Quantcast
Channel: scienzeedintorni
Viewing all 407 articles
Browse latest View live

L'origine e la ritardata, ma rapida, espansione ed affermazione dei dinosauri

$
0
0

L’origine dei dinosauri non è molto conosciuta, al contrario della loro estinzione, che invece è un argomento che appassiona parecchio (non per nulla ci ho scritto anche io un libro...), probabilmente perché i disastri fanno più notizia di qualsiasi altra notizia. È comparso in questi giorni su una delle riviste del gruppo di Nature un interessante articolo (ampiamente pubblicizzato sulla stampa italiana, per fortuna), in cui scienziati italiani fanno il punto sulla origine dei dinosauri grazie alle ricerche sulle Dolomiti (Bernardi et al, 2018). Insomma, i dinosauri dopo aver vivacchiato tra America meridionale ed Africa australe, all'epoca unite, si sono esibiti in una veloce e completa espansione in tutta la Pangea a causa di una forte perturbazione climatica, come al solito dovuta ad una Large Igneous Province. Quindi, se a una LIP, i basalti del Deccan, si deve la loro estinzione e ad una LIP precedente (i basalti della provincia dell'Atlantico Centrale) si deve la loro definitiva affermazione, una terza LIP, la Wrangellia, è all'origine della loro iniziale diffusione.


Per iniziare questa trattazione mi pare importante riassumere alcune cose:



 rapporti fra i principali gruppi di arcosauri da Brusatte et al (2010).
Questo schema è riferito esclusivamente al Triassico, per cui

gli uccelli sono all’interno dei dinosauri saurischi 
1. I PRINCIPALI GRUPPI DI RETTILI. I rettili attuali si dividono in Lepidosauri (lucertole, varani, serpenti) e Arcosauri (coccodrilli e uccelli). Questi due gruppi, insieme ad altri rettili che non hanno lasciato discendenti, sono già presenti nel Permiano superiore, quindi prima della “madre di tutte le estinzioni”, quella al passaggio fra Permiano e Triassico (Etzcurra et al 2014). Gli Arcosauri odierni comprendono attualmente solo coccodrilli e uccelli, ma nel Mesozoico (e specialmente nel Triassico) formavano un gruppo caratterizzato da una enorme biodiversità: essendo arcosauri gli uccelli, lo erano ovviamente anche i dinosauri (da cui discendono), poi c’erano i rettili volanti e, nel Triassico, una vastissima serie di arcosauri terrestri. Ci sono poi i rettili marini: a parte i mosasauri, affini a serpenti e varani, gli altri hanno una collocazione più incerta (ne ho parlato qui in generale e qui a proposito delle tartarughe).
I rapporti fra i vari gruppi di arcosauri sono ancora molto dubbi, perché si sono diversificati in modo estremamente rapido sfruttando il vuoto della biosfera seguito alla madre di tutte le estinzioni, quella al passaggio  Permiano – Triassico. Se dovessi essere costretto a descrivere un quadro, trovo più probabile che anche i rettili marini mesozoici (plesiosauri, pliosauri e ittiosauri) e le tartarughe abbiano un antenato comune con gli arcosauri, da cui si sono separati nel primissimo Triassico, e non con i lepidosauri (ne ho parlato qui). Rimanendo agli arcosauri “dichiarati”, cioè quelli terrestri, la divisione principale è fra Crurotarsi (fra i quali i coccodrilli) e gli “Avemetatarsalia” che comprendono, oltre ad altre forme triassiche, dinosauri e rettili volanti. Attenzione che i crurotarsi sono arcosauri più parenti dei coccodrilli che degli uccelli, ma non è detto che abbiano una forma simile a quella dei coccodrilli: questo vale per i fitosauri, ma altri erano agili animali terrestri, anche corridori, dalle zampe lunghe, e quindi più simili come forma ai dinosauri. Alcuni erano addirittura bipedi. Qui ho spiegato perché negli arcosauri il bipedismo è molto diffuso.

2. I PRIMI DINOSAURI. Non c’è nessun dubbio che i dinosauri si siano originati nel Gondwana, il continente meridionale, nel Triassico inferiore, perché le loro prime tracce  si trovano in America meridionale e Africa australe, all’epoca unite. Sul quando, ci son state recentemente delle modifiche: fino a qualche anno fa non si conoscevano fossili più antichi del Carnico, ma in seguito, tra nuovi ritrovamenti e revisioni dell’età di alcuni reperti, è stato stabilito che i primi veri dinosauri sono vissuti almeno nell’Anisico, almeno 245 milioni di anni fa (Nesbit et al 2012). Quindi la loro comparsa è di pochi milioni di anni successiva all’estinzione di fine Permiano (250 MA circa), quella che ha consentito agli arcosauri di diventare i dominatori della Terra per i 185 milioni di anni dell’Era Mesozoica. Di fatto la cronologia geologica si basa sui fossili e quella dell’inizio del Triassico è molto fitta, a dimostrazione dei rapidissimi cambi faunistici di quella difficile fase.

3. PALEOGEOGRAFIA TRIASSICA. Questo è un punto fondamentale: all’epoca quasi tutte le masse continentali erano unite nella Pangea, caratterizzata dalla presenza di giovani catene montuose importanti all’interno del continente, nate dal recente scontro fra Gondwana ed Euramerica (la catena Varisica tra California e Europa orientale) e fra Euromerica e Siberia (gli Urali). L'area delle attuali Dolomiti e delle aree limitrofe era una piattaforma continentale in cui si trovano sedimenti marini, depositi continentali, che a causa dei continui cambiamenti nella topografia troviamo alternati fra di loro. Ci sono poi anche delle rocce vulcaniche.



Le tempistica riassunte da Zhang et al (2015)
In rosso il limite accettato attualmente
4. LA TEMPISTICA. Dal punto di vista relativo le ricerche a questo punto lasciano pochi dubbi: dopo aver “vivacchiato” per circa 20 milioni di anni nel Gondwana meridionale, i dinosauri si diversificano in modo massiccio e improvviso in tutta la Pangea nel Carnico superiore, a seguito dell’Evento Pluviale Carnico (in sigla, CPE). Se però anziché in scala relativa, parliamo di milioni di anni, la faccenda si complica un po' perchè sia la durata del Carnico che l’esatto valore del passaggio Carnico – Norico sono un po' incerte a causa della scarsezza delle datazioni radiometriche: ancora nel 2015 c’erano due opzioni, 221 o 228 milioni di anni fa (Zhang et al 2015); oggi la carta cronostratigrafica internazionale lo pone a 227 Ma (evito per brevità e per evitare di annoiarvi la lunga e complessa storia della definizione di questo limite). Ne consegue che c’è un po' di confusione al riguardo e quindi le datazioni assolute riportate nella bibliografia vanno prese con le molle.


5. LE LARGE IGNEOUS PROVINCES: enormi, inimmaginabili per noi, espandimenti basaltici in cui in un tempo ristretto si mettono in posto centinaia di migliaia, se non milioni, di km cubi di magmi. Per chi volesse saperne di più, ho parlato spesso delle Large Igneous Provinces e del loro rapporto con le estinzioni di massa, per esempio qui.

6. L’EVENTO PLUVIALE CARNICO (CPE). Molto tempo fa in Germania fu notato nei sedimenti continentali un intervallo molto più umido avvenuto circa a metà del Carnico, caratterizzato generalmente come tutto il Triassico da un clima arido; questo intervallo coincide con il passaggio fra Giuliano e Tuvaliano, i due sottostadi in cui si divide il Carnico (al solito, un cambio nella scala cronostratigrafica indica differenze faunistiche fra prima e dopo); l'evento in seguito è stato riconosciuto prima a scala europea, e poi a scala mondiale. Si tratta di un disturbo a livello globale in cui il clima è stato destabilizzato da una serie di fenomeni come riscaldamento globale, generale aumento delle precipitazioni e acidificazione degli oceani. In particolare nei sedimenti europei si vede come l’intensificarsi delle piogge abbia provocato un aumento delle portate dei fiumi e dell’erosione delle montagne dell’orogenesi varisica (ercinica), per cui nei mari a bassa profondità che ricoprivano parte dell’Europa intorno, il CPE ha avuto come conseguenza la sostituzione della sedimentazione carbonatica con fanghi ricchi in materia organica prima e con sedimenti derivati dall’erosione dei vari massicci presenti all’epoca poi (Mueller et al, 2016). Ci sono anche alcuni episodi di anossia nei mari testimoniati dalla presenza di sedimenti scuri perché ricchi in materia organica. Ache i pollini testimoniano l’aumento della presenza di piante più adatte a vivere in un clima più umido (Roghi, 2004)

Questo evento, anche se poco conosciuto, è stato molto importante per la storia della vita, perché oltre a sancire l’affermazione dei dinosauri in tutta la Pangea, coincide pure con la prima diffusione delle conifere moderne e della comparsa del nannoplancton calcareo. Durante il Triassico ci sono altre due fasi in cui il clima diventa più umido: l’intervallo del Pelsoniano nell’Anisico medio e al passaggio Ladinico – Carnico. Il fatto che tutti e 3 questi intervalli corrispondano a limiti più o meno importanti nella cronologia geologica dimostrano che questi cambiamenti climatici si siano ripercossi nell’assemblaggio faunistico.


Il ricambio faunistico visto con le
impronte fossili delle Dolomiti
(Bernardi et al, 2018)
LE TRACCE FOSSILI DELLE DOLOMITI. E veniamo ora all’articolo di cui ha parlato la stampa italiana. L’ambiente al tempo in cui si sono formati i sedimenti delle Dolomiti nel Carnico era caratterizzata da ampie aree emerse a bassa quota, dopo una fase precedente in cui c’erano condizioni più francamente marine; anche la composizione dei sedimenti è cambiata e dove una concomitanza di circostanze favorevoli ha permesso la conservazione sul fango che si seccava delle impronte fossili di tetrapodi (e in particolare di  Arcosauri) di cui i sedimenti delle Alpi meridionali italiane sono molto ricchi tra il Carbonifero superiore fino al Giurassico inferiore, quindi per tutto il Permiano e il Triassico, con l’eccezione di alcune brevi fasi in cui il livello marino era sceso di parecchio e quindi prevaleva l’erosione anziché la sedimentazione. Bernardi et al (2018) fanno vedere chiaramente che fino a metà del Carnico nei sedimenti erano presenti soltanto impronte appartenenti ai Crurotarsi (quindi gli Arcosauri del lato coccodrilliano, anche se, come ho detto poco sopra, molti esternamente sembravano più dinosauri che coccodrilli); nei sedimenti riferibili all’evento pluviale carnico compaiono le prime impronte di dinosauri e tornano anche quelle dei loro più stretti parenti, i dinosauromorfi; in questa fase erano anciora presenti abbondanti orme di Crurotarsi; passato il CPE quelle dei dinosauri diventano invece assolutamente dominanti. Il tutto accade in un intervallo relativamente breve di meno di 4 milioni di anni.  Questo quadro sembra essere abbastanza definitivo, perché nessuna impronta riferibile ai dinosauri è stata trovata nei sedimenti precedenti all’evento pluviale carnico, mentre pochissime impronte riferibili a crurotarsi sono state ritrovate nei sedimenti successivi all’evento.
Le Dolomiti sono il luogo dove le serie sedimentarie dell’epoca si sono conservate meglio, ma a questo punto è probabile che anche nel resto della Pangea la sostituzione di una fauna dominata dai Crurotarsi ad un nuovo assemblaggio faunistico dominato dai dinosauri, velocemente diversificatisi, sia avvenuta in sincronia con l’evento pluviale carnico.

Una carta di Wrangellia tratta da Greene et al (2010)
Si nota la vastità dei resti di questo plateau oceanico
che poi è entrato a far parte dell'america Settentrionale
I MOTIVI DELL’EVENTO PLUVIALE CARSICO: UNA LARGE IGNEOUS PROVINCE, LA WRANGELLIA. Qualche anno fa un ricercatore italiano ha pubblicato come primo firmatario una ricerca secondo la quale il CPE è associato ad una perturbazione del ciclo del carbonio, simile a quelle che ci sono state in concomitanza della messa in posto delle Large Igneous Provinces e che corrispondono a episodi di estinzione di massa (Dal Corso et al, 2012). La domanda è quale possa essere la LIP che ha provocato questo sconquasso e questa fu indicata nella Wrangellia.
La costa nordoccidentale dell’America settentrionale è composta da una serie diterranes. Possiamo definire un terrane come un frammento di crosta che oggi fa parte di una placca diversa da quella in cui si è formato, ma che conserva la sua identità di blocco con una storia chiaramente molto diversa da quella del resto della placca a cui è annesso oggi. Fra questi terranes c’è Wrangellia, così denominata negli anni ‘70 perché una sua serie – tipo si trova sui monti Wrangell in Alaska. Nel Triassico si trovava nel paleo Pacifico, poco a largo delle coste occidentali del Nordamerica, ad una latitudine molto più bassa di quella attuale del continente, il quale dall’epoca si è mosso parecchio verso nord (era più o meno alla latidudine dove ora c’è l’America centrale). Wrangellia era ritenuta un semplice arco vulcanico posto in m ezzo all'oceano (sul tipo delle attuali Marianne) che poi si è unito al Nordamerica. In seguito si è capito che sopra le serie di arco magmatico la cui attività si era esaurita nel tardo paleozoico, si è formato un immenso  plateau oceanico (sul tipo delle attuali Kerguelen), una vera Large Igneous Province oceanica (Richards et al, 1991) e il suo acme di attività è durato circa 2 milioni di anni, in un periodo posto fra 230 e 225 milioni di anni fa (Greene et al, 2010), durante i quali è stato messo in posto almeno un milione di km cubi di basalti (non è chiaro se e quanta parte di questo plateau manchi perché stata trasportata in subduzione sotto il continente insieme al resto della crosta oceanica di cui faceva parte). Oggi questa LIP affiora per  2300 km tra l'Alaska e l'isola di Vancouver; la serie arriva ad uno spessore di 6 km. L’attività è stata così intensa che se la maggior parte delle lave si sono messe in posto sul fondo marino, in molti casi il plateau è addirittura emerso (come del resto, appunto, le attuali Kerguelen).


La cosa un po' strana è che le ripercussioni climatiche di questa LIP sono un po' diverse da quelle di altri episodi importanti del genere che hanno determinato problemi globali ed episodi di estinzione di massa, come i basalti della Siberia, dell’Atlantico Centrale e del Deccan (tanto per dire i più noti, associati alle estinzioni di massa di fine Permiano, fine Triassico e fine Cretaceo). Una prima differenza è che in questo si tratta di una LIP in buona parte marina e in genere questi episodi hanno coinvolto più la biosfera marina che quella continentale, come è successo per esempio nell’Aptiano, durante la formazione di plateau come il già citato Kerguelen e l’enorme Ontong Java – Manihiki – Hikurangi. Dal Corso et al (2015) propongono quindi un quadro un po' diverso da quello di una LIP tradizionale: il riscaldamento globale dovuto alle emissioni di CO2 di Wrangellia ha provocato un forte incremento della circolazione monsonica nella Pangea, pesantemente influenzato dalla presenza delle giovani ed alte catene montuose intracontinentali. Pertanto l’associato aumento delle piogge ha drasticamente cambiato non solo l’ambiente continentale, ma anche quello marino, incidendo in maniera notevole sulla biosfera: le modifiche della vegetazione hanno messo in grossa difficoltà gli erbivori crurotarsi (ma anche, evidentemente, i loro predatori), mentre in mare i cambiamenti nella sedimentazione dovuti al maggiore tasso di erosione e al relativo aumento dell’apporto di sedimenti da parte dei fiumi hanno messo in crisi gli animali  abituati alle limpide acque delle piattaforme carbonatiche. Ne è seguita una discreta modificazione della biosfera, grazie alla quale si sono affermati i coccolitofori (alghe unicellulari capaci di sintetizzare carbonato di calcio, con cui si rivestono), le conifere e, appunto, i dinosauri. 


BIBLIOGRAFIA CITATA

Bernardi et al (2018) Dinosaur diversification linked with the Carnian Pluvial Episode Scientific Reports DOI: 10.1038/s41467-018-03996-1

Brusatte et al 2010 The origin and early radiation of dinosaurs Earth-Science Reviews 101, 68-100

Dal Corso et al (2012) Discovery of a major negative δ13C spike in the Carnian (Late Triassic) linked to the eruption of Wrangellia flood basalts Geology 40,79-82

Ezcurra et al 2014  The Origin and Early Evolution of Sauria: Reassessing the Permian Saurian Fossil Record and the Timing of the Crocodile-Lizard Divergence. PLoS ONE 9(2): e89165. doi:10.1371/journal.pone.0089165

Greene et al (2010) The architecture of oceanic plateaus revealed by the volcanic stratigraphy of the accreted Wrangellia oceanic plateau Geosphere 6, 47–73

Mueller et al (2016) Climate variability during the Carnian Pluvial Phase — A quantitative palynological study of the Carnian sedimentary succession at Lunz am See, Northern Calcareous Alps, Austria Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 441, 198–211S

Nesbitt et al (2012) The oldest dinosaur? A Middle Triassic dinosauriform from Tanzania Biol Lett 9: 20120949. http://dx.doi.org/10.1098/rsbl.2012.0949

Richards et al (1991), A mantle plume initiation model for the Wrangellia flood basalt and other oceanic plateaus: Science, v. 254, p. 263–267,

Roghi (2004). Palynological investigations in the Carnian of Cave del Predil area (once Raibl, Julian Alps). Rev. Palaeobot. Palynol. 132, 1–35.

Zhang et al (2015) Cycle-calibrated magnetostratigraphy of middle Carnian from South China: Implications for Late Triassic time scale and termination of the Yangtze Platform Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 436, 135-166


Lettera a Massimo Valle: a osservazioni scientifiche sono seguite solo offese personali

$
0
0


Questo post è parecchio diverso dagli altri. Francamente, avrei altro da fare. E come me avrebbero avuto da fare altro anche gli altri firmatari di questa lettera. Ma il signor Massimo Valle a questo punto ci ha definitivamente scassato tutto quello che poteva scassarci, anche se quattro risate su questa cosa ce le abbiamo fatte, lo stesso. Dopo che i miei validi collaboratori hanno scovato l'intervista piena di inesattezze nel dopo-Amatrice a Massimo Valle, inesattezze che abbiamo evidenziato, questa persona ha iniziato a metterla sul personale, senza mai rispondere dal lato scientifico, non solo in quella occasione, ma anche tutte le altre volte che abbiamo "pizzicato" suoi commenti non proprio corretti che ovviamente evitavano accuratamente l'aspetto scientifico. Fino a ieri abbiamo lasciato perdere perché non ci pareva il caso. Ieri però Valle ci è andato giù piuttosto duro impossessandosi di una nostra fotografia e apostrofandoci in modo volgare citando pure le nostre madri. Insomma, abbiamo sempre, in questi ultimi mesi, evitato di rispondere a tutti gli attacchi che questo signore ci ha rivolto sul piano personale (e mai, badate bene, neanche una volta, su quello scientifico), limitandoci alle sue affermazioni in campo scientifico; ma quando è troppo, è troppo, e a questo punto ci siamo sentiti in dovere di rispondere. Ovviamente senza metterla sul personale.

Screen dal profilo personale di Valle
che non lascia certo adito a diverse interpretazioni


Ed ecco che gli "imbecilli" si sono arrabbiati. Cominciamo illustrando il personaggio. Chi è dunque Massimo Valle? Si tratta del presidente di “Terry1 Italia” (non chiedetemi cosa sia, se una Onlus o semplicemente un gruppo “feisbuc”), entità che gestisce, non si capisce bene a che titolo, un sismografo a Roccaraso. 

Ma qual’è il problema? Figuriamoci se noi siamo contrari a che ci siano sempre più sismografi (o accelerometri) in Italia, specialmente se ben costruiti (e questo ci risulta che lo sia). Quindi da questo punto di vista si tratta di una operazione meritoria, anche se ci lascia “un po' perplessi” l’idea che si tratti di una operazione a scopo di prevenzione. Facciamo comunque presente che, in genere, Valle non si è lasciato andare a "previsioni". Insomma, se da un lato fa cose lodevoli (installazione di una strumentazione, evita, ma non sempre, in genere di fare previsioni), il problema è che siamo davanti a una persona che pontifica di terremoti senza averne le competenze, come è stato dimostrato in una intervista ad una televisione abruzzese subito dopo l’evento di Amatrice. In questo post abbiamo preso quanto detto dal Nostro e fatto notare i suoi errori, chiedendoci anche come sia possibile in un’area geologicamente ben studiata e dove insistono diverse università in cui lavorano geologi conosciuti in tutto il mondo, intervistare su un grave terremoto appena avvenuto un personaggio senza studi specifici alle spalle e dalle conoscenze geologiche risibili, solo perché è “presidente” di un qualcosa non ben specificato che parla di terremoti. 
noi saremmo invidiosi di lui...
Ho usato intenzionalmente il verbo al plurale – “abbiamo” – perché quel post fu scritto a più mani: sono cose che posso pubblicare proprio grazie a questi “ragazzi” che, avendo subìto gli eventi sismici degli ultimi 10 anni, si sono rotti le scatole di profeti e esperti improvvisati (contraddizione in termini apparente; in questo caso "improvvisati” vuole dire “senza studi specifici in materia”) e per questo monitorano il web alla ricerca di errori e balle varie sull’argomento. E, badate bene, non è questione di “puzza sotto il naso” da parte di chi ha studiato Scienze della Terra e dei suoi accoliti, ma, semplicemente, amore per il rigore scientifico e per una informazione corretta, cose che non trasparivano di certo in quella intervista. Per la cronaca abbiamo due pagine Facebook su cui ci potete seguire: “Giuliano Giampaoli”, simpatica creatura dal tono goliardico come dimostra il nome e un “gruppo serio” e cioè “Terremoti: timori, leggende e verità”.
Ebbene, Valle quel post di Scienzeedintorni sulla sua intervista non l’ha preso “benissimo”, tutt’altro…: da quel giorno ha cominciato a prendersela genericamente con i detrattori della sua attività (anzi, della sua persona). Ovviamente da novembre il gruppo Facebook Terry1 Italia è diventato segretissimo e io sono stato bannato dal suo profilo personale facebook, mentre a me non interessa se lui possa tranquillamente vedere il mio, che è visibile a chiunque, tranne a chi, come lui, mi ha bannato; personalmente non banno nessuno per principio: è successo solo in due casi e solo dopo ripetuti avvertimenti, semplicemente perché queste due persone mi hanno infastidito postando di continuo sulla mia pagina e facendomi perdere un mucchio di tempo. Noto che invece sono stato bannato da persone a cui ho fatto notare, argomentando in modo educato, che su alcuni argomenti scientifici la pensavano male. La cosa è normale: spesso chi “non sa” ricorre al ban nei confronti di chi sa perché non sa come rispondere…

Intervento di Valle dopo gli
eventi di Mastrogirardi,
da noi contestato
Tornando a Valle, ha proseguito imperterrito a dire cose senza senso, di cui abbiamo una vasta collezione. Per esempio a dicembre scorso, all’indomani di una sequenza sismica a Vastogirardi (nel Molise), si esibì in una serie di affermazioni discutibili ripetute successivamente in un gruppo facebook avente come obbiettivo la sicurezza di alcuni edifici pubblici (seminando anche il panico, lo screen qui accanto dimostra il perchè). Dopo qualche intervento nostro gli amministratori di quel gruppo si resero conto che quanto diceva non rispondeva a rigorosi criteri scientifici, e se non ricordo male fu espulso.
Dopo questa seconda vicenda Valle è diventato più nervoso di un coccodrillo in una fabbrica di borse e con un ulteriore giro di vite il suo profilo personale e il gruppo Facebook “Terry 1 Italia” (dove Terry sta per terremoto… lasciamo perdere), sono diventati più chiusi di un carcere di massima sicurezza, proseguendo a prendersela spesso, appunto, con i cattivoni che lo osteggiano (siamo informatissimi su questo, nonostante i suoi sforzi di non farcelo sapere.…) e incorrendo spesso in infortuni geologici. Annoto che negli ultimi giorni ha persino criticato quello che dice Carlo Doglioni, dimostrando che non ha neanche capito cosa il Presidente di INGV e la comunità geologica tutta intendano con il termine di “faglia nuova”.

noi saremmo "gentaglia" che fa "chiacchere da salotto"
al solo scopo di screditarlo
Oggi Valle ha passato il segno. Come da screen pubblicato all'inizio del post il soggetto ha pubblicato sul proprio profilo la foto di quando mi sono visto a Perugia con alcuni dei miei collaboratori (Tommaso Della Dora, Massimiliano Fiorito, Marco Mezzanotte, Marco Traini) e con il buon Michele Cavallucci, altra spina nel fianco per i fuffari della sismologia e che evidentemente non sta un gran chè simpatico pure lui al soggetto in questione. Il commento non lascia dubbi sul tono e sulle sue intenzioni offensive. Ovviamente non ci pare il caso di denunciare alla magistratura un simile comportamento, preferiamo farci due risate sopra (mentre lui è serissimo e probabilmente ci odia davvero…); ma nonostante, appunto, un certo spirito goliardico con cui stiamo affrontando la faccenda una letterina seria… sì…  quella l’abbiamo scritta davvero, anche perché troviamo fuori luogo giudizi del genere. Ed eccola qui (sappiamo benissimo che qualcuno gliela fornirà, come si è già reso conto benissimo che lo screen che metto qui sotto lo abbiamo visto praticamente subito, nonostante le sue preoccupazioni e la sua mania di segretezza..)


Gentilissimo Signor Massimo Valle,


capiamo di non esserLe troppo simpatici dopo che abbiamo pubblicato a novembre quel post su Scienzeedintorni a proposito della sua intervista televisiva dopo il terremoto di Amatrice, nella quale ha detto un mucchio di inesattezze. Ricordiamo che dopo la pubblicazione di questo post Lei si è molto innervosito, limitandosi però ad imprecazioni e maledizioni varie nei nostri confronti, senza entrare nel merito di quello che abbiamo scritto. Ricordiamo anche come prima di Natale Lei sia tornato a prendersela con “un gruppetto di gentaglia che nella loro vita non sanno fare altro che criticare tutto e tutti”, dopo le critiche che Le abbiamo rivolto in altra sede a causa di altre sue affermazioni scientificamente parecchio discutibili.

In questa occasione non si
capisce bene quale sia per lui
il nesso fra terremoti e frane
Sappiamo benissimo di essere noi quella "gentaglia" a cui si riferisce... però noi su questa cosa ci ridiamo un pò sopra, mentre dal giorno del post in cui facevamo notare le imprecisioni nella sua intervista del 25 agosto 2016 Lei, appunto, sta dimostrando parecchio nervosismo… E arriva a sostenere di sentirsi “screditato da chiacchiere da salotto”. Ultimamente è riuscito a procurarsi una fotografia che ritrae alcuni di noi, piacevolmente riuniti a tavola insieme ad un altro nostro grande amico come Michele Cavallucci,  definendoci “imbecilli” nel post del suo profilo Facebook, che appunto può vedere all'inizio del post. La cosa non ci ha fatto piacere (strano, eh...). Anche perché in tutti questi mesi noi non siamo mai scaduti nel personale, limitandoci esclusivamente alle questioni scientifiche. Al contrario di come si è comportato e si sta comportando Lei nei nostri confronti.


No, caro Valle… non si fa così… e le facciamo notare quanto segue:




1. siamo un gruppo di persone che ci tengono all’informazione scientifica corretta. E che parlano o scrivono seguendo quella che è la letteratura scientifica in materia di Scienze della Terra. Qualcuno per competenza in quanto laureato in materia, altri perchè semplicemente interessati, anche a causa degli eventi sismici degli ultimi anni, e non sopportano di sentire cose sbagliate dette da persone senza specifica competenza, che spesso sono fuorvianti

2. siamo contentissimi che ci siano tante persone appassionate dell’argomento (e, nello specifico, di terremoti)
3. però nella Scienza uno ha credito o no a seconda di quello che dice. Ed è difficile dare credito, conoscendo la materia, a quanto ha sostenuto nella trasmissione televisiva di cui sopra... Il problema è che si è spacciato da esperto, dicendo cose inesatte e/o fuorvianti per il pubblico generale che di questioni geologiche non è particolarmente informato, che dopo averLa sentita si è convinto di cose assurde. E noi lo abbiamo semplicemente fatto notare
4. da quel giorno di novembre l’abbiamo spesso attaccato. Ma sempre dal lato scientifico. Non siamo mai scaduti in offeso sul piano personale come invece ha fatto Lei, sia pure nel segreto del suo gruppo, di continuo e anche ieri
5. sul termine “imbecilli” e relativo coinvolgimento delle nostre mamme, prima Le facciamo notare che queste signore non sono state in stato interessante continuo e che, secondo noi, queste donne possano ritenersi mediamente soddisfatte della loro prole; in seconda battuta puntualizziamo come Lei possa definirci “antipatici” o “brutti” (questione di gusti… a non tutti possiamo stare simpatici né sembrare belli…); ma per darci di imbecilli deve dimostrare che noi lo siamo. Con i fatti e cioè dimostrando che Lei ha ragione in quello che sostiene e noi torto a smentirLa o correggerLa
6. le critiche non le abbiamo fatte in un salotto, ma su internet, aperte a tutti (Lei compreso) 
Richter e Mercalli - copertina del nostro gruppo
"Terremoti: leggende, timori e verità"
7. Al contrario, gli unici segnali di attività arrivati da Lei sono stati l’essersi chiuso a riccio nel suo gruppo Facebook,  blindandolo e continuando a segnalarci come i cattivoni che ce l’hanno con la Sua Persona per oscuri motivi. Eppure come "presidente di Terry-1 italia" (a proposito.. cos’è? Una associazione riconosciuta, una ONLUS o cosa?) sbagliamo o a Roccaraso ha preso anche fondi pubblici per installare l’accelerometro (cosa di suo lodevole… anche se sarebbe il caso che la gestione dei dati venga data in mano a qualcuno che la geofisica l’abbia studiata all’università e non su internet…)?
8. Se a Lei girano le scatole per le critiche che ha ricevuto da noi, avrebbe solo una cosa da fare … e cioè rispondere nel merito, dimostrandoci scientificamente che noi abbiamo sbagliato e che chi ha ragione è Lei
9. Invece per adesso Lei continua solo a bannare gente dal suo gruppo per paura di cosa non si sa… (forse ha paura delle critiche e di dimostrare scarse conoscenze nella materia?)


Per cui ci domandiamo appunto perché non risponde alle nostre critiche nel merito, e cioè perché dal punto di vista scientifico lei avrebbe ragione e noi torto...  

A questo punto Le facciamo tre proposte:


1. Vede, in molti hanno chiesto ad alcuni di noi, specialmente i geologi, di entrare in gruppi che parlano di terremoti, considerandoci persone che possono dare un contributo positivo nelle discussioni. Potrebbe dunque iniziare a levare il ban dal suo profilo nei nostri confronti e addirittura invitarci a partecipare al suo meraviglioso gruppo Terry. Naturalmente lasciandoci la libertà di critica



2. Perché non si iscrive al gruppo Facebook “terremoti: leggende, timori e verità” che è una nostra emanazione?



3. da ultimo Le proponiamo un incontro, ovviamente pubblico, in un luogo scelto da lei, in cui risponda alle critiche SCIENTIFICHE che Le abbiamo mosso, appunto dimostrando, dati alla mano, che quello che sosteniamo su quanto abbia detto Lei sia sbagliato 



La salutiamo attendendo una risposta, che può comunicarci direttamente sul gruppo Facebook di cui sopra, premettendo che per essere iscritto dovrà sbloccare dal suo profilo personale il ban almeno per gli amministratori del gruppo (Aldo Piombino, Massimiliano Fiorito e Tommaso Della Dora) e – per reciprocità -  dovrà inserire gli stessi nel gruppo Terry 1 Italia, sopportandone le eventuali critiche e rispondendo in merito.



Firmato: 



Aldo Piombino, Massimiliano Fiorito, Tommaso della Dora, Michele Cavallucci, Martina Zucchi, Natalia De Luca, Anna Ziri, Elisa Tamanti, Luana Bortone, Marco Mezzanotte, Marco Traini, Monica Capuano, Marco Cerutti



PS: A proposito della stazione sismometrica di Roccaraso, ci chiediamo se, come promesso da mesi, il tutto è online e collegato alla Protezione Civile

Estinzione del Devoniano superiore e Large Igneous Province della Yacuzia

$
0
0

L’evento Kellwasser è una delle “Big 5” di Sepkosky, cioè uno dei principali eventi di estinzione di massa. È avvenuto nel Devoniano superiore, ma non alla fine del periodo, che peraltro corrisponde ad un’altra fase di estinzione, nota come Evento Hangenberg. Sulle sue cause si è discusso parecchio, anche per la presenza in quel tempo di un impatto meteoritico; oggi appare abbastanza ovvio che si tratti delle conseguenze della messa in posto della Large Igneous Province dei basalti della Yacuzia e anche le ultime ricerche puntano il dito contro il vulcanismo: durante il Kellwasser notiamo una forte anomalia positiva di mercurio nei sedimenti, che si accompagna a quella dell’iridio, già nota da tempo. Il problema è che le datazioni dei basalti della Yacuzia tornano poco a causa del pessimo stato di conservazione di quella serie vulcanica,É piuttosto interessante notare una circostanza fondamentale nella storia della vita e cioè la comparsa dei primi vertebrati terrestri proprio nel tempo che intercorre fra il Kellwasser e l’ Hangenberg.

Un tipico pesce senza mascelle del Devoniano
Nel Devoniano superiore ci sono stati due diversi eventi di estinzione di massa  a poca distanza l’uno dall’altro. Il primo al limite Frasniano – Famenniano (FFB, conosciuto come evento Kellwasser) e che corrisponde ad uno dei “big five”, i 5 maggiori eventi di estinzione di massa della storia (Sepkosky, 1996); il secondo è di poco successivo e corrisponde alla fine del Famenniano (evento Hangenberg) e siccome il Famenniano è l’ultimo stadio del Devoniano, il secondo evento corrisponde anche al limite Devoniano – Carbonifero. Quindi come succederà in seguito nel Permiano superiore, abbiamo due estinzioni di massa separate da poco più di 10 milioni di anni; la differenza fra le due coppie è che nel Devoniano il primo è più importante del secondo, mentre nel Permiano, l’evento più importante è il secondo.  

Venendo specificamente al Kellwasser, si tratta di una estinzione di massa che ha coinvolto, come sempre succede, una vasta gamma di forme viventi appartenenti a gruppi molto diversi: coralli, stromatoporoidi (animali all’epoca molto diffusi, ormai estinti e ancora di incerta classificazione), trilobiti, cefalopodi, brachiopodi, conodonti e pesci (in particolare quelli senza mascelle). L’estinzione è stata veloce, ma graduale (Becker, 1993); fondamentalmente si è trattato di una sostituzione progressiva della fauna precedente con organismi sempre più adatti a vivere in condizioni di scarsa ossigenazione delle acque (guarda caso come al K/T…). 
Le cause dell’evento Kellwasser sono state variamente addebitate: cambiamenti nella circolazione oceanica, provocati alternativamente da riscaldamento o raffreddamento climatico globali (o altro non specificato), cambiamenti del livello marino, impatto di un meteorite (immancabile...).
Il cratere di Siljan, in Svezia.
 Probabilmente precede di poco l'evento Kellwasser
Al di là delle caratteristiche biotiche, ci sono molte circostanze geologiche interessanti, che poi sono comuni anche agli altri eventi di estinzione di massa (in particolare al K/T):
  • la più evidente è la deposizione dei classici sedimenti finissimi e scuri perché ricchi di materia organica, sintomo di condizioni di mancanza (o quantomeno di forte scarsità) di ossigeno. Le serie meglio studiate sono quelle dello stato di New York, dove troviamo più livelli del genere, che precedono e seguono quello principale posto al limite fra Frasniano e Famenniano. Questi livelli assomigliano al Fiskeler, il famoso sedimento che troviamo in Danimarca depositato esattamente al limite K/T (Christensen et al 1973). Come in esso troviamo cristalli di pirite e laminazioni sottilissime che possono restare evidenti solo in caso di assenza di vita nel fondo marino, perchè altrimenti questa finissima stratificazione verrebbe completamente distrutta dagli animali che vivono sul fondo e, soprattutto, da quelli che lo scavano
  • un forte disturbo, a livello globale, del rapporto isotopico del Carbonio, il δ13C: fra gli eventi di estinzione globale alcuni presentano alternativamente oscillazioni positive o negative di questo rapporto; in questo caso la situazione è un pò complessa del solito, in quanto al Kellwasser troviamo sia oscillazioni positive che negative a seconda della regione
  • forti oscillazioni del livello marino; in particolare una fase a basso livello coincide esattamente con la parte terminale del Frasniano, documentata da interruzioni della sedimentazione in molte aree (Nordamerica, Europa, Iran etc etc)
  • una anomalia positiva nella concentrazione di Iridio nelle argilliti scure, con livelli molto elevati anche se non tanto quanto al K/T (Over et al 1997) e, è arrivata la notizia in questi giorni, anche di Mercurio (Racki et al, 2018)
  • in Belgio troviamo anche delle microtectiti, tipiche di un impatto meteoritico (Claeys and Casier, 1994) e non è una coincidenza casuale in quanto nei dintorni del Kellwasser si colloca un grande impatto meteoritico, quello di Siljian, in Svezia. Si tratta di un cratere piuttosto grande (il diametro  varia a seconda degli Autori fra 65 e 90 km)
  • sempre in Belgio sono stati anche trovati alti valori di molecole organiche, che indicano diffusi incendi di foreste ed anche evidenze di una accelerazione dell’erosione del suolo (Kaiho et al, 2013)
  • e, soprattutto, la messa in posto di una Grande Provincia Magmatica (LIP, Large Igneous Province), i basalti della Yacuzia 


La stratigrafia dei sedimenti del Frasniano nello Stato di New York, che evidenzia
i numerosi episodi di sedimentazione di black shales con anomalia dell'Iridio (Over et al, 1997)
L’IRIDIO: voglio soffermarmi in particolare sulla questione dell’Iridio. La concentrazione di elementi del gruppo del Platino (PGE) nei sedimenti dello stato di New York è stata oggetto di un dettagliato studio (Over et al 1997), dove vari orizzonti di scisti neri, sia del Fammenniano superiore che quello corrispondente propriamente al Kellwasser, contengono concentrazioni anomale di Iridio; i rapporti quantitativi fra gli elementi PGE non sempre sono simili a quelli delle condriti. I campioni presi nei sedimenti “normali” invece non presentano arricchimento in iridio, platino e rutenio. Inoltre, come succede al K/T per le tectiti dello Yucatan, i sedimenti dell’impatto meteoritico di Siljan trovati in Belgio non presentano anomalia dell’iridio. Insomma, sia i rapporti quantitativi fra gli elementi del gruppo del platino, sia la presenza di diversi orizzonti arricchiti separati nel tempo non indicano una singola fonte extraterrestre, come quella rappresentata da un impatto. Anche nell’evento della fine del Devoniano troviamo una anomalia dell’Iridio in Cina (Wang et al, 1993) e in Nordafrica (Kaiser et al, 2011)

DATAZIONE DELL’IMPATTO DI SILJAN. Sull’onda dell’ipotesi del meteorite killer dei dinosauri (connessone che ormai è stata dimostrata falsa, ma che continua ad essere molto popolare) sono state ricercate connessioni fra l’impatto di Siljan e il Kellwasser. Il problema è ancora aperto in quanto la forbice cronologica degli eventi è piuttosto grande e, a complicare le cose, ci si mette lo stesso limite Frasniano – Famenniano, che negli ultimi 40 anni è oscillato tra 370 e 376 Ma; nell’ultima versione della carta cronostratigrafica ufficiale (2017) è posto a 372,2 ± 1.6 milioni di anni, quindi fra 370,6 e 373,8 Ma. Quanto al cratere, le età ricavate dalla bibliografia sono diverse, ma in sostanza tendono ad essere un pò più vecchie dell’intervallo in cui si colloca il Kellwasser; quelle ricavate più di recente che ho trovato parlano di 380.9 ± 4.6 Ma (Jourdan et al., 2012). Precedentemente due campioni avevano fornito un’età rispettivamente di 377.2 ± 2.5 Ma e 376.1 ± 2.8 (Reimold et al. 2005) per cui una connessione diretta fra i due eventi è piuttosto difficile.



Carta della giounzione tripla della Yacuzia
da Ricci et al (2013)
VULCANISMO E EVENTO KELLWASSER. I fenomeni registrati alla fine del Frasniano sono sintomi della presenza di un vulcanismo importante. Ma, come ho accennato, proprio in questi giorni ne è venuto fuori uno ancora più stringente: nei sedimenti deposti al FFB c’è una vistosa anomalia di mercurio (Racki et al 2018), anomalia che si riscontra anche in corrispondenza di altri eventi di estinzione di massa, come alla fine di Permiano, Triassico e Cretaceo (Bergquist, 2017). 
Il vulcanismo nel Frasniano è stato molto intenso, per esempio negli Stati Uniti ed in Europa, dove si stava perfezionandosi la collisione fra Euromerica e Gondwana, in Sudan e in Cina. Ci sono inoltre delle grandi eruzioni basaltiche nel cratone est europeo:  i basalti di Kola e quelli del rift di Pripyat–Dniepr – Donets tra Ucraina e Bielorussia (Kravchinsky, 2012).
Ma, soprattutto, in quei tempi avveniva la messa in posto di una delle più massicce coperture basaltiche degli ultimi 500 milioni di anni, la Large Igneous Province della Yacuzia, nota anche come Trappi di Viluy

I TRAPPI DELLA YAKUZIA. Come dice il nome della regione, siamo nella parte NE della Siberia, in una regione venuta alla ribalta con il Risiko, dove nel Devoniano superiore si è formata una giunzione tripla con la formazione di 3 rift (Ernst and Buchan, 1997), in una situazione che ricorda molto quella attuale dell’Afar. Dei tre rami del rift, due formano gli attuali margini della piattaforma siberiana ma sono abortiti. Il terzo invece ha avuto una storia diversa: dopo una fase di divergenza che ha formato un bacino oceanico il regime è tornato presto compressivo e il conseguente scontro fra la Siberia e il microcontinente di Kolyma -  Omlon ha formato nel mesozoico l’orogene dei monti Verkhoyansk (Oxman, 2003).
Nel rift di Viluy, il ramo abortito di SW, che attualmente è lungo 800 km e largo fino a 450 e in altre aree intorno alla giunzione tripla troviamo la Large Igneous Province della Yacuzia, di cui sono visibili alcuni resti lungo i lati dei rift, perchè la maggior parte è stata coperta dai sedimenti che si sono accumulati nei rift stessi; le stime parlano di quasi 2 milioni di km cubi fra lave e il loro sistema di alimentazione (Kiselev et al., 2006). 
La domanda a questo punto è se proprio la LIP di Yacuzia sia il killer del Kellwasser. Diciamo che la cosa avrebbe senso, dato che anche gli altri eventi di estinzione di massa, con solo probabilmente una eccezione, il passaggio Eocene – Oligocene, sono associati a Large Igneous Provinces, e agli altri fenomeni descritti all’inizio del post, come si vede dall’immagine. 

DATAZIONE DEI TRAPPI DELLA YACUZIA. Le indicazioni stratigrafiche indicavano il Devoniano superiore come età di queste rocce ignee, ma le datazioni assolute erano poche, e poco affidabili, anche perchè  la maggior parte di queste rocce sono molto alterate. Nel 2010 con il metodo 40Ar/39Ar furono trovate due età di 360.3 ± 0.9 and 370.0 ± 0.7 Ma, il che ha suggerito che due impulsi diversi di questi basalti abbiano provocato sia la grande estinzione al liimte Frasniano – Famenniano che quella successiva alla fine del Devoniano (l’ Hangenberg) (Courtillot et al, 2010). 
Più recentemente, anche Ricci et al (2015) esaminando diversi campioni hanno notato che con il metodo 40Ar/39Ar questi si raggruppano in due gruppi diversi con età medie ponderate di 364,4 ± 1,7 e 376,7 ± 1,7 Ma. 
Il quadro ricavato supporta quindi in entrambi gli studi la presenza di due impulsi principali (come succede spesso nelle LIP) e tutto sommato l’intervallo che si ricava è lungo più o meno come il Famenniano. Per cui è possibile (ed intrigante) che sia il Kellwasse che l’Hangenberg siano dovuti a due diverse fasi parossistiche dei Trappi di Viluy.  
Il problema è che soprattutto a causa della alterazione (che ha probabilmente interessato il sistema dell’argon) questi risultati mi paiono un pò aleatori e poco in accordo con la cronologia attualmente in vigore: insomma, oggi le stime per il Kellwasser vanno da 373,8 a 370,6 MA, quelle di Ricci e soci per la prima fase dei trappi di Viluy vanno da 374,0 a 378,4 MA. Quindi le due età si toccano quasi. Per quanto riguarda invece l’Hangenberg, è un limite abbastanza ben definito dal punto di vista cronologico, in quanto ha una incertezza nella sua datazione assoluta di poche centinaia di migliaia di anni: al massimo può essere avvenuto a 359.3, ben dopo il limite più recente della forbice cronologica della Yacuzia, che è post a 362,7. 
Insomma, il fatto che in entrambi i casi le vulcaniti risultino più vecchie degli eventi biotici può essere dovuta alla pessima qualità dei campioni dal punto di vista della loro alterazione, ma se la correlazione fra eruzioni della Yacuzia e Kellwasser è “estremamente probabile” dal punto di vista della cronologia relativa, le datazioni assolute sono ancora poco chiare. Invece sull’Hangenberg i dubbi sono ancora estremamente alti. La tabella qui accanto mostra le attuali incertezze nelle datazioni assolute.

In conclusione si può dire che la geochimica delle serie sedimentarie evidenzia sicuramente al limite Frasniano – Famenniano degli importanti fenomeni vulcanici, e i vari episodi conosciuti di quell’epoca non paiono dal punto di vista quantitativo essere minimamente paragonabili a quelli della Siberia orientale. Per cui è piuttosto verosimile che il killer della fine del Frasniano sia ancora una volta una LIP, quella della Yacuzia, anche se i meccanismi che portano una LIP ad essere uno spietato killer non sono ancora chiarissimi e la datazione assoluta delle eruzioni è ancora incerta. 

Becker (1993) Anoxia, eustatic changes, and Upper Devonian to lowermost Carboniferous global ammonoid diversity. In: M.R. House (Editor), The Ammonoidea. Environment, Ecology, and Evolutionary Change. Syst. Assoc. Spec. 47, 115–163
Bergquist (2017) Mercury, volcanism, and mass extinctions: PNAS 114, 8675–8677 
Courtillot et al (2010) Preliminary dating of the Viluy traps (Eastern Siberia): eruption at the time of Late Devonian extinction events? Earth and Planetary Science Letters 300, 239–245. 
Christensen et al (1973) Sedimentology and depositional environment of Lower Danian fish clay from Stevns Klint, Denmark. Bull. Geol. Soc. Denmark, 22, 193–212
Ernst e Buchan (1997) Giant radiating dyke swarms: their use in identifying pre-Mesozoic large igneous provinces and mantle plumes. In: Mahoney, J., Coffin, M. (Eds.), Large Igneous Provinces: Continental, Oceanic, and Planetary Volcanism: Am. Geophys. U. Geophysical Monograph Series, 100, 297–333. 
Golonka and Gawęda (2012) Plate Tectonic Evolution of the Southern Margin of Laurussia in the Paleozoic, Tectonics Evgenii Sharkov, IntechOpen
Kaiho et al (2013) A forest fire and soil erosion event during the Late Devonian mass extinction Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 392, 272–280
Kaiser et al (2011) Climate-controlled mass extinctions, facies, and sea-level changes around the Devonian–Carboniferous boundary in the eastern Anti-Atlas (SE Morocco). Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 310, 340–364 
Kiselev et al (2006) Middle Paleozoic basic magmatism of the northwestern Vilyui Rift: composition, sources, and geodynamics. Petrology 14, 588–608
Kravchinsky (2012) Paleozoic large igneous provinces of Northern Eurasia: Correlation with mass extinction events Global and Planetary Change 86-87, 31–36
Over et al (1997) Platinum group element enrichments and possible chondritic Ru:Ir across the Frasnian–Famennian boundary, western New York State Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 132,399–410 
Over (2002) The Frasnian/Famennian boundary in central and eastern United States Paleogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 181,153-169 
Oxman (2003) Tectonic evolution of the Mesozoic Verkhoyansk–Kolyma belt (NE Asia) Tectonophysics 365,45–76
Racki et al (2018) Mercury enrichments and the Frasnian-Famennian biotic crisis: A volcanic trigger proved? Geology  DOI: https://doi.org/10.1130/G40233.1  
Sepkoski JJ (1996) Patterns of Phanerozoic extinction: A perspective from global databases. Global Events and Event Stratigraphy in the Phanerozoic, ed Walliser OH (Springer, Berlin), pp 35–51
Wang et al (1993) Global Iridium anomaly, mass extinctions and redox change at the Devonian-Carboniferous boundary. Geology 21, 1071 – 1074

La recrudescenza dell'attività sismica nella parte settentrionale della zona interessata dalla sequenza iniziata nel 2016

$
0
0


Con questo post vorrei fare un pò il punto della situazione a Muccia e Pievo Torina, dove in questi ultimi mesi c'è stata una recrudescenza dell'attività sismica: si ricordano in particolare gli eventi dall'inizio di aprile, ma era da gennaio che era stato notato un aumento della sismicità nella zona a nord del bacino di Caselluccio, quella più settentrionale dell'areale interessato dalla sequenza iniziata il 24 agosto 2016, in particolare quelli con M>3. Ci si domanda poi se questa sequenza sia diversa da quelle che hanno sconvolto l'Appennino centrale nei secoli passati e, soprattutto, quanto ancora durerà e se in un futuro prossimo aree limitrofe saranno colpite. Purtroppo nessuno ha la sfera di cristallo per rispondere a queste domande e continuo a sostenere che l'unica soluzione per essere sicuri è quella di vivere, lavorare, studiare, passare il tempo libero in edifici dalle caratteristiche compatibili con il rischio sismico specifico di ogni area e che la ricostruzione delle zone terremotate deve essere preceduta da una zonazione sismica capace di individuare dove si possa ricostruire.


In questo momento la situazione nella zona di Muccia e Pieve Torina è più delicata dal punto di vista umano che da quello geofisico e sismologico: il problema fondamentale oggi è sicuramente lo stress a cui la popolazione è sottoposta da quasi due anni e ne ho avute dimostrazioni pratiche anche grazie a delle domande che mi sono state fatte personalmente. Per questo ho già perso la pazienza diverse volte contro i ciarlatani che creano allarmismi e con quelli delle postvisioni del tipo “avevo l’apparecchiatura (che peraltro non legge nulla, ndr) in manutenzione”. Il drammatico è quando, come adesso, anche esponenti del mondo scientifico si mettono a far polemica: per dirla con Niels Bohr, “è difficile fare delle previsioni, specialmente per il futuro”;  Bohr non parlava dei terremoti, ma è un fatto che proprio i terremoti siano ancora, allo stato attuale, estremamente imprevedibili In questo grafico vediamo in rosso il numero degli eventi con M>2 e in blu quello degli eventi con M>3. I numeri sull’asse x sono i mesi dal 24 agosto. È chiaro che i mesi non sono tutti lunghi uguale, ma insomma, si vede come nel mese successivo al 24 agosto e in quello dopo il 30 ottobre ci sono stati moltissimi eventi (e giustamente, il secondo terremoto, essendo ben più forte, ha provocato più scosse del primo); poi la sismicità è scesa a valori molto più bassi.


Il meccanismo degli eventi dell'Appennino Centrale:
una estensione 
ALCUNI CONCETTI FONDAMENTALI DA TENERE A MENTE. voglio qui riassumere alcuni aspetti che non tutti hanno ben chiari:
1. ad eccezione degli sciami sismici, in cui ci sono diverse scosse ravvicinate nel tempo con una Magnitudo simile, in una sequenza sismica normale un singolo evento principale è seguito da una serie di repliche più deboli rispetto al primo, secondo la legge di Omori per la quale in media la frequenza delle repliche diminuisce iperbolicamente con il tempo dopo un forte terremoto. Naturalmente ogni terremoto fa storia a se e quindi i coefficienti della legge di Omori variano da sequenza a sequenza e quindi, e inotre durante l’attenuazione della sequenza non si possono escludere colpi di coda un po' sopra le righe, una situazione che sta diventando molto pesante a Muccia
2. c’è poi una seconda legge, quella di Gutenberg-Richter che integra la legge di Omori: spannometricamente si può dire che il numero di repliche di un evento principale aumenta di 10 volte scendendo di una unità nel valore della Magnitudo: ad esempio un evento M5 sarà seguito da 10 eventi di M 4, 100 di M3, 1000 di M 2 e via discorrendo, fermo restando che sotto un certo limite che mettiamo convenzionalmente a M = 1 gli eventi sismici diventano indistinguibili dal rumore di fondo
Il meccanismo compressivo tipico
dei terremoti emiliani del 2012
3. tra la sismicità dovuta a un quadro tettonico compressivo e la sismicità dovuta a un quadro tettonico distensivo  c’è un abisso nella modalità dei meccanismi focali e in quello che succede dopo: possiamo dire che in un evento compressivo i due lati del piano di faglia si “uniscono” sempre di più; in un evento distensivo invece si crea un vuoto
4. è per questo che la sequenza che segue un evento distensivo dura molto di più rispetto ad una crisi dovuta ad un evento compressivo. Lo possiamo facilmente notare confrontando la durata di pochi mesi delle repliche dei terremoti emiliani del 2012 con quella dell’Appennino centrale attuale; ma anche con quella, distensiva come quella attuale, del 1980 in Irpinia, che ancora nel 1982 ha visto alcuni eventi con M > 4 nella zona epicentrale 
5. è indubbio che la legge di Omori sia rispettata: nell’area interessata dagli eventi principali del 2016 le scosse stanno diminuendo in intensità e frequenza praticamente dappertutto, anche se nella zona di Muccia e di Pieve Torina c’è, come dire, una recrudescenza dei fenomeni dall’inizio del 2018 e in questi giorni è in corso la sequenza di Omori al seguito dell’evento del 10 aprile (che per la cronaca ha un meccansismo focale e una direzione del piano di faglia perfettamente coerente con le scosse principali dell’ottobre 2016).


MAGNITUDO, DISTRIBUZIONE E NUMERO DEGLI EVENTI. Osservando esclusivamente gli eventi con M uguale o superiore a 3, la sequenza iniziata il 24 agosto 2016 è caratterizzata da 3 fasi, come si osserva nelle tre carte qui sotto.




Qui sopra, nella prima fase, dal 24 agosto al 25 ottobre, la sismicità è essenzialmente annidata fra Preci a nord e il lago di Campotosto a sud, ma con gli eventi più meridionali “staccati” dagli altri. Questo denota che il settore del Monte Vettore ancora non ha iniziato a muoversi.



Qui vediamo invece come il 25 ottobre 2016 si attiva anche la parte settentrionale tra Preci e Camerino, e fino al 15 gennaio 2017 le replice coprono tutta l'area tra Muccia a nord e Pizzoli a sud, a parte una leggera discontinuità che separa gli eventi della zona di Amatrice da quelli di Campotosto. 


Dopo il 15 gennaio 2017 non esiste più il gap tra Amatrice e Campotosto e la distribuzione delle repliche è praticamente continua.


Quello che si può notare è che applicando la legge di Gutemberg – Richter i conti ancora non tornano: ci dovrebbero essere stati, dopo il 30 ottobre, 10 eventi con M compresa tra 5 e 6, 100 con M compresa fra 4 e 5 e 1000 con M compresa fra 3 e 4. Invece siamo a 5 (e tutti fuori zona, il 30 ottobre è stata interessata l’area più a nord, e queste repliche intense sono annidati a Campotosto, esattamente dalla parte più a sud…), 65 e poco più di 1000 (il valore di 1132 per questioni grafiche comprende anche gli eventi dello spoletino e qualcun altro fuori dalla zona “calda”). Insomma, ce ne sono stati meno nelle classi di Magnitudo superiore (la metà di quelli aspettati) e un numero abbastanza compatibile in quella di M tra 3 e 3.9.
Dal punto di vista temporale in tutta l'area interessata gli eventi complessivi con M3+ sono 260 entro il 23 ottobre 2016, e 957 entro il 14 gennaio 2017; consoderando solo la zona del M 6.5 del 30 ottobre 2016 i 3 eventi più forti che hanno seguito la scossa principale sono:
M 4.8 1 novembre 2016
M 4.7 3 novembre 2016
M 4.6 10 aprile 2018
Naturalmente questo non vuole dire che ci saranno per forza altri eventi forti per colmare il gap nelle magnitudo più alte secondo la legge di Gutemberg -  Richter, ma il rischio esiste.


UN CONFRONTO FRA OGGI E IL PASSATO. La domanda fondamentale è se precedenti terremoti di simile entità nell’Appennino Centrale abbiano avuto la stessa evoluzione di quella attuale. In parte, consultando e cronache storiche, la risposta può essere considerata “affermativa”, perché numerose fonti attestano la presenza di repliche prolungate nel tempo; dobbiamo inoltre notare come molti terremoti siano incerti non solo nella magnitudo, ma persino nell'essere avvenuti o meno; questo vale sia per gli eventi sismici principali, ma soprattutto per le repliche. Spesso si legge che le scosse sono durate mesi (o anni), ma non è dato sapere quanti, anche perché in genere gli eventi che restano sono quelli distruttivi e l’evento principale spesso distruggeva praticamente tutto quello che c’era da distruggere: in genere le repliche sono riportate dalle cronache solo se particolarmente avvertibili e/o causa di frane o ulteriori rovine negli edifici. E sicuramente una loro buona parte non è stata citata. Ne segue che il catalogo è sicuramente lacunoso.

Il post 2016 si differenzia dalle precedenti sequenze per alcune condizioni particolari dal punto di vista umano:

  • le cronache del passato non possono citare le scosse strumentali, e, come ho detto, sono abbastanza lacunose anche su eventi sismici “molto sopra le righe” (quando, appunto, non hanno provocato effetti pratici).
  • fino al 1915 non ci sono registrazioni sismometriche e, come fa notare Alessandro Amato, mai nella storia italiana la rete sismografica è stata particolarmente sofisticata nel numero e nella qualità dei sensori (una condizione ben più dettagliata non solo rispetto al 1915, ma anche rispetto al 1997 e al 2009)
  • la Magnitudo decisamente più alta rispetto agli eventi principali recenti (1997 e 2009)



Quindi non è possibile dire se questa sequenza si differenzia da altre di Magnitudo simili documentate dalle fonti storiche. Tantomeno è possibile prevedere quando il tutto si esaurirà.


MUCCIA, PIEVE TORINA E DINTORNI. Veniamo ora ai possibili scenari futuri, argomento del contendere di questi giorni con la parola d’ordine “cosa succede a Muccia e a Pieve Torina?”. La persistenza dell’attività nella zona settentrionale è probabilmente dovuta alla maggiore intensità del terremoto del 30 ottobre nei confronti di quello del 24 agosto, ma è innegabile che dopo una fase di stasi nella seconda metà del 2017, la “coda” si sia nuovamente intensificata. Non chiedetemi però il perché….
Venendo agli utlimi 2 mesi, dal 4 aprile ci sono stati fino alle 10.00 del 23 maggio 2018, nell’area molto localizzata evidenziata nella carta, 172 eventi con M > 2.1, dei quali 19 con M 3+ con le punte di M 4.0 il 4 aprile e 4.6 il 10 aprile. Non solo: in quest’area dall'inizio del 2018 si registra un’attività superiore a quella dei mesi precedenti, come si vede dal grafico qui accanto: da gennaio 2018 ben 36 dei 38 eventi con M >3 di tutta l'area tra Muccia e Pozzoli sono stati registrati qui.


L’evento del 4, ma soprattuto quello del 10, hanno innescato a loro volta una sequenza di Omori e si vede che in questo caso la legge di Gutemberg-Richter sottostima un po' il numero delle repliche.
Dobbiamo poi registrare una leggera ripresa negli ultimi giorni, dopo un paio di settimane fondamentalmente calme; in particolare un evento del 21 maggio è stato il più forte dopo il 10 aprile.  Per fare un confronto con le sequenze storiche ci si dovrebbe domandare quanti di questi eventi non solo sarebbero stati avvertiti dalla popolazione, ma soprattutto di quanti resterebbe nelle cornache il ricordo. Probabilmente ben pochi… senza la rete di INGV la maggior parte sarebbe passata inosservata e, se fosse successo anche solo 200 anni fa, le cronache storiche probabilmente non avrebbero registrato il ricordo dell’evento del 10 aprile 2018.


I POSSIBILI SCENARI FUTURI. Purtroppo, come ho detto, non si possono fare previsioni, ma è possibile delineare degli scenari futuri, a scala locale (la zona interessata dal 24 agosto 2016 in poi) e a scala regionale (l’Appennino centrale).
A scala locale lo scenario ottimale dal punto di vista umano sarebbe “finisce tutto subito”. Purtroppo non è realistico, nel senso che l’attività della sequenza sismica innescatasi nel 2016 sta ancora continuando. In questo quadro di generale diminuzione della frequenza e dell’intensità delle repliche sono purtroppo possibili  ancora “colpi di coda” come questo di Muccia, con il dubbio  sulla scarsa quantità delle repliche di M più alta e del perché della ripresa dopo una stasi. Insomma.. ancora “non ci siamo”.


La distribuzione irregolare nel tempo degli
eventi sismici maggiori dell'appennino centrale
 è chiaramente evidente in questo grafico
tratto da Tondi e Cello (2003
)
A scala dell’Appennino centrale, torniamo al gennaio 2017 e al comunicato della Commissione Grandi Rischi, che ho commentato qui: gli eventi sismici nell’Appennino centrale non sono distribuiti casualmente nel tempo, ma tendono a raggrupparsi in cluster temporali ben definiti.
Esaminando il “catalogo parametrico dei terremoti italiani” dell’INGV, si notano dei momenti in cui il settore a cavallo fra Lazio, Umbria e Marche è stato colpito da una serie di eventi con M superiore a 5.5 ravvicinati nel tempo: limitandosi al periodo tra il XIII e il XVIII secolo, è successo per esempio tra il 1269 e il 1279 e negli anni 1348 – 49, e tra il 1458 e il 1466, mentre in tutto il 1500 si segnala una attività scarsissima e nel 1600 si contano “appena” 3 eventi maggiori, tutti in un lasso temporale ristretto; nella prima metà del XVIII secolo, invece, si sono verificate scosse intense circa ogni 10 anni (1703, 1719, 1730, 1741, 1747 e 1751), poi dopo qualche decennio di calma abbiamo terremoti nel 1781, 1785, 1791 e 1799. Vediamo la distribuzione nel tempo dei terremoti più importanti in questa figura tratta da Tondi e Cello (2003).
Comunque, ci sono anche degli eventi “isolati”, come nel 1298, 1328, 1599, per cui l'asserzione "se abbiamo un evento forte, allora ne verranno altri"è stata per fortuna varie volte contraddetta.  Adesso abbiamo avuto in 20 anni il 1997, il 2009 e il 2016 (più qualche alto evento un po' fortino). Quindi è indubbio che siamo di fronte ad una crisi sismica importante. Crisi che potrebbe essere conclusa con solo queste 3 sequenze principali, o forse 4 se gli eventi del 24 agosto e del 30 ottobre possano essere considerati distinti oppure appartenenti alla stessa sequenza. Comunque il problema è che attualmente la pericolosità sismica nelle aree dell’Appennino Centrale adiacenti a quelle interessate dalle sequenze dgli ulimi 20 anni è teoricamente più elevato di quello che c’era 50 anni fa.


Le strutture sismogenetiche principali sono suddivise in due sistemi grossomodo paralleli, uno orientale che va dal Vettore alla Maiella e uno occidentale che va da Colfiorito all’alta valle del Sangro (Galadini e Galli, 2000). C’è poi un terzo allineamento, ancora più occidentale, non compreso nella carta  e obliquo rispetto ai due precedenti, che dalla Valtiberina e dalla valle Umbra arriva a Leonessa e alla valle del Salto unendosi a quello occidentale nell’area del Fucino (Boncio et al, 2004). Ne ho parlato in dettaglio qui.
Queste faglie accomodano la deformazione provocata dalla estensione (di oltre 1,5 mm /anno) che sta subendo la crosta, perché il settore adriatico si muove verso Est più di quanto non lo faccia il settore tirrenico (Farolfi e Delventisette 2016, (ne ho parlato qui). Dei due sistemi, negli ultimi secoli quello occidentale è stato più attivo di quello orientale e gli eventi del 1979 (Valnerina), 1997 e 2009 appartengono a questo, come quasi tutti gli altri forti terrmeoti storici, mentre il sistema orientale ha originato i terremoti del 2016, e quelli del Fabrianese e quelli di Amatrice e Laga del XVII secolo.


Secondo la Commissione Grandi Rischi i settori più a rischio attualmente sono quello di Norcia, che fa parte del sistema occidentale, perché si trova in mezzo fra le zone interessate nel 1997 e nel 2009 ed è di fronte al settore attualmente interessato dalla sequenza, quello della Laga, perche è quello immediatamente a sud del settore del Vettore (ma forse gli eventi di Campotosto sono già una risposta) e l’Alta Valle d’Esino, fino a Fabriano, dove il terremoto Mw 6.2 del 24 aprile 1741, che seguì e precedette il gli eventi del 1747 e 1751 della zona di Gualdo Tadino.

Ripeto nuovamente, comunque, il concetto: NON non si tratta di una previsione ma si tratta di una valutazione scientifica di possibili scenari. Le previsioni, checchè ne pensino i soliti personaggi, NON sono attualmente possibili. Punto e basta.
Dal punto di vista pratico, la cosa principale che emerge dallo scenario peggiore è che per la ricostruzione si dovrà tenero conto del rischio sismico elevato e che sono numeriosi gli edifici nelle zone vicine che vanno urgentemente adeguati.

Boncio et al 2004. Defining a model of 3D seismogenic sources for seismic hazard assessment applications: the case of central Apennines (Italy). J. Seismol. 8, 407–425

Galadini e Galli (2000) Active tectonics in the central Apennines (Italy) — input data for seismic hazard assessment. Natural Hazards 22: 225–270

Tondi e Cello (2003) Spatiotemporal evolution of the Central Apennines fault system (Italy) Journal of Geodynamics 36, 113–128

La deformazione dell'area del monte Mantap in Corea del Nord a seguito dell'esperimento termonucleare del 3 settembre

$
0
0


Le applicazioni del radar interferometrico satellitare (InSAR) sono numerose. In questa occasione i dati del satellite tedesco TerraSAR-X hanno determinato le deformazioni seguite all'ultimo esperimento nucleare in Corea del Nord, dimostrando come questa esplosione abbia pesantemente modificato la topografia del sito, rendendolo inutiilizzabile per attività future e costringendo il regime nordcoreano a cambiare la sua strategia. È stato inoltre possibile determinare con ls deformazioned ella superficie topografica un valore di Mw che oltre all'energia inziale comprende anche le deformazion post-evento e che sostanzialmente è in accordo con quello determinato esclusivamente con metodi geofisici.


Il 3 Settembre 2017 i sismografi di tutto il mondo hanno registrato un evento sismico localizzato nel poligono nucleare di Punggye-ri nella Corea del Nord, indicando che nel sito era stato appena eseguito un altro esperimento nucleare, e, soprattutto, che questo ultimo esperimento è stato ben più potente dei precedenti. Poco dopo l’agenzia ufficiale dello Stato ha confermato quello che molti esperti temevano: il Paese asiatico aveva fatto esplodere una bomba termonucleare a due stadi (una normale bomba a fissione ha innescato una bomba a fusione, la classica trafila di una bomba H). Già a novembre in questo post ho descritto la geologia del sito nucleare e fatto notare che a seguito dell’esperimento di settembre qualcosa non aveva funzionato a dovere:il primo allarme è stato costituito da una replica M 4.1 registrata appena 8 minuti e mezzo dopo l’esperimento. A questa prima replica ne sono seguite altre due, il 23 settembre e il 12 ottobre; secondo fonti solitamente ben informate in questa ultima occasione numerosi addetti ai lavori sarebbero morti per il crollo di un tunnel che stavano scavando. Insomma, già ai primi di novembre iniziavano i sospetti che la nuova strategia del regime coreano sulle armi nucleari fosse dovuta aulla impossibilità di proseguire l’attività a  Punggye-ri, ipotesi che è diventata certezza qualche tempo dopo che ho scritto quel post. Oggi i radar montati su satellite consentono grazie alla tecnica InSAR di vedere chiaramente le componenti verticale ed E-W della deformazione associata all’evento e dare un’altra valutazione indipendente da quella geofisica sull’energia rilasciata nell’esperimento.


Le deformazioni dopo gli esperimenti
del 1992 da Vincent et al (2003)
LE DEFORMAZIONI RILEVATE DA InSAR A SEGUITO DEGLI ULTIMI ESPERIMENTI NUCLEARI IN USA NEGLI ANNI '90. Vincent et al (2003) dimostrarono 15 anni fa che con la tecnica InSAR un radar satellitare riesce a determinare le deformazioni superficiali causate da test nucleari sotterranei anche nei casi in cui l’esplosione non abbia provocato effetti visibili, per esempio la formazione di un cratere o delle fratturazioni. È evidente invece che una leggera subsidenza del terreno non sia invece facilmente rilevabile (o, quantomeno, quantificabile), con mezzi tradizionali.
La ricerca è stata effettuata nei mesi che seguirono gli ultimi esperimenti nucleari nel poligono del Nevada, alla fine del 1992. Le serie di dati InSAR hanno evidenziato la subsidenza dell’area sovrastante i siti degli esperimenti e che dopo una forte componente immediata (subsidenza cosismica), il movimento proseguiva in un’area di circa 1 km di raggio per giorni, se non per mesi o addirittura anni, dopo l’evento. La subsidenza avviene sia nel caso di formazione di un cratere sia nel caso in cui questo cratere non si formava. Il valore finale dell’abbassamento della superficie topografica va da uno a qualche centimetro.
In questa immagine, tratta da quel lavoro, si osservano i segnali della deformazione cosismica catturati in 14 mesi di osservazione di tre test sotterranei del 1992. I punti rossi rappresentano crateri di test precedenti.

La deformazione della superficie topografica
secondo Wang et al (2018)
LE DEFORMAZIONI A PUNGGYE-RI DOPO IL 3 SETTEMBRE 2017. Su Scienceè uscito in questi giorni (Wang et al, 2018) un articolo di un gruppo di ricerca internazionale che applica la stessa tecnica al poligono di Punggye-ri: usando i dati provenienti dal satellite tedesco TerraSAR-X, è stata misurata la deformazione causata dall’esperimento del 3 settembre, visibile nella figura qui accanto: il movimento è stato scomposto nella componente orizzontale e in quella verticale. La componente orizzontale è rappresentata dalle frecce, che mostrano una evidente dislocazione orizzontale che diverge a raggiera dal punto dell’esplosione, il cui valore arriva addirittura a 3.5 m. 
La componente verticale invece è rappresentata dai colori sulla carta.
La deformazione indica che la sorgente dell’esplosione è localizzata dalle coordinate 129.078°E e 41.300°N±50 m, ed è avvenuta a 1750 ± 100 m di quota sopra il livello medio del mare, cioè 450 ± 100 m sotto la cima del monte Mantap.
Si osserva molto bene che un buona parte della superficie del monte Mantap si è abbassata in un’area di qualche centinaio di metri dal punto dell’esplosione, mentre un movimento orizzontale ha innalzato quelle intorno; inoltre lo spostamento orizzontale è maggiore nei fianchi meridionale e occidentale della montagna, il che evidenzia uno stretto controllo della sua entità da parte della topografia: più elevata è la pendenza, maggiore è lo spostamento centrifugo. Anche l’abbassamento è legato alla pendenza, in particolare l’area a massima subsidenza si prolunga a distanza maggiore dal sito dell’esplosione nei versanti più scoscesi a W e a S. É invece curioso vedere che i valori di innalzamento siano molto superiori nella parte nord che in quella a sud.
Un aspetto interessante è che se la topografia esercita un controllo sulla entità del movimento, non lo esercita invece sulla sua direzione, per cui non si tratta di movimenti franosi, che, ovviamente, si sarebbero dovuti muovere nella direzione del pendio. Sono comunque distinguibili anche i segnali di alcune frane innescate dallo scuotimento, che sono completamente diversi e localizzati: dei debris flows localizzati in avvallamenti preestenti non in grado si produrre i moviklenti orizzontali a larga scala evidenziati dal satellite. 
Quindi la maggior parte della deformazione della superficie topografica non è il risultato delle frane ma è proprio dettato dall’esplosione e tale quadro deformativo è connesso all’espansione di una cavità dovuta all’esplosione e al suo successivo collasso: l’espansione ha provocato il rapido allontanamento dal centro delle rocce intorno all’ordigno, le quali hanno spinto le zone adiacenti che hanno reagito sollevandosi. Successivamente il collasso di quanto stava sopra alla cavità ha provocato l’abbassamento. Il raggio della cavità è calcolato sui 300 metri. Nella figura qui sotto la serie degli eventi come descritta da Wang et al (2018)

I movimenti secondo Wang et al 2018
Il cerchio bianco a sud del punto dell'esplosione indica la posizione della replica M. 4.1 avvenuta 8 minuti e mezzo dopo, localizzata circa 700 m verso sud; non a caso questo secondo evento si colloca precisamente sotto una delle zone a massima subsidenza e di movimento centrifugo nel più scosceso fianco meridionale del monte Mantap, tra il sito dell’esplosione e il portale di accesso al poligono.
In questo lavoro non viene preso in considerazione l’evento del 23 ottobre, che poi è quello che ha confermato i dubbi sulle condizioni del poligono dopo il test, che la replica M 4.1 aveva innescato. Penso che la sua posizione possa coincidere con quell’area di leggera subsidenza a NE della carta.

LA DETERMINAZIONE DELLA MAGNITUDO DELL'EVENTO CON METODO GEODETICO. Oltre alla precisa collocazione dell’evento, l’interferometria radar è capace di definire anche una Magnitudo Momento (non quella locale) dell’esperimento, combinando la profondità ricavata dalla geodesia e l’energia ricavata dai sismogrammi: il risultato è Mw = 5.5, un po' più alto di quello ricavato dai soli dati sismici (Mw = 5.24), perché include la deformazione lenta successiva all’evento che non ha prodotto onde sismiche; il cambiamento di volume è stato stimato in 0.01 km3. 

DEFORMAZIONI ED ABBANDONO DEL POLIGONO. Questo lavoro è interessante perché dimostra come ci sia un altro metodo – satellitare – che si affianca a quello geofisico per determinare sito e potenza di un esperimento nucleare. 
Le deformazioni del sito di Punggye-ri rilevate con l’interferometria radar da un lato confermano l’energia e la posizione dell’esperimento del 3 settembre ricavate dai dati geofisici, ma vanno ben oltre, perché ci danno un quadro completo della deformazione che ne è seguita, dimostrando che la chiusura del poligono non è stata volontaria ma, come già si paventava, è una conseguenza di una esplosione troppo potente per quanto potevano resistere le rocce al suo intorno. Per fortuna, trattandosi di una esplosione termonucleare a due stadi, l’ordigno a fissione capace di produrre alte ricadute radioattive era molto piccolo; mi chiedo comunque come sia possibile che in tutto questo macello non ci sia stata una fuga di radioattività.

Vincent et al (2003) New signatures of underground nuclear tests revealed by satellite radar interferometry Geophysical Research Letters, 30 / 22, 2141 
Wang et al. (2018), Science 10.1126/science.aar7230 (2018)
   

I mammiferi terrestri siciliani, la loro storia e un istmo nello stretto di Messina

$
0
0

Prima della fine del Miocene i territori oggi facenti parte della Sicilia appartenevano a due piattaforme continentali diverse in cui le isole erano di ridotte dimensioni e sporadiche nello spazio e nel tempo. Da quel momento i primi lembi dell’isola sono emersi stabilmente e, complici sia gli eventi tettonici che, nel quaternario, le oscillazioni del livello marino, il suo territorio ha variato spesso configurazione, da quella a più isole (tre grandi, la catena settentrionale, gli Iblei e Malta) a una terra molto vasta che arrivava oltre Malta. Per la sua posizione al centro del Mediterraneo, la Sicilia può essere vista come una via principale per le migrazioni tra le coste meridionali e settentrionali del bacino, ma questo è ciò che vediamo ora: in un passato anche molto recente le comunicazioni fra l'isola (o, meglio, le isole che componevano l’arcipelago siculo – maltese) e le aree circostanti sono state sporadiche. La colonizzazione della Sicilia da parte dei vertebrati terrestri è stata quindi molto complessa, come anche la colonizzazione umana che sembra essere avvenuta molto in ritardo rispetto alle altre sponde del Mediterraneo. Ci sono diverse questioni in campo che sono ancora aperte e irrisolte o forniscono risultati contraddittori sulle provenienze faunistiche, che potevano sfruttare il cosiddetto istmo siculo-tunisino o la penisola Italiana (ma possono essere vere entrambe...). Su queste istanze prettamente zoologiche si innesta quella antropologica: quando è avvenuta la colonizzazione umana e da dove provenivano questi uomini? 

L'Italia nel Pliocene: tante isole separate.
I RARI FOSSILI DEL MIOCENE E L’ASSENZA DI TESTIMONIANZE NEL PLIOCENE. La Sicilia è un'area in cui due placche si sono scontrate tra l’inizio del Miocene e l’inizio del Pliocene (grossolanamente tra 20 e 5 milioni di anni fa) ed è composta da tre domini principali: la catena settentrionale, l’avampaese Ibleo e, in mezzo, l’avanfossa di Gela e Caltanissetta. La zona degli Iblei, il settore sud-orientale dell'isola, prosegue nel canale di Sicilia fino all'arcipelago di Malta, e rappresenta il margine settentrionale della placca africana.
Prima del Miocene, le aree ora comprese nella Sicilia appartenevano a piattaforme continentali in cui le isole erano saltuarie nel tempo e nello spazio, ma dall’inizio di questo periodo, circa 20 milioni di anni fa, le cose iniziano a cambiare perchè le due piattaforme si scontrano e nella zona degli attuali Iblei troviamo i primi segni della futura e definitiva emersione: una serie di isole, nelle quali si trovano denti di una forma nana di Mastodonte di chiara affinità africana (provenienza logica, dato che era una continuazione della piattaforma di quel conitnente) e che rappresentano le più antiche tracce di mammiferi terrestri in Sicilia. Più tardi, verso la fine del Miocene (ma non in quello terminale) è stata ritrovata una fauna che include taxa euroasiatici e africani, senza particolari endemismi, che però è stata distrutta durante il terremoto del 1908. La duplice provenienza potrebbe essere spiegata da un mix di forme di provenienza iblea e da nord (Rook et al, 2006) 
Se i fossili del Miocene sono frammentari, quelli del periodo successivo, il Pliocene, sono praticamente assenti: è stato un periodo di alto mare in cui l'Italia e il Nordafrica erano come le attuali Filippine: una serie di isole (molto piccole…) separate da bracci di mare più o meno ampi. Non certo un posto ideale per i mammiferi terrestri.

I COMPLESSI FAUNISTICI FOSSILI DEL PLEISTOCENE IN SICILIA. Nel Pleistocene la situazione cambia notevolmente: specialmente durante le fasi a basso livello marino dei massimi glaciali, al posto dell'arcipelago Siculo - Maltese si forma una vasta area emersa che comrende la Sicilia, Malta e vaste aree del canale di Sicilia. Da questa situauzone hanno tratto giovamento i mammiferi terrestri, di cui troviamo numerose testimonianze, specialmente nei tempi più recenti. Sono stati individuati diversi complessi faunistici che cambiano nel tempo (Bonfiglio et al, 2002), ben descritti anche in Sineo et al (2015)
1. Complesso faunistico di Monte Pellegrino. È il più antico: si tratta di una fauna scarsamente diversificata, composta principalmente da piccoli mammiferi probabilmente discendenti della popolazione della fine del Miocene che hanno eroicamente resistito alle difficoltà del Pliocene. Sono forme estremamente particolari, con un endemismo pronunciato che riflette il lungo isolamento. Da questo momento l'attuale area della Sicilia emerge con una certa continuità sia nel tempo che nello spazio e cominciano ad arrivare cose diverse.
La regione italiana nei momenti di basso livello marino
durante i massimi glaciali: Sicilia e Malta unite
2. Complesso faunistico di Elephas (Palaeoloxodon) falconeri. È dominato, come attesta il nome da questo elefante nano. Si tratta di un mix fra elementi di origini africane e elementi locali antichi come quelli del complesso faunistico precedente. È comunque una fauna povera, che riflette una situazione di scarsa continuità tra le varie isole che componevano l’arcipelago siculo – maltese e dove tranne il proboscidato tutti gli altri esponenti erano di dimensioni estremamente ridotte. Le poche datazioni parlano di circa 400.000 anni fa
3. Complesso faunistico di Palaeoloxodon mnaidriensis. Anche questo complesso prende il nome da un proboscidato, il quale è sempre una forma abbastanza piccola, ma adesso compaiono altri mammiferi di dimensioni medie come bisonti, uri, ippopotami, cervi rossi, daini, cinghiali, iene maculate, lupi e volpi. Con la rilevante eccezione di un ippopotamo (nano) si tratta di forme chiaramente europee. Il cambiamento non ha riguardato i mammiferi di piccole dimensioni, che continuano più o meno ad essere come quelli di prima. Le datazioni sui reperti forniscono delle età comprese fra 200 e 145 mila anni fa.
Entrambi questi complessi sono noti pure a Malta (Hunt & Schembri, 1999)
4. Complesso faunistico San Teodoro Cave–Pianetti. Abbastanza simile al precedente per i macromammiferi, a parte la perdita dell’ippopotamo e la comparsa di un cavallo, si discosta fortemente dal precedente per i piccoli mammiferi, che vengono sostituiti completamente. La comparsa del cavallo dimostra la scomparsa dei boschi in favore delle steppe (ma anche qualcos’altro, ne leggerete subito dopo) ed in effetti siamo esattamente intorno all’ultimo massimo glaciale di 20.000 anni fa
5. Complesso faunistico di Castello. Si colloca dopo il massimo glaciale ed è caratterizzato dalla fine degli endemismi residui: la fauna è praticamente la stessa dell’Italia continentale.
Quindi nel Pleistocene superiore, da 300.000 anni fa in poi, si assiste al ribaltamento delle provenienze faunistiche,  dall’Africa all’Europa. Immagino che la cosa rifletta importanti cambiamenti paleogeografici: il ritiro dei mari interni della penisola italiana e l’approfondirsi nel Canale di Sicilia della soglia fra Mediterraneo Occidentale e Orientale, con la definitiva perdita della continuità della piattaforma continentale tra Italia e Africa.
Però il massiccio arrivi di piccoli mammiferi carnivori, dei cavalli e dei leoni dimostrerebbe che anche lo stretto di Messina non esisteva più durante l’ultimo massimo glaciale (LGM)
Andiamo con ordine.

Confronto fra uomo, elefanti nani della Sicilia e Elephas antiquuus
(tipica forma europea quaternaria) da Benton (2010) 
TEORIA DEL POPOLAMENTO DELLE ISOLE.È indubbio che i mammiferi terrestri in qualche caso abbiano colonizzato delle isole a relativa distanza dalla terraferma. Il caso classico è quello del Madagascar, dove l’arrivo dei mammiferi placentati è posteriore alla separazione dell’isola dall’Africa. Ma ci sono altri casi, come per esempio i Primati e i roditori che nel Paleocene sono passati dall’Europa all’Africa e nell’Eocene dall’Africa in America meridionale e, sempre nel continente latino – americano, l’invasione degli ungulati del nordamerica fino a formare i gruppi tipici ora estinti come i Notoungulati e i Litopterni nel Paleocene. 
Nelle isole spesso le dinamiche sono diverse da quelle della terraferma e difatti un metodo valido per riconoscere una fauna insulare è il nanismo delle forme in teoria più grandi, dovuto alla mancanza di predatori e ad una minore abbondanza di risorse, mentre quelle più piccole tendono ad aumentare di dimensione.
Per conquistare un’isola ci vogliono diverse qualità. La prima è intuitiva: la capacità, più o meno forzata, di passare un braccio di mare; la seconda è la capacità di adattamento, che in generale significa “riesco a mangiare tutto quello che trovo
Una parte delle colonizzazioni sono avvenute in modo talmente improbabile  da essere chiamato la "vittoria nella lotteria", che può essere “a nuoto” o “a cavallo di una zattera”: in concomitanza di forti eventi atmosferici la corrente ha trascinato in mare degli individui che nuotando o attaccati a delle zattere vegetali sono riusciti a sbarcare in una nuova isola anziché annegare o morire di sete. La cosa è stata dimostrata recentemente nei Caraibi con delle iguane che dopo un uragano sono arrivate in un’isola dove non c’erano loro conspecifici (Dawkins, 2004).
Altre situazioni sono la dispersione attraverso corridoi moderatamente ampi formati da aree a basso fondo marino o sistemi di lagune parzialmente emerse, con il caso estremo della formazione temporanea di vere connessioni completamente terrestri.
Dal punto di vista della "lotteria", mammiferi di piccole dimensioni hanno la possibilità di resistere abbastanza a lungo su delle zattere a patto che le foglie forniscano acqua dolce, mentre quelli di grandi dimensioni hanno a disposizione solo la capacità di nuotare (e infatti a parte, forse, gli antenati degli ungulati americani e gli elefanti, si tratta sempre di forme leggere e di dimensioni ridotte come piccoli Primati, Roditori o piccoli insettivori come i Tenrec).
Elefanti e cervidi sono buoni nuotatori (gli elefanti anche in mare, anche se suona strano ...) e difatti i loro fossili sono diffusi in molti siti che erano isole ad una certa distanza dalla terraferma non solo nel Mediterraneo, ma anche in Cina, Indonesia e California (Johnson, 1980). Viceversa gli ippopotami non nuotano, ma camminano sul fondo del corso d’acqua.
Ma oltre alle qualità del nuoto occorrono anche le capacità di opportunismo alimentare: i cervidi richiedono un foraggio altamente nutriente, tuttavia possono passare facilmente da un tipo di cibo all'altro. I bovini invece evolvono specializzazioni sofisticate per un certo tipo di cibo. Pertanto, se i cervidi non possono competere con i bovidi negli ecosistemi maturi, la loro strategia opportunistica li rende buoni colonizzatori che possono sopravvivere in nuove aree, dove i bovidi specializzati non riescono a nutrirsi. Pertanto, l'opportunismo ecologico e l'assenza di specializzazioni alimentari danno ai cervidi delle buone possibilità di sopravvivenza. Anche ippopotami e proboscidati non sono molto schizzinosi in fatto di cibo.
Insomma, mentre gli elefanti e i cervidi sono buoni nuotatori e si adattano a tutto (e quindi sono dei perfetti saltatori), gli ippopotami nuotano molto male ma si adattano a tutto e i bovidi magari nuotano ma sono molto limitati nel tipo di cibo. Invece i cavalli sono la negazione totale di questa specialità: non nuotano e hanno bisogno di cibo specifico e abbondante (difficile in un'isola secialmente la seconda..). Quindi trovare un cavallo in Sicilia significa che il passaggio via terra c’era davvero..

lo stretto di Messina con la soglia tra Villa San Giovanni e Ganzirri, da Antonioli et al (2014)
IL PASSAGGIO SULLO STRETTO DI MESSINA. Abbiamo visto che il complesso faunistico di San Teodoro – Cave Pianetti differisce da quello precedente (quello del Palaeoloxodon mnaidriensis) per l’arrivo di leoni, cavalli e diversi piccoli mammiferi. Un piccolo mammifero è un conto, può essere un caso di vincita alla lotteria, ma quando sono diverse specie la cosa “puzza” un pochino. Se poi ci mettiamo anche leoni e cavalli, che a fare salti in mezzo al mare non ci pensano assolutamente, e che dove c’è cavallo c’è steppa (e quindi un clima decisamente più freddo) si può ipotizzare che il tutto sia avvenuto in coincidenza di un momento di freddo. L'ipotesi è giusta: questo complesso faunistico si colloca esattamente intorno all’ultimo massimo glaciale di 20.000 anni fa. Ma oltre al freddo c’è anche l’abbassamento del livello marino. Abbassamento che, come dimostrano Antonioli et al (2014) ha portato all’emersione di una soglia posta più o meno tra Ganzirri e Villa San Giovanni nel periodo dell’LGM, tra 22 e 19 mila anni fa,  quando solo 100.000 anni prima il braccio di mare era largo circa il doppio di adesso.
Nell’immagine si vede come già con un livello marino di 108 metri più basso di quello attuale, un istmo collegherebbe attualmente le due sponde. Il lavoro prende in esame diversi parametri, a partire dall’erosione delle correnti, per modellizzare l’altezza di questa soglia. 
La presenza di questo ponte di terra è quindi provata sia dal lato geologico che da quello biogeografico. È inoltre possibile (e le datazioni sono coerenti con questo) che anche il passaggio fra i due complessi faunistici ad elefanti sia avvenuto durante il periodo glaciale precedente nella stessa zona, vista la presenza di ippopotami, bovini, iene, lupi e volpi, animali non particolarmente noti per avventure acquatiche, e che a parte l’ippopotamo si tratta di apporti tipicamente europei.

LA COLONIZZAZIONE UMANA DELLA SICILIA. Veniamo adesso all’ultima questione aperta, la colonizzazione umana. Ci sono possibili evidenze di presenza umana, forse sporadica, tra 32.000 e 27.000 anni fa; in particolare qualche Autore riporta dei reperti risalenti all'Aurignaziano (Chilardi et al, 1996). Tuttavia, questi resti, estremamente frammentari, hanno uno scarso valore diagnostico perché non è neanche sicura la loro collocazione stratigrafica. Reperti sicuri esistono solo negli ultimi 15.000 anni,  . In questo caso la soglia nello stretto di Messina potrebbe aver giocato un ruolo fondamentale per questa prima migrazione nell’isola. Morfologia e genetica dimostrano che questi colonizzatori hanno una chiara affinità europea, escludendo così un ampio contributo dal lato opposto del Mediterraneo (Sineo et al 2015). Resta la curiosità di uno stanziamento nell’isola estremamente recente, addirittura più recente che nella più lontana dal continente Sardegna.

Antonioli et al (2014) Timing of the emergence of the Europe–Sicily bridge (40–17 cal ka BP) and its implications for the spread of modern Humans 
Benton et al (2010) Dinosaurs and the island rule: Dinosaurs from Hateg Island, Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology (2010), doi:10.1016/j.palaeo.2010.01.026.
Bonfiglio et al (2002) Pleistocene calabrian and sicilian bioprovinces Geobios, mem.spec. 24
Chilardi et al (1996). Fontana Nuova di Ragusa (Sicily, Italy): southernmost Aurignacian site in Europe. Antiquity, 70, 553–563.
Dawkins (2004). The Ancestor Tale Houghton Mifflin Harcourt publishing, Boston 
Hunt & Schembri (1999) Quaternary environments and biogeography of the Maltese Islands.
In: Mifsud, A. & Savona Ventura, C. [eds] Facets of Maltese prehistory. pp. 41-75; Malta: The Prehistoric Society of Malta; vii + 243pp
Johnson 1980. Problems in the land vertebrate zoo- geography of certain islands and the swimming powers of elephants. Journal of Biogeography, 7, 383–398.
Rook et al (2006) Lands and endemic mammals in the Late Miocene of Italy: Constrains for paleogeographic outlines of Tyrrhenian area. Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology, 238, pp. 263-269
Sineo et al (2015) Human Peopling of Sicily During Quaternary  - The Quaternary Period AcademyPublish.org 

Le glaciazioni tra fine Devoniano e inizio del Carbonifero che precedono la grande fase glaciale del Paleozoic superiore e il ruolo svolto in proposito dal tenore di CO2 atmosferico

$
0
0

Questo post è in qualche modo il seguito del post sulle estinzioni di massa del Devoniano superiore, perché parla di una fase cruciale nella storia del nostro pianeta, il passaggio avvenuto tra Devoniano e Carbonifero fra l’ambiente caldo del Paleozoico inferiore e quello decisamente più freddo del Paleozoico inferiore, caratterizzato dalle grandi glaciazioni del Gondwana del Permo – Carbonifero. Queste glaciazioni hanno una differenza fondamentale con quelle attuali: se dalla fine del Terziario inferiore ad oggi la presenza di ghiacci è in buona parte attribuibile ad un importante cambio nella paleogeografia e cioè all’approssimarsi verso le alte latitudini di entrambi gli emisferi di importanti masse continentali (Antartide, America Settentrionale ed Eurasia), nel Paleozoico sostanzialmente il Gondwana risiedeva “da un bel pò” nei dintorni del Polo Sud e verso le alte latitudini settentrionali c’erano ben poche terre emerse, per cui l’avvento delle glaciazioni non è  legato all’arrivo di estese masse continentali nelle aree polari. Questa circostanza fa esplorare altre soluzioni per spiegare l’enorme differenza climatica fra Paleozoico inferiore e superiore, in particolare il possibile ruolo giocato dal tenore atmosferico di CO2 in tutti questi avvenimenti. Con gli ovvi riflessi per la situazione attuale.


Il Tiktaalik rosae, un classico antenato dei tetrapodi,
vissuto nel Devoniano superiore della Groenlandia,

all'epoca in posizione equatoriale nel nord di Euramerica
IL DEVONIANO SUPERIORE: UNO DEI MOMENTI CRUCIALI DELLA STORIA DELLA TERRA. Nel Devoniano accadono degli avvenimenti particolarmente importanti. Dal punto di vista biologico, oltre alla definitiva affermazione delle piante terrestri, sulle terre emerse arrivano anche i vertebrati, con i primi anfibi; questo passaggio è sempre più conosciuto e le ultime ricerche hanno evidenziato una diffusione degli antenati dei tetrapodi da Euroamerica al Gondwana prima del previsto (Gess e Ahlberg, 2018), dimostrando che tutto sommato i due continenti fossero già piuttosto vicini in quest'epoca. Dal punto di vista geologico registriamo l’accelerazione degli eventi che porteranno alla formazione della Pangea (la quale, checché se ne dica, non comprendeva tutte le terre emerse, ne parlerò, spero presto, in un prossimo post) e alle glaciazioni del Paleozoico superiore. 
Tutto questo non avviene in modo tranquillo, ma anche attraverso due estinzioni di massa piuttosto importanti di cui ho parlato qui: la prima, al passaggio Frasniano – Famenniano è una delle “big five” (le maggiori estinzioni di massa) riconosciute già da Sepkoski (1996), la seconda alla fine del Famenniano e quindi in corrispondenza del passaggio Devoniano  - Carbonifero. Come al solito c’è una sincronia fra estinzioni di massa e messa in posto di Large Igneous Provinces: nel primo caso si tratta della LIP della Yacuzia, nel secondo, come ho già scritto, ci sono ancora dubbi sulla collocazione dell’evento (ma non sulla sua esistenza!): per alcuni autori si potrebbe addirittura trattare di una seconda fase della stessa LIP asiatica (Ricci et al 2013). 


Paleogeografia tra Devoniano superiore e carbonifero inferiore
Le stelle indicano i depositi glaciali della fine del Famenniano (Modificata da Larkin et al 2016)
N.Am = Nord america, S.Am = Sud America. Af = Africa 
LA PALEOGEOGRAFIA TRA DEVONIANO SUPERIORE E CARBONIFERO INFERIORE. La caratteristica dominante della paleogeografia del Paleozoico (e quindi anche di questi momenti) è la distribuzione sbilanciata delle masse continentali verso l’emisfero meridionale, come lo è quella attuale verso l’emisfero settentrionale: posizionato alle alte latitudini meridionali, il grande continente di Gondwana comprendeva oltre alle parti che si sarebbero frammentate nel Mesozoico formando Africa, Sud America, Australia, India, Antartide, Arabia, qualche altro frammento che si stava staccando in quel momento; anche la maggior parte di Euramerica (o Laurussia) si trovava nell’emisfero meridionale: solo le sue propaggini più settentrionali arrivavano fino all’equatore e un po' oltre come dimostrano i fossili delle Svalbard. Nell’emisfero settentrionale invece troviamo tra latitudini medio – alte e l’equatore solo alcune masse minori isolate fra loro, quelle che di lì a poco formeranno l’ossatura primaria dell’Asia con la fascia orogenica dell’Asia Centrale (ne ho parlato qui): Siberia, Amuria, l’arco dei Verhojansk, il Kazakhstan e le due Cine.


DA UNA TERRA CALDA A UNA TERRA FREDDA. Un aspetto ancora poco conosciuto di questi momenti è come sia avvenuto il passaggio fra la Terra calda del Paleozoico inferiore e le glaciazioni del Permocarbonifero (in inglese si dice da una Terra a “greenhouse” ad una Terra a “icehouse”) e non si sa neanche di preciso quando poter collocare questo limite. La presenza di depositi glaciali diventa continua dalla fine del Mississipiano, intorno a 320 milioni di anni fa, ma prima dell’avvento delle calotte più massicce e permanenti del Carbonifero superiore, si registrano almeno tre fasi glaciali minori, appunto fra Devoniano superiore e Carbonifero inferiore da 355 milioni di anni fa. A questo si aggiunge un po' di confusione nella nomenclatura della cronologia del Carbonifero in cui fra Europa e America settentrionale sono stati usati termini diversi, che necessitano di esser quindi confrontati con la cronologia attualmente vigente, che si vede qui accanto (International Chronostratigraphic chart, versione 2017).  


LE TRE FASI GLACIALI ISOLATE DI QUEI TEMPI. Non ci sono ancora molti dati su questi eventi (e non so quanti altri se ne potranno trovare); una ottima rassegna in materia è contenuta in Larkin et al (2016), testo a cui faccio riferimento dove non specificato diversamente quando elenco le zone interessate. Ad oggi sono stati riconosciuti tre eventi glaciali: uno alla fine del Devoniano, che fa parte della catena di avvenimenti dell’evento Hangenberg, e due nel Carbonifero inferiore, nel Tournasiano e uno nel Viseano. 
Le tracce fondamentali che permettono di riconoscere un evento glaciale sono diverse: la presenza di diamictiti (morene glaciali fossili) è sicuramente l’aspetto più diagnostico, al pari di una diminuzione del livello marino a scala mondiale che provoca l'interruzione della sedimentazione un pò dappertutto nelle zone precdentemete ricoperte da mari di bassa profondità; inoltre si riscontra una migrazione verso latitudini più basse di forme di vita di clima più fresco.

Il ciclo glaciale della fine del Devoniano (Famenniano finale)è particolarmente intrigante perché, appunto, si colloca vicino all’evento di Hangenberg in senso stretto. 
Variazioni del livello marino e stratigrafia
in Germania tra fine Devoniano e inizio Carbonifero
da Bless et al (1992)
Anzi, lo precede: il Famenniano terminale è stato interessato da una glaciazione le cui diamictiti si trovano in Africa e nelle Americhe, e la loro presenza nella fascia appalachiana dell’America Settentrionale significa che siamo davanti ad un intervallo glaciale che è arrivato fino a basse latitudini; inoltre è attestato a livello mondiale un generale ed improvviso abbassamento del livello marino di un centinaio di metri, evidentissimo in Germania nel Massiccio Renano (Kaiser et al 2015), ma anche tra Francia e Belgio (Kumpan et al, 2014), America settentrionale e in tutta l’area dell’Orogene dell’Asia Centrale. In particolare nel massiccio renano il canale di Seiler è una incisione profonda 100 metri scavata dall'erosione nella piattaforma continentale di Euramerica durante la fase a mare basso del Famenniano superiore e nella quale si sono sedimentati, quando il livello marino è risalito durante la fase di deglaciazione, il conglomerasto di Seiler e gli scisti di Hangenberg che registrano il successivo evento omonimo (Bless et al, 1992). Il ciclo di ritiro del mare e avanzamento dei ghiacci seguito dal ritorno alle condizioni precedenti sembra essere durato non più di 100.000 anni (Streel et al, 2013). La deposizione di scisti scuri perché ad alto contenuto di materia organica (che quindi si sono deposti in una fase in cui di ossigeno nelle acque ce n’era ben poco) è un evento a scala mondiale che si associa ad una perturbazione nel ciclo del Carbonio. 
La catena di eventi dell’Hangenberg è quella classica che si verifica in corrispondenza della messa in posto di una Large Igneous Province: un raffreddamento associato ad una regressione marina, successivamente seguito da una trasgressione con deposizione di sedimenti ricchi in materia organica, estinzione di massa e perturbazioni geochimiche, fra le quali la più nota è quella del rapporto fra gli isotopi del Carbonio, ma ce ne sono diverse altre.


Una valle incisa da una regressione marina,
che viene successivamente riempita da sedimenti
durante la successiva trasgressone (da Moxness et al, 2018)
Gli altri due episodi glaciali sono decisamente di minore portata e i depositi glaciali si ritrovano solo nelle alte latitudini meridionali dell'epoca: quello del medio Tournaisiano  (circa 350 MA) è attestato in Brasile, Falkland e Sudafrica, quello del Viseano in Brasile, Argentina, Falkland e Malesia. Le modalità  dei due eventi sono molto diverse fra loro; il Medio Tournasiano ricorda il Famenniano: un solo ciclo di regressione marina con  formazione di ghiacciai seguita da un riscaldamento contrassegnato da una deposizione di sedimenti anossici in Germania e altrove, accompagnato da anomalie geochimiche; Insomma, si tratta di due eventi a scala mondiale ma temporanei e monociclici, decisamente diversi da quelli classici successivi del Permo-Carbonifero e del Terziario, caratterizzati da continue alternanze di trasgressioni e regrssioni marine. Quindi sono portato a pensare che anche l’episodio del Tournasiano sia legato alla messa in posto di una Large Igneous Province. Sulle motivazioni del raffreddamento che precede la messa in posto di una Large Igneous Province ci sono ancora poche ipotesi. Ricordo che negli anni ‘80, quando ancora i flood basalts continentali e i plateau oceanici non erano ancora stati uniti nelle Large Igneous Provinces e le prove di collegamento fra queste grandi eruzioni e le estinzioni non erano così stringenti come oggi, era stata avanzata una correlaizone fra le estinzioni di massa e le variaizoni del livello marino (Hallam, 1989)

Nel Viseano, poco più di 350 milioni di anni fa, le cose appaiono un pò diverse: a differenza dei precedenti, questo intervallo sembra essere policiclico e non presenta una trasgressione contrassegnata da black shales e anomalie geochimiche e non c’è una particolare accelerazione del tasso di estinzione (Stanley, 2016). Insomma, a differenza degli episodi precedenti, quello del viseano appare più come una fase glaciale normale, un annuncio di quello che sarebbe successo da lì a poco dopo.
C’è solo una cosa che mi stupisce: non capisco come mai due eventi singoli come Hangenberg e medio Tournasiano abbiano lasciato così tante tracce.

GLACIAZIONE Sì E GLACIAZIONE NO A PARITÀ DI PALEOGEOGRAFIA. C’è poi da capire perché le glaciazioni si verificano solo nel Paleozoico superiore quando già in quello inferiore le condizioni dal punto di vista paleogeografico per averle, e cioè la presenza di una ampia area continentale nella zona polare meridionale, c'erano di già. Per alcuni Autori uno dei fattori che lo avrebbero determinato è stato la riorganizzaione della circolazione oceanica a causa dello scontro fra Euramerica e Gondwana e la chiusura del passaggio fra Panthalassa e Tetide, ma per altri Autori si tratta di un evento avvenuto più tardi (per una rassegna in merito: Davydov e Kozar, 2017). Noto invece che per la glaciazione attuale uno dei maggiori eventi che l'hanno innescata potrebbe essere stato, al contrario, la nascita della corrente circumpolare quando si è aperta la soglia di Ross fra Argentina e Penisola Antartica (Katz et al, 2011).
Il tenore di CO2 atmosferico dal Devoniano ad oggi (Franks et al, 2014)
Si vede come le fasi glaciali iniziano quando questo tenore si abbassa
Qui entra in gioco, però, un'altra importante forzante: la figura qui accanto, rielaborata da Franks et al (2014) descrive il contenuto medio di CO2 atmosferico dal Devoniano a noi, calcolato analizzando gli stomi delle foglie fossili, la cui densità è correlabile appunto al tenore atmosferico di CO2. Si vede che dopo un massimo nel Devoniano inferiore, il tenore atmosferico di CO2 inizia a diminuire. Questa diminuzione significa che nel sistema - Terra il CO2 prodotto non era sufficiente a compensare la sua richiesta da parte dei fenomeni che lo consumano (essenzialmente fotosintesi, alterazione delle rocce silicatiche e formazione di rocce carbonatiche). È molto probabile che la colonizzazione dei continenti da parte delle piante sia stata la nuova variabile che ha provocato una nuova e massiccia richiesta di CO2; si deve notare inoltre come il calo si interrompe bruscamente (e momentaneamente) nel Famenniano, l‘ultimo piano del periodo, per proseguire poi per tutto il Carbonifero in quanto una grande quantità di gas verrà stoccato nelle calotte glaciali. Si rialzerà solo alla fine del Permiano. Ho già ipotizzato che questo momentaneo stop del calo sia dovuto alle emissioni di CO2 delle due importanti Large Igneous Provinces della fine del Devoniano (Piombino, 2017). Questo calo ha diminuito l’effetto – serra, provocando appunto l’inizio delle glaciazioni, mentre il tenore elevato di CO2 dell’inizio del Devoniano potrebbe essere la chiave del perché con una situazione paleogeografica sostanzialmente analoga non ci sinao tracce di evidenti di glaciazioni.
Sul raffreddamento pre-LIP e pre estinzioni di massa ci sono ancora poche ipotesi. La mia idea è che la fase principale dell’attività magmaticasia preceduta da una drammatica emissione di tufi, cioè che avvenga all’ennesima potenza quello che succede dopo una massicica eruzione esplosiva di un vulcano: le particelle coprono la Terra e bloccano la radiazione solare e se in una Terra “greenhouse” il calore latente è ancora piuttosto elevato e quindi non troviamo glaciazioni importanti, quando il tenore atmosferico di CO2 diminuisce il blocco della radiazione solare provoca un raffreddamento. Questo raffreddamento però si conclude molto presto perché, appena inizia l’attività effusiva, gli immensi quantitativi di CO2 da essa emessi provvedono a ristabilire l’effetto serra.
Insomma, una ennesima dimostrazione nel passato di quanto conti per le temperature globali il tenore atmosferico dei gas-serra.


Bless et al (1992) Eustatic cycles around the Devonian-Carboniferous boundary and the sedimentary and fossil record in Sauerland (Federal Republic of Germany). Annales de la Societe Geologique de Belgique, 115, 689-702

Davydov e Kozar (2017) The formation of the Alleghenian Isthmus triggered the Bashkirian glaciation: Constraints from warm-water benthic foraminifera Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology in press

Gess e Ahlberg (2018) A tetrapod fauna from within the Devonian Antarctic CircleScience 360, 1120–1124  

Hallam (1989) The case for sea-level change as a dominant causal factor in mass extinction of marine invertebrates. Philos. Trans. R. Soc. London, Ser. B 325, 437–455.

Katz et al (2011). Impact of Antarctic Circumpolar Current Development on Late Paleogene Ocean Structure, Science 332,1076–1079

Kumpan et al (2014) Sea-level and environmental changes around the Devonian–Carboniferous boundary in the Namur–Dinant Basin (S Belgium, NE France): A multi-proxy stratigraphic analysis of carbonate ramp archives and its use in regional and interregional correlations Sedimentary Geology 311,43-59

Lakin et al (2016) Greenhouse to icehouse: a biostratigraphic review of latest Devonian–Mississippian glaciations and their global effects Geological Society, London, Special Publications, 423, 439-464, 15 April 2016

Moxness et al (2018) Sedimentology of the mid-Carboniferous fill of the Olta paleovalley, eastern Paganzo Basin, Argentina: Implications for glaciation and controls on diachronous deglaciation in western Gondwana during the late Paleozoic Ice Age journal Of South American Earth Sciences 84, 127-148

Piombino (2016) The Heavy Links between Geological Events and Vascular Plants Evolution: A Brief Outline International Journal of Evolutionary Biology volume 2016, Article ID 9264357 http://dx.doi.org/10.1155/2016/9264357

Ricci et al (2013) New 40Ar/39Ar and K–Ar ages of the Viluy traps (Eastern Siberia): Further evidence for a relationship with the Frasnian–Famennian mass extinction Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology 386 (2013) 531–540 

Sepkoski (1996) Patterns of Phanerozoic extinction: A perspective from global databases. Global Events and Event Stratigraphy in the Phanerozoic, ed Walliser OH (Springer, Berlin), pp 35–51

Stanley (2016) Estimates of the magnitudes of major marine mass extinctions in earth history PNAS 113, E6325-E6334

Streel et al (2013) What do latest Famennian and Mississippian miospores from South American diamictites tell us? Palaeobiodiversity and Palaeoenvironments, 93, 299-316

L'estinzione di massa del Carbonifero medio: un evento di cui si parla poco e le sue cause: un'altra relazione fra un evento biotico e una Large Igneous Province?

$
0
0

Il Carbonifero è diviso in inferiore (Mississipiano) e superiore (Pennsylvaniano). Questo passaggio è contrassegnato da un evento di estinzione di massa piuttosto importante, almeno negli oceani, le cui cause sono dibattute. Quelle che vanno per la maggiore sono una correlazione con l'avvento delle graciazioni del Paleozoico superiore e la chiusura del passaggio fra Euramerica e Gondwana, nel quadro del loro scontro che ha provocato l'orogenesi ercinica (il termine Varisica proprio non riesco a usarlo...). In realtà un lavoro recententissimo, che appunto sostiene il punto di vista della chiusura del mare fra Euramerica e Gondwana come causa dell'estinzione, fa vedere che l'evento coincide con una escursione negativa del rapporto fra gli isotopi del carbonio, sintomo della messa in posto di una Large Igneous Province. Ma quale LIP è stata il killer del serpukhoviano terminale? Un ottimo candidato è rappresentato dagli estesi basalti che si sono messi in posto nell'odierna Cina nordoccidentale, nella catena del Tianshan.
  
La gravità della crisi della fine del Serpukhoviano
secondo vari Autori 
UNA ESTINZIONE DI MASSA IMPORTANTE MA POCO CONOSCIUTA. Il passaggio Serpukhoviano – Bashkiriano (d’ora in poi SBB, Serpukhovian – Bashkirian Border) è anche il passaggio fra Carbonifero inferiore (Mississipiano) e Carbonifero superiore (Pennsylvaniano); è stato riconosciuto da tempo che l’SBB corrisponde ad un evento di estinzione di massa. Non si tratta di una estinzione minore: già nel 1996 Sepkosky lo classificò al settimo posto fra le estinzioni di massa più importante, con una perdita di biodiversità negli invertebrati marini del 26,5% (Sepkoski, 1996); Stanley (2007) fornisce numeri simili, anche se un pò più leggeri, classificandolo all’ottavo posto, con una perdita di biodiversità del 24%. Più recentemente l’estinzione Serpukhoviana è stata invece innalzata al quinto posto assoluto (McGhee et al., 2012). Solo per Hallam e Vignall (1997) si tratterebbe di un evento di secondaria importanza.


La biodiversità a livello di genere nel Paleozoico superiore evidenzia l'importanza
della crisi alla fine del Serpukhoviano (da Davydov e Cozar, 2017) 
La crisi del Serpukhoviano ha colpito soprattutto i generi di invertebrati marini che vivevano a latitudini ristrette, mentre ha risparmiato maggiormente quelli caratterizzati da una distribuzione latitudinale più ampia (Powell, 2008); nessun’altra caratteristica ecologica, come l’ampiezza della nicchia, l’area di dispersione geografica, la ricchezza di specie di uno specifico genere, le dimensioni corporee o l'habitat più o meno vicino alla costa hanno avuto un ruolo importante; pertanto è palese che siano stati favoriti i generi con maggiore tolleranza alle variazioni di temperatura. Sulle terre emerse il Serpukhoviano corrisponde ad un minimo nella diversità degli anfibi (Dunne et al, 2018), a cui segue un suo forte innalzamento. Ma non ho capito quanto la cosa sia dovuta a una disparità nella disponibilità di fossili. In precedenza alcuni articoli hanno parlato di una riduzione della diversità degli anfibi verso l’SBB. C’è inoltre da stare un attimo attenti a non confondere l’SBB con il “collasso delle foreste pluviali che è avvenuto nel Carbonifero superiore, un po' più tardi dell'SSB.


L’ESTINZIONE ALLO SSB NON È STATA DETERMINATA DALL’AVVENTO DELLE GLACIAZIONI. Per molti Autori questo evento è attribuibile all’inizio dell'era glaciale del tardo paleozoico (più o meno come l’estinzione di fine Oligocene si colloca rispetto al ciclo glaciale che stiamo vivendo) e in effetti la questione della tolleranza alle variazioni di temperatura potrebbe esserne una conseguenza; però è anche stato stabilito che, dopo gli episodi temporanei fra fine Devoniano e inizio del Carbonifero di cui ho parlato nel post precedente, le tracce di una glaciazione permanente si collocano all’inizio del Serpukhoviano e non alla sua fine (Fielding et al, 2008), il che ci consente di rifiutare il nesso su base cronologica. 
Paleogeografia del Carbonifero medio con la collisione
fra Gondwana ed Euramerica (Larkin et al, 2016)
Le glaciazioni comunque potrebbero aver avuto un ruolo importante nel dopo – estinzione: normalmente alle estinzioni di massa segue un veloce recupero della biodiversità, con la rapida comparsa di faune totalmente nuove, mentre non vi è stato un significativo recupero della biodiversità negli ecosistemi marini in seguito alla crisi del SBB, dopo la quale sia i tassi di speciazione che quelli di estinzione sono rimasti insolitamente bassi per circa 50 MA (Stanley and Powell, 2003). Penso che proprio questo sia dovuto alle glaciazioni: ricordo che ancora adesso nelle aree tropicali abbiamo un numero maggiore di nicchie ecologiche rispetto alle alte latitudini e difatti ai tropici abbiamo tante specie con piccoli numeri mentre andando verso le alte latitudini diminuisce il numero delle specie ma aumenta il numero degli individui che vi appartengono. Non penso che un altro fattore determinante sia stato la presenza di sole due aree oceaniche, peraltro non troppo separate e cioè il grande oceano unico del Panthalassa e la più piccola Paleotetide, perché questa configurazione è durata ben oltre, fino al Giurassico. Invece giusto 50 milioni di anni dopo l’SBB inizia la fase che porterà alla fine delle glaciazioni.


UNA CAUSA PALEOGEOGRAFICA? Scartata l’ipotesi della glaciazione, altri autori puntano il dito sullo scontro tra i continenti di Euramerica e Gondwana, che in quel momento stava entrando nella parte finale, con la chiusura del passaggio oceanico che precedentemente li separava; in effetti secondo le ultime ricerche sulle faune oceaniche dell’epoca la chiusura del “corridoio rheico”, ultimo residuo di un oceano ben più vasto, sarebbe avvenuto proprio in corrispondenza del SBB (Davydoff e Cozar, 2017).


UNA LARGE IGNEOUS PROVINCE? Quella della chiusura del Corridoio Rheico è una coincidenza interessante, ma le cose potrebbero stare diversamente. Innanzitutto dobbiamo ricordare che non è detto che se due eventi si trovano uno dopo l’altro (o sono contemporanei), il secondo sia la conseguenza del primo.
E a questo punto sempre Davydov e Cozar fanno vedere un grafico piuttosto interessante che evidenzia una doppia escursione negativa del rapporto quantitativo fra gli isotopo 12 e 13 del Carbonio, il ∂13C: nel Serpukhoviano troviamo due diversi picchi distanti circa 5 milioni di anni, il primo nel Serpukhoviano superiore, il secondo proprio all’SBB. Quindi… abbiamo vinto a tombola!! Perchè?
Perchè normalmente questi picchi sono collegati con la messa in posto di una Large Igneous Provinces, e gli eventi di estinzione di massa sono normalmente collegati a Large Igneous Provinces. Ed è normale che una LIP si metta in posto in più impulsi (generalmente, sono tre di cui il secondo è il più forte).


Geochimica e cronostratigrafia nel Carbonifero medio: si notano le due escurioni negative
del ∂13C del Serpukhoviano, di cui la più importante è proprio prima dell' SBB
Da Davidov e Cozar, (2017)
La Large Igneous Province del Tianshan è uno dei più grandi eventi magmatici
in Asia dalla metà del Paleozoico ad oggi (immagine da Xia et al (2012)
QUALE LARGE IGNEOUS PROVINCE? A questo punto viene la ovvia domanda e cioè: in quel momento c'era una attività di Large Igneous Province in corso? La risposta è sì: nei dintorni del Tienshan, una delle catene montuose che si sono formate durante la chiusura dell’oceano Paleoasiatico per formare la enorme fascia orogenica dell’Asia centrale e la cui storia è ancora dibattuta (ne ho parlato qui). Subito dopo la chiusura dell’oceano paleoasiatico inizia una nuova serie di fenomeni magmatici: si tratta del “solito” magmatismo post-orogenico tipico della fase finale di molti scontri continente – continente, che troviamo per esempio nelle Alpi sia dopo l’orogenesi ercinica (ne ho parlato qui) e anche dopo quella alpina (Adamello), ma ne troviamo esempi praticamente dappertutto e in ogni tempo. Le prime fasi consistono in granodioriti della fine del Devoniano (Yin et al, 2017) e dell’inizIo del Carbonifero. Poi abbiamo la messa in posto di una successione di lave basaltiche dal chimismo tipicamente intraplacca (e quindi derivato da una risalita di materiale profondo dal mantello) e dallo spessore importante, in molte aree addirittura superiore ai 10 km sia nel Tenshan che nel bacino dello Junggar, situato a nord della catena (Xia et al, 2012).
La rapidità della messa in posto di questi basalti e il loro spessore sono tipici di una Large Igneous Province, e lo scenario di una relazioone fra queste eruzioni e l’estinzione di massa in concomitanza dell’SBB è, direi, piuttosto realistica, anche se le datazioni radiometriche non sono ancora perfettamente concordanti, sia pure nel range fra 335 e 325 milioni di anni. Su questa incertezza nella datazione bisogna ricordare che, come ho detto sopra, probabilmente anche questi basalti si sono messi in posto in più impulsi (i dati di Davydov e Cozar, appunto, ne suggeriscono due) ed è possibile che i campioni usati per le datazioni radiometriche facciano parte di più fasi dell’attività di questa LIP.
Per avere altre conferme della presenza di una LIP saranno comunque necessari altri studi, come per esempio una indagine su altre caratteristiche geochimiche dei sedimenti depositatisi in quel momento

Davydov e Cozar (2017) The formation of the Alleghenian Isthmus triggered the Bashkirian glaciation: Constraints from warm-water benthic foraminifera Palaeogeography, Palaeoclimatology, Palaeoecology in press

Dunne et al, 2018 Diversity change during the rise of tetrapods and the impact of the ‘Carboniferous rainforest collapse’
Proc. R. Soc. B 285: 20172730. http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2017.2730

Fielding et al 2008  The late Paleozoic ice age—A review of current understanding and synthesis of global climate patterns GSA special Paper 441, p. 343– 354

Hallam e Wignall (1997) mass extinctions and their aftermath Oxford University Press

Larkin et al (2016) Greenhouse to icehouse: a biostratigraphic review of latest Devonian–Mississippian glaciations and their global effects Geological Society, London, Special Publications, 423, 439-464 

McGhee et al 2012 Ecological ranking of Phanerozoic biodiversity crises: The Serpukhovian (early Carboniferous) crisis had a greater ecological impact than the end-Ordovician Geology 40, 147-150

Powell, 2008. Timing and selectivity of the late Mississippian mass extinction of brachiopod genera from the central Appalachian Basin. Palaios 23, 525–534.

Sepkoski (1996) Patterns of Phanerozoic extinction: A perspective from global databases. Global Events and Event Stratigraphy in the Phanerozoic, ed Walliser OH (Springer, Berlin), pp 35–51

Stanley, S.M., 2007. An analysis of the history of marine animal diversity. Paleobiology 33, 1–55.

Stanley e Powell, 2003. Depressed rates of origination and extinction during the
late Paleozoic ice age: a new state for global marine ecosystem. Geology 31, 877–880.

Yin et al 2017 Geochronology, petrogenesis, and tectonic significance of the latest Devonian–early Carboniferous I-type granites in the Central Tianshan, NW China Gondwana Research 47 (2017) 188–199

Xia et al (2012) Reassessment of petrogenesis of Carboniferous – Early Permian rift-related volcanic rocks in the Chinese Tianshan and its neighbouring areas Geoscience Frontiers doi:10.1016/j.gsf.2011.12.011


Risposta ad un lettore: abusivismo e costruzioni antisismiche

$
0
0

Dovevo delle risposte a diverse persone che mi hanno scritto in questi giorni nei commenti sul post sull’estinzione a metà del Carbonifero su argomenti piuttosto vari. Non sono abituato a nascondermi, ma in questo periodo ho davvero ben poco tempo per dedicarmi a Scienzeedintorni e pertanto non posso essere sempre “sul pezzo”. Qualche risposta più semplice l’ho data via via, ma su alcune questioni mi sono riservato un maggiore approfondimento. Nel ringraziare Giacomo Milazzo per il suo prezioso supporto nella discussione, questo post è una prima risposta dettagliata ad una delle varie questioni che mi sono state poste. 

edifici crollati dopo il terremoto ischitano
dell'agosto 2017 a Casamicciola 
Parliamo qui dal lettore ischitano che detenendo una casa dichiarata abusiva, mi scrive così:
La scienza avrà anche i suoi meriti, ma diventa insopportabile quando ricorre a metodi coercitivi. Lo Stato NON può e NON deve obbligare la gente a farsi vaccinare o a costruire casa secondo istruzioni cosiddette antisismiche. A casa mia decido io e soltanto io. Dovranno passare sul mio corpo prima di abbattere la mia casa di Ischia!!! Non vorrei offendere, ma voi geologi a volte siete uccelli del malaugurio…
A questo commento ho risposto in modo probabilmente un po' ruvido:
Intanto mi scuso se, come dicono a Campi Bisenzio, parlo francese, ma certi commenti scatenano il parigino che è in me.
Banalmente, la Scienza non è democratica. Nella Scienza si parla solo di DATI ottenuti in modo verificabile da altri ricercatori e comparsi in articoli in peer-review.
Cose che vanno contro lo "stato dell'arte della Scienza" senza ricerche significative o semplicemente citando post su social network o filmati su youtube sono semplicemente emerite cazzate. Comunque qui sono due questioni diverse.
I vaccini sono una cosa "pubblica" e il comportamento di uno stronzo idiota, irresponsabile e incompetente che grazie alle sue imbecilli convinzioni gioca sulla salute altrui non vaccinando i suoi figli può essere causa di problemi per un disgraziato che non si è potuto vaccinare. E quindi lo avrà sulla coscienza in caso di gravi problemi. Sono cazzi suoi ma badi che se venisse dimostrato che una persona è morta o ha avuto conseguenze gravi a causa di un comportamento deliberato del genere spero che Lei venga buttato in galera seduta stante
Invece se Lei non vuole deliberatamente una casa antisismica, succede un terremoto la casa crolla e lei ci lascia le penne, cazzi suoi. Un irresponsabile in meno sulla faccia della Terra. Mi dispiacerebbe invece un ricovero in ospedale, che costerebbe alla collettività
Ne è seguita una risposta, inevitabilmente piuttosto vivace:
Vabbè, ma che modi sono?!
La sua risposta è stata molto aggressiva.
Accetti il contraddittorio, non voglio imporle necessariamente le mie opinioni, ma pretendo perlomeno che la "COMUNITÀ SCIENTIFICA" ascolti il parere del POPOLO che le ricordo, caro signor Piombino, in DEMOCRAZIA è SOVRANO.
Allora, cercherò di spiegarmi meglio...
La scienza (e con essa il governo) NON può e NON deve imporre la vaccinazione obbligatoria di massa. I vaccini contengono metalli estremamente dannosi per l'organismo. Questi metalli possono danneggiare seriamente il cervello, provocare l'autismo, ecc. quindi la questione è molto seria!!! I vaccini fanno più male che bene, ecco. I medici (che quasi sempre sono al soldo delle multinazionali del farmaco) dicono: "I vaccini hanno debellato molte malattie ed hanno allungato la durata media della vita." Ebbene, NON è così!!! Se molte malattie sono quasi del tutto scomparse, se la vita umana si è allungata, il merito non è dei vaccini, ma del miglioramento delle condizioni igieniche. Non voglio leggere le riviste scientifiche "peer-review" che lei menziona di continuo, non le leggo perché ci capisco poco e sinceramente mi va bene così. Preferisco fare affidamento su quei ricercatori indipendenti che osano discostarsi dal pensiero unico imposto dalla "comunità scientifica".
Casa abusiva. Non faccio mistero del fatto che la mia casa qui a Ischia è stata dichiarata "abusiva" (termine ambiguo) da alcuni specialisti inviati, mi pare, dalla Regione Campania. Anche qui cercherò di essere chiaro: la casa me la sono costruita col SUDORE e col SANGUE. Non è vero che è stata costruita con materiali scadenti, questa è una bugia fatta circolare dal Comune perché vogliono farmi la multa. Non ci riusciranno. Come già scritto, dovranno sul mio cadavere prima di toccare anche un solo mattone della mia abitazione qui a Casamicciola. Sono venuto a scrivere qui perché voi geologi avete preso di mira la nostra isola, ma i fatti dicono tutt'altro:
- qui non si vedono eruzioni vulcaniche da moltissimi secoli, quindi il vulcano si sta spegnendo, se non è già spento
- non c'è bradisisma come invece ogni tanto c'è Pozzuoli
- non si registra la presenza di faglie importanti
- le fumarole sono quasi inesistenti
Giù le mani delle nostre case!!!
A parte che non è la Scienza a ricorrere a metodi coercitivi ma è la cosa Pubblica a mettere in pratica i suggerimenti della Scienza, questa uscita si potrebbe concettualmente inserire in una categoria molto comune oggidì, quella dell’esercizio arbitrario di presunte ragioni.
Perchè c’è molto di arbitrario, nel senso di atteggiamento che dipende dalla volontà e dall'arbitrio del singolo senza riferimento a legge o norma esteriore (in questo caso in spregio a qualsiasi riferimento scientifico), mentre le sue ragioni sono presunte, molto presunte e assolutamente assurde sempre per la totale antiscientificità. Nello specifico, ho proprio parlato dei danni dovuti alla cattiva edilizia a Ischia dopo il terremoto dell'agosto 2017

GEOLOGI E CASSANDRE. Siamo davanti ad un classico esempio dell’atteggiamento italico di mettere la testa sotto la sabbia e far finta di nulla, credendo che evitando di parlare dei rischi, questi non ci siano: non è portare male, e la superstizione non fa parte del bagaglio della Scienza: si tratta semplicemente, nel caso, di una banale considerazione e cioè che un edifico non è in grado di reggere alle accelerazioni cosismiche possibili nell’area in cui è costruito, oppure si trova a rischio frana o alluvione; lo scienziato o il tecnico con questa uscita non aumentano le probabilità di un disastro, ma cercano di far percepire il rischio a chi si trova lì e a chi deve prendere decisioni al riguardo.

POPOLO E DEMOCRAZIA. Eh, no… non ci siamo proprio. Non è possibile accettare un contraddittorio fra chi sostiene una cosa scientificamente corretta e chi no. Perché se si tratta di una discussione scientifica un atteggiamento non scientifico non ha la minima dignità e, in ogni caso, non può essere considerato pari a quello scientifico. In altre parole non è proponibile un confronto scientifico a pari fra un ricercatore e un DJ o una mamma informata…. Purtroppo nel giornalismo italico (e, peggio ancora, nei talk-show) questa banale buona pratica viene messa in atto raramente.
Il lettore dice che non vuole leggere le riviste in peer-review sui vaccini. Bene, lo capisco. Primo perché la maggior parte di queste sono a pagamento a meno di non disporre come nel mio caso degli abbonamenti della biblioteca universitaria. Ma non le leggo neanche io perché non ci capirei niente, non essendo a conoscenza specifica dell’argomento. Ed è su questo (e cioè informare i non specialisti) che dovrebbe agire la divulgazione scientifica. Ma lui preferisce i famosi ricercatori indipendenti e considera il punto di vista della Scienza pensiero unico (è curioso che questo termine venga agitato spesso da chi vuole imporre il suo punto di vista..... per esempio anche gli estremisti religiosi affermano di battersi contro il pensiero unico)
La Scienza, come ho spiegato già più volte, per esempio qui, non è una democrazia, ma una datocrazia: si può discutere filosoficamente se Dio esiste o no, si può essere di destra o di sinistra etc etc, ma sulla Scienza si discute solo ed esclusivamente in base ai dati. Cioè, non si discute di Scienza come su una partita di calcio e i pareri di chi è esperto sono più importanti (e da considerare ben più autorevoli) di quelli di uno che quell’argomento non lo ha studiato. E come ho fatto notare, anche nei consessi scientifici le decisioni “a maggioranza” vengono prese ESCLUSIVAMENTE quando si tratta di applicare delle convenzioni: ad esempio, l’Unione Astronomica Internazionale ha deciso che Plutone non è più un pianeta maggiore, ma un “pianeta nano”, riservando quindi solo ad 8 corpi celesti il termine “pianeta del sistema solare”. Bene, questa è appunto una convenzione ma non cambia niente dal punto di vista scientifico, perché, pianeta o pianeta nano che sia, Plutone rimane quello lì.. cioè… nessuno ha deciso a maggioranza i suoi parametri orbitali, né, venendo alla Geologia, non è stato deciso a maggioranza che il limite Cretaceo – Terziario è a circa 64,5 milioni di anni… 
Non è dunque una questione di pensiero unico, ma di evidenze scientifiche, le quali possono chiaramente essere discusse (il dubbio è la base della ricerca scientifica!), ma questo solo partendo dai dati, che – per carità! – possono anche essere discussi nel modo in cui sono ottenuti e/o usati, ma sempre in modo scientifico e non fuffico. 
Facendo un esempio pratico, anche se la volontà popolare fosse quella di finanziare i cosiddetti studi sul radon di Giuliani, siccome le sue macchinette magiche non misurano nulla se non rumore di fondo, è perfettamente inutile dal punto di vista scientifico dargli dei soldi per farlo, per cui non gli vanno dati.
E tifare quindi per i ricercatori indipendenti è come discutere al bar sport o credere al mago Otelma. 

QUESTIONE VACCINI: NON SONO AUTOREVOLE SU QUESTO E NON NE PARLO. Il mio parere in questo campo non conta, semplicemente perché non ho competenze specifiche sull’argomento e quindi evito di parlarne. Ci sono professionisti che studiano specificamente l’argomento e quindi il mio pensiero è: mi adeguo a quello che propongono loro. Anche su “La Scienza risponde” quando intervengo su argomenti del genere lo faccio solo su questioni di metodo, lasciando che su questioni di merito se ne occupino specificamente i miei colleghi dello staff che nella vita si occupano specificamente di tali questioni. Faccio solo presente che la questione dei metalli pesanti e del rapporto con l’autismo sono solo delle immonde bufale, messe in giro da gente interessata a far quattrini sulle spalle dei gonzi. Questo è dimostrato dalla letteratura scientifica che mi è stata riportata da persone competenti. Linko a questo proposito una delle varie discussioni sul tema nella nostra pagina Facebook La Scienza risponde.

EDILIZIA ANTISISMICA. Le vittime non le fa il terremoto, ma la cattiva edilizia. Non condivido assolutamente il discorso che uno sia libero di fare quello che gli pare, perché le conseguenze del singolo caso incidono sempre nel complesso dell’emergenza e del dopo.
Ovviamente non conosco questo caso particolare, tantomeno non essendo un ingegnere strutturale sarei in grado di giudicare il provvedimento in base al quale l’edificio sia stato giudicato non idoneo. Però, una casa contemporaneamente abusiva e non idonea è un insulto al buon senso, alla legge e a tutti coloro che, con sacrifici non diversi da quelli citati, hanno costruito o comprato una casa edificata in armonia con le normative. La legge va rispettata. Punto e basta.
L’abusivismo edilizio (con i condoni al suo seguito) rappresenta una delle massime vergogne nazionali e fonte di disastri costati miliardi di euro ai contribuenti. Fosse abusiva dunque, tutta la mia simpatia va a chi ne deciderà l’abbattimento.

La sabbia calda nella spiaggia dei Maronti:
dimostrazione dell'attività vulcanica in corso
IL CASO SPECIFICO DI ISCHIA DAL PUNTO DI VISTA GEOLOGICO E GEOFISICO. Dal punto di vista geologico, inoltre, leggo una serie di errori devastanti che non capisco se siano solo un effetto di mancanza di cognizioni in materia o un bias intepretativo dovuto alla voglia di dimostrare a tutti i costi le sue presunte ragioni. A questo proposito faccio una serie di osservazioni:

  • che il vulcano di Ischia sia spento perché “non si vedono eruzioni da tantissimi anni” (esattamente dal 1302) è una bestemmia vulcanologica. Ricordo incidentalmente che esattamente da quelle parti 2000 anni fa nessuno avesse capito di stare su un vulcano, proprio perché lo stesso era in quiescenza da parecchio tempo
  • l’attività fumarolica (per esempio ai Maronti) dimostra praticamente, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’attività vulcanica non è esaurita
  • insomma, usare il parametro di qualche secolo per dire che un vulcano non è più in attività è una follia… 
  • dopodichè… è proprio sicuro che non ci siano movimenti verticali nell’isola, anche se meno intensi che a Pozzuoli? Io sono sicuro del contrario, anche se questi movimenti sarebbero rilevabili solo tramite indagini satellitari e/o, forse, dall’evoluzione morfologica recente delle spiagge
  • faglie importanti”: bisogna chiedersi cosa voglia dire questo concetto. Se per faglia importante ne consideriamo una che possa produrre un evento sismico che per l’Italia si possa considerare “degno di nota” e quindi diciamo con M superiore a M 5.5, probabilmente Ischia è lontana dal focus principale di strutture del genere, e quindi al sicuro dagli effetti più sensibili dovuti ai grandi terremoti appenninici. Però quello che conta nella classificazione sismica non è la Magnitudo, bensì la massima accelerazione cosismica del terreno e a Ischia, essendo un vulcano attivo, i terremoti possono essere piuttosto superficiali, potendo provocare quindi un risentimento molto evidente che si traduce in un grado piuttosto elevato nella scala MCS (Mercalli – Cancani – Sieberg) anche in caso di M estremamente basse, come dimostrano gli eventi del 1883 e del... 2017 (di cui, come linkato all'inizio del post, me ne sono occupato qui)

Pertanto mi trova ampiamente d’accordo il provvedimento di classificare in zona 2 i comuni dell’isola, il che comporta l’obbligo per gli edifici di resistere ad una accelerazione cosismica di picco su terreno rigido compresa tra 0.15 e 0.25 g. Inoltre, particolari attenzioni devono essere posti sulla collocazione degli edifici in quanto molti suoli dell’isola si prestano a fenomeni di amplificazione superficiale delle onde sismiche.

corteo dei detentori di case abusive a Ischia
IN CONCLUSIONE. Se già costruire in modo abusivo è una cosa intollerabile, farlo senza considerare i criteri antisismici locali è completamente folle. Un suicidio potenziale che non può essere permesso in un Paese civile dotato di una comunità scientifica e tecnica molto preparata sull’argomento

PS: questo post è un esempio tipico della teoria della montagna di merda e cioè che qualcuno ci mette 2 minuti a scrivere delle bestialità e che un esperto ci mette una giornata intera a rispondere nel merito.
So benissimo che questo post non convincerà il lettore ischitano (anzi, se mi legge sarà ancora più incazzato di prima con il sottoscritto..), ma spero comunque che qualcun altro, in cerca di notizie in merito, leggendo il mio punto di vista e il suo, si convinca che il mio sia quello corretto

Dove è finita l'acqua che ha plasmato la superficie di Marte?

$
0
0

In questi giorni l’Agenzia Spaziale Italiana è alla ribalta della scena scientifica mondiale per la sua nuova, importante, scoperta di acqua liquida sotto la calotta polare del polo sud di Marte. Questa è una ottima occasione per parlare di come mai sia scomparsa l’acqua che ha avuto un grande ruolo nel plasmare la superficie del pianeta rosso miliardi di anni fa.

L'area osservata da Orosei et al (2018)
Mentre si teme la fine della ultradecennale missione del rover Opportunity, che dopo aver  scorrazzato per decine di km sulla impervia superficie del pianeta rosso, è attualmente in crisi per una tempesta di polvere che impedisce alle batterie solari di rifornire di energia il veicolo, l’Agenzia Spaziale Italiana ha annunciato la scoperta di un corpo di acqua liquida sotto i ghiacci del polo sud del Planum Australe. Dopo l’annuncio è arrivato anche il “regolare” articolo su una rivista scientifica importante, in questo caso Science (Orosei et al, 2018). Fino ad oggi c’erano forti sospetti sulla presenza di acqua liquida alla base delle calotte polari marziane (un po' come succede sotto la calotta antartica), ma nessuno fino ad oggi aveva potuto confermare la cosa. 
Faccio notare un particolare importante e cioè che questa fascia di acqua liquida non si trovi all’interno della crosta marziana, ma all’interno della calotta polare meridionale.

PLANUM AUSTRALE: UNA REGIONE SUPERFICIALMENTE NORMALE MA MOLTO PARTICOLARE AL DI SOTTO DELLA SUPERFICIE. L’osservazione è stata compiuta usando strumento montato su Mars Express, uno dei vari satelliti che stanno orbitando intorno a Marte: si tratta di MARSIS (Mars Advanced Radar for Subsurface and Ionosphere Sounding), un radar a bassa frequenza.  Planum Australe mostra delle caratteristiche superficiali banali: topograficamente piatta, ha una superficie formata soprattutto da ghiaccio di acqua contenente tra il 10 e il 20% di polvere, che durante gli inverni australi viene coperta da uno strato di circa 1 metro di ghiaccio secco (ghiaccio di CO2). Ma a questa semplicità superficiale corrisponde profonda più complessa: i profili radar raccolti da MARSIS in una fascia lunