorse geotermiche attualmente ha il suo epicentro nella Baviera, con qualche impianto nelle zone confinanti di Svizzera e Austria. Vi sono impianti per tutti gli usi, anche geotermoelettrici, ma l'uso termale è di gran lunga il più importante. La carta mostra la loro distribuzione.
    In pianura padana, nei dintorni di Mantova, sono utilizzati a scopo riscaldamento fluidi geotermici a 60°C rinvenuti durante esplorazioni petrolifere a 5000 metri di profondità.
    La difficoltà specialmente nella pianura padana è la profondità delle riserve geotermiche, che innalza i costi.
    Un'altra tecnica poco conosciuta, applicata in Norvegia in qualche migliaio di casi, è quella di immagazzinare nel terreno acque calde estive per usarle d'inverno a scopo riscaldamento e acque fredde invernali a scopo condizionamento in estate.

    Un'altra georisorsa è la presenza nel sottosuolo di formazioni in cui possono essere stoccate ingenti quantità di gas da riutilizzare a scopo energetico (metano, gas naturale, aria compressa): lo stoccaggio dei gas in profondità è un buon sistema per costituire importanti riserve strategiche e consente di poter acquistarlo quando i prezzi sono più convenienti. Tecnicamente parlando sono possibili due soluzioni: caverne nel sale o rocce porose. Intorno alle Alpi non ci sono caverne di sale e quindi c'è solo la seconda possibilità.
    Inoltre è teoricamente possibile sequestrare in profondità il CO2 atmosferico, per diminuirne il tenore nell'aria, che sta arrivando a livelli drammaticamente alti.

    Per stoccare gas più leggeri dell'acqua come metano o CO2, che tenderebbero ad andare verso l'alto, un aspetto fondamentale è la necessità di avere sopra la roccia – serbatoio un tappo di rocce impermeabili: per cui depositi del genere sono possibili solo in rocce porose sotto ad un importante banco di argille o marne impermeabili. Quindi l'assetto tettonico è importante perché molto spesso sono le faglie a determinare le zone che possono essere sigillate, come si vede in questa figura.
    I campi petroliferi esauriti vengono “a fagiolo”: hanno una porosità ottimale, se confinati in mezzo a rocce impermeabili offrono buone doti di sigillatura e i costi di attivazione sono bassi perchè ci sono già i pozzi e i sistemi di trasporto del materiale, sui quali basterebbe semplicemente operare per invertire il verso del flusso. È una soluzione già ampiamente praticata in varie nazioni: gli USA sono leader del settore, e anche in Italia ci sono già almeno una decina di impianti del genere.

    Spero che a nessuno venga in mente di utilizzare invece queste zone per lo stoccaggio di liquidi inquinati in profondità, attività in cui gli USA sono maestri ma della quale nel rapporto per fortuna si parla poco: quello che è da temersi, soprattutto, sono i rischi connessi all'inquinamento permanente del sottosuolo.

    Nelle zone in cui si pratica attività di stoccaggio nel sottosuolo alle volte si manifesta un rischio sismico elevato: è successo in diversi luoghi negli USA e anche in Spagna. Questo rischio pone dei grossi interrogativi (e dei possibili limiti) all'uso di questa georisorsa ed è da considerare con molta attenzione. Comunque il rapporto è stato scritto prima dell'uscita dei lavori in cui sono evidenziate le ragioni della sismicità indotta e perché da qualche parte avviene e altrove no, come ho scritto in questo post.

    Ci sono anche dei geopontenziali negativi: vulcanismo, sismicità potenzialmente elevata, aree sottoposte a rischio frane o alluvioni, paludi, aree salmastre.
    Nel bacino delle Molasse il rischio sismico è per fortuna piuttosto basso, anche se non sono esclusi eventi che possono comportare crolli importanti in alcuni edifici: nella storia sono rari ma danni e persino morti ne hanno fatti. Sono effetti del risentimento di sismi che si scatenano fuori da esso o ai suoi limiti, dovuti a questioni tettoniche nella catena o nel graben del Reno.
    La pianura padana invece era storicamente a rischio, basta leggere il catalogo dei terremoti italiani: questa lettera dei geologi ferraresi lo evidenziava 40 annifa e gli eventi del 2012 lo hanno confermato in pieno. Per cui il rischio sismico è stata considerato solo nell'area pilota italiana, con lo scopo di localizzare le strutture attive (soprattutto le faglie), visibili in questa carta.

    RISULTATI FINALI

    Nella seconda parte del progetto GeoMol sono stati generati una serie di modelli tridimensionali di varie superfici, strutture e caratteristiche delle aree campione (questo ad esempio è il profilo del limite superiore del complesso dei sedimenti triassico – giurassici nella zona studiata della pianura padana). I modelli hanno consentito uno screening che ha individuato le zone in cui è più facile sfruttare le georisorse (ricordo che – comunque – per definire le cose con precisione occorrano studi locali molto più approfonditi).
    Alla fine del lavoro il risultato è sintetizzato in una tabella dove vengono valutati i vari geopotenziali che offrono le varie unità geologiche che compongono il sottosuolo come questo, realizzato per l'area Brescia – Mantova - Mirandola.

    RIFLESSIONI CONCLUSIVE

    Indubbiamente nei bacini che circondano le Alpi la geotermia è la georisorsa più interessante, ma non è l'unica. Una metodologia simile inoltre è molto utile per l'individuazione delle strutture sismiche più importanti.
    La mia riflessione finale è che puntare su azioni come questa significa creare posti di lavoro tecnologicamente avanzati per geologi, ingegneri e aziende del settore, oltre a diminuire inquinamento e dipendenza dalle importazioni di idrocarburi.
    Direi che un investimento del genere debba essere fatto e non solo in pianura padana: oggi in Italia quando si discute di georisorse sembra che fra queste ci siano solo gli idrocarburi, ma quante aree del territorio italiano potrebbero contenere delle georisorse di cui oggi non si parla? In particolare il potenziale geotermico nella penisola sarebbe enorme, molto maggiore di quello della pianura padana, Penso solo a quanto nel si risparmierebbe nel settore del riscaldamento domestico in bilancia commerciale ed emissioni di gas – serra e si guadagnerebbe in posti di lavoro usando geotermia e efficentamento energetico degli edifici.
    Eppure si preferisce continuare ad importare idrocarburi...


    (1) GeoMol Team (2015): GeoMol – Assessing subsurface potentials of the Alpine Foreland Basins for sustainable planning and use of natural resources – Project Report, 188 pp. (Augsburg, LfU)

    Mitigazione del rischio di piene tramite la messa in opera di argini artificiali provvisori

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    Sabato 28 febbraio è stata presentata a Firenze una soluzione di emergenza per innalzare temporaneamente gli argini dei fiumi in caso del rischio di una esondazione con dei cuscini di un polimero riempiti di sabbia. È un sistema inventato e brevettato in Italia e frutto di una attenta serie di studi. Ovviamente è un qualcosa di provvisorio da mettere in opera in caso di emergenza e che può proteggere solo zone specifiche: non risolve il problema alla radice e non rappresenta una soluzione definitiva, la quale può venire solo attraverso una attenta riprogrammazione del territorio, realizzata in base alle esigenze della Natura e non a quelle antropiche. Si tratta quindi di un ausilio, che però può essere prezioso per evitare un disastro. 

    Il rischio – alluvioni in Italia interessa larga parte del territorio. Qualche anno fa spiegai perché le alluvioni sono così frequenti e deleterie ai nostri giorni.

    Siamo abituati a vedere i fiumi nascere, ricevere gli affluenti e sboccare in mare. Questa configurazione è quasi totalmente artificiale: in natura un fiume, dopo una ripida discesa dal monte, arrivando nella pianura si impaluda, si divide in più rami, ed è libero di divagare pigramente a suo piacimento in lungo ed in largo per tutta la valle, dove zone asciutte si alternano ad acquitrini e laghi (tra gli ultimi esempi di laghi di questo tipo c'è il Trasimeno). 

    Anche quando i fiumi godevano di queste libertà, sconosciute nell’Italia di oggi, le alluvioni catastrofiche erano all’ordine del giorno. Poi è arrivato l’uomo, che ha imbrigliato i fiumi in alvei sempre più stretti, impedendogli di muoversi a piacimento e diminuendone la portata utile in caso di piena. Ma, fatto questo ancora più grave, li ha rettificati, riducendone la lunghezza anche a un terzo di quella originaria; si sono ottenuti così degli effetti negativi molto pericolosi: l’aumento della velocità dell’acqua per l’aumento della pendenza e la mancanza di curve (che notoriamente la rallentano) e la diminuzione totale del volume di acqua contenibile dall'alveo. Velocità maggiore e percorso più rettilineo diminuiscono la distanza temporale fra gli affluenti e quindi aumenta la probabilità che le varie piene degli affluenti si riversino quasi contemporaneamente nel corso principale, con esiti disastrosi.

    Ecco un esempio pratico dell'impatto devastante delle bonifiche e della totale artificialità dei fiumi come li conosciamo oggi: l'Arno a Firenze ha una portata massima di 3600 mc/s, che nel centro di Pisa scende ad appena 2700 mc/s (e tra le due città il fiume riceve le acque di parecchi affluenti, Bisenzio, Ombrone, Elsa ed Era su tutti), Ora, non è che i pisani siano così scemi come li dipingono scherzosamente i livornesi: è che tra le due città l'acqua delle piene si riversava nelle paludi (erano in pratica delle casse di espansione) o allagava le campagne; da quando le paludi sono state bonificate e le arginature hanno protetto le pianure, Pisa era continuamente a rischio e per quello è stato costruito lo scolmatore che da Pontedera va verso Livorno e che ha salvato la città della torre pendente dal disastro in più occasioni.

    Oggi, il consumo del territorio, l'ulteriore restringimento di alvei fluviali (se non il loro tombamento), accoppiati all'aumentare dell'intensità degli eventi estremi di precipitazioni hanno provocato un aumento delle alluvioni (e dei danni relativi, oltre al triste bilancio delle perdite umane). 
    Innalzare ulteriormente gli argini dei fiumi per evitare le piene potrebbe essere una soluzione? No, non è una cosa fattibile, non solo per problemi di spesa ma anche per questioni pratiche: li puoi alzare quanto ti pare ma se da qualche parte si rompono è un guaio... inoltre se nelle campagne si potrebbe anche farlo (ed è stato fatto), quando i fiumi attraversano delle città è diverso, dove è anche difficile intervenire sulle sezioni degli alvei fluviali. 

    Firenze è un caso drammatico: nella foto si vede benissimo il forte restringimento dell'Arno a monte dell'attuale Ponte Vecchio, dove alla confluenza fra l'Arno e il fosso di Scherraggio finiva la cinta muraria matildina. Lì sorse su un vecchio nucleo che dovrebbe risalire ai tempi di Matilde di Canossa (1046 – 1115) il Castello d'Altafronte, sicuramente realizzato nella sua interezza prima del 1180. Danneggiato violentemente dalla alluvione del 1333, fu ricostruito come palazzo nobiliare e oggi il Palazzo Castellani è la sede del Museo Galileo.

    È possibile che all'epoca questo restringimento non doveva costituire un grande problema per diversi motivi: 
    • una parte delle acque dell'Arno si dirigeva in una grande palude dove oggi c'è il Campo di Marte
    • non c'erano bonifiche di rilievo a monte e quindi una parte delle acque che ora arriva di corsa a Firenze si fermava prima
    • quell'epoca appartiene al Periodo caldo medievale, che segnò una fase più calda e meno piovosa rispetto alla seconda parte del I millennio e quindi i fiumi avevano una portata minore


    Di fatto le alluvioni dopo la costruzione del castello sono diventate una caratteristica costante della storia cittadina.
    È ovvio che la soluzione più corretta dal punto di vista idraulico sarebbe quella di allargare l'Arno ma è altrettanto ovvio che non è praticabile (immagino che siate d'accordo: distruggere il Ponte Vecchio – risparmiato perfino dai nazisti nel 1944 – e gli Uffizi proprio non si può...).

    Allora, come supplire a una portata come quella registrata durante la terribile alluvione del 1966? Dopo quell'evento il fondo del fiume è stato scavato, aumentando un pò la portata, che però non è ancora ai livelli necessari. Oggi ci sono  finalmente in costruzione le casse di espansione a monte della città, nel Valdarno superiore. Un effetto positivo della operazione Italia Sicura (come ho già detto su Scienzeedintorni mi occupo di politica solo ed esclusivamente in rapporto a questioni scientifiche e ambientali: su questo punto noto che finalmente abbiamo un governo sensibile a questo argomento non solo a parole, ma a stanziamenti e a fatti. Speriamo che non sia un fuoco di paglia).


    Nel centro di Pisa nel gennaio 2014 i militari alzarono gli argini mettendo delle barriere provvisorie sulle spallette dell'Arno. Una soluzione interessante ma resta un problema fondamentale: la resistenza delle spallette stesse, nate per evitare le cadute dall'alto e non per innalzare il livello di piena. 

    Ed ecco che è stata presentato a Firenze sabato 28 febbraio un nuovo sistema di argini provvisori: il Sistema Ecoreef® (una idea tutta italiana e brevettata), che è stato adottato dalla Regione Toscana. Sono andato a vedere in cosa consiste.
    Si tratta di una barriera formata da una serie di cuscini di un polimero molto resistente e riempiti di sabbia che da un deposito (possibilmente in zona!) vengono portati su dei camion e scaricati con l'autogrù. Una volta scaricati, i cuscini vengono spinti uno contro l'altro con una pala meccanica e grazie alla loro plasticità si attaccano senza lasciare spazio al contatto fra l'uno e l'altro. Ne risulta una barriera lunga e continua, alta fino a due metri se si mettono gli elementi in tre file uno sopra l'altro.

    Erroneamente il comunicato della Regione riportato dalla stampa, ha parlato di argini gonfiabili. C'è un motivo. Dalle informazioni che sono riuscito a prendere, originariamente questi moduli dovevano essere stoccati vuoti e gonfiati d'acqua al momento dell'utilizzo.
    Questa soluzione avrebbe il pregio di un'area di stoccaggio ridotta ma una serie di inconvenienti:
    • i cuscini riempiti di acqua possono essere travolti dalla piena: basta che la forza delle acque li sposti leggermente per eliminare l'attrito con il terreno, che li tiene fermi
    • non sono sovrapponibili 
    • possono funzionare solo in un argine perfettamente piano: a quanto ho capito non sarebbero stati riempiti di acqua ad uno ad uno, ma a blocchi; pertanto se il terreno su cui viene montato un blocco non è perfettamente pianeggiante, c'è il rischio che qualche cuscino non venisse riempito del tutto
    • si possono rompere in caso di urto con qualcosa trascinato dalla corrente, "sgonfiando" tutto un blocco con l'evidente disastro che ne consegue


    Quindi il progetto è stato modificato: la sabbia ha un peso specifico ben superiore a quello dell'acqua (1,4), per cui un cuscino riempito di sabbia è molto più difficilmente scalzabile di uno pieno d'acqua; inoltre i moduli in sabbia sono sovrapponibili e anche se si rompono per urti la sabbia non dovrebbe uscire fuori.

    Questo sistema rappresenta dunque un ottimo esempio di prevenzione del rischio quando questo si manifesta, ma inevitabilmente ha bisogno di un valido sistema di previsione delle piene: l'azienda fornitrice, la GE.CO. di Cagliari, garantisce il montaggio di 1200 metri di argini artificiali in 8 ore dalla richiesta di intervento. È un preavviso ampiamente inferiore a quello di piena in corsi d'acqua come l'Arno a Firenze, e si può considerare pienamente soddisfacente dal lato operativo in situazioni del genere. Ovviamente è molto più difficile applicarlo per torrenti brevi come quelli liguri, dai tempi di allarme brevissimi.

    L'importante è non fermarsi qui e pensare che “tanto in caso di piena si monteranno degli argini artificiali”: la lotta per la diminuzione del rischio alluvioni passa soprattutto da una politica seria del territorio.

    I vulcani nell'oceano ad Est dell'Australia: tutti a guardare Plutone domani, ma intanto anche sulla Terra si continua a scoprire qualche caratteristica della superficie

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    Il 14 luglio è conosciuto per la presa della Bastiglia nel 1789 e verrà ricordato per l'impresa della sonda New Horizon che passerà a poche migliaia di km sopra Plutone. Ma la cosa più divertente è che mentre il mondo (non solo quello scientifico) si prepara per le immagini che stanno già arrivando da un mondo lontanissimo (almeno dal punto di vista del sistema solare) grazie alle quali si spera di scoprire qualcosa della sua superficie, ci rendiamo conto di conoscere ancora poco della superficie del nostro pianeta. 
    Vabbè che si parla del fondo marino, non certo visibile dalla superficie, però.... sentirsi dire nel 2015 che sono stati scoperti ben 4 vulcani (e piuttosto grossi...) nel mare davanti all'Australia lascia parecchio attoniti e la coincidenza con il fly - by di New Horizon su Plutone appare quasi irriverente.

    Allora... andiamo con ordine.

    Nei mari ad ovest dell'Australia sono state scoperte alcune strutture  geologiche durante le (per adesso ancora senza esito) ricerche dello sfortunato volo MH370 della Malaysia Airlines. Ma la notizia – bomba è la scoperta dalla parte opposta, nel mare prospiciente a Sidney (la più importante città australiana), di ben 4 vulcani ad appena 200 km di distanza dalla costa, e dei quali nessuno sapeva niente. Sono quattro caldere, quindi in tutti questi casi alla fine dell'attività si è svuotata la camera magmatica e la sua volta ha ceduto.
    La storia è molto semplice. Il Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (il CNR australiano), meglio conosciuto con la sigla CSIRO  ha da poco acquisito una nuova nave, la RV Investigator. Basata a Hobart, in Tasmania, è stata commissionata allo scopo di studiare gli oceani che circondano il continente – isola, curando in particolare gli aspetti geologici, geofisici, ambientali e della pesca.
    Era in corso una missione allo scopo di capire la biologia delle larve delle aragoste, in particolare le zone dove si raccolgono, nelle profondità dei fondi oceanici. Naturalmente la nave mentre si muove esplora con la propria strumentazione il fondo dell'oceano. 
    E qui, appunto, viene il bello. Il fondo dell'oceano da quelle parti è a circa 5000 metri sotto il livello del mare e le attrezzature precedenti di cui disponeva il CSIRO non erano in grado di esplorare zone più profonde di 3000 metri. Così, praticamente all'inizio della sua attività, la RV investigator si è subito resa protagonista di una eccezionale scoperta.

    Dalle prime stime questi vulcani dovrebbero avere più di 50 milioni di anni. Il gruppo si estende per 20 km lungo una fascia larga 6 km. La caldera più grande ha un diametro di un km e mezzo e un'altezza di 700 metri dal fondo del mare.


    Ora vediamo di capire perchè ci sono questi vulcani.
    Qualche anno fa parlai della storia geologica della Nuova Zelanda. Dal Cretaceo superiore tra quella che diventerà l'Australia si stava separando da quella che diventerà la Zealandia, il continente sepolto sotto il mare di cui la Nuova Zelanda e  la Nuova Caledonia sono le uniche parti emerse. Tra loro si formò una dorsale oceanica che avrà vita piuttosto breve, come si vede da questa carta presa da 
    Norvick e Smith (2001), Mapping the plate tectonic reconstruction of southern and southeastern Australia and implications for petroleum systems. The APPEA Journal, 41(1), 15–35.
    Si individuano ad Ovest l'Australia e l'Antartide ancora unite mentre ad Est le parti che formano la Zealandia.

    Questi vulcani potrebbero quindi essersi sviluppati in corrispondenza di questa dorsale o in un ambiente di rift che ha preceduto la formazione della dorsale.



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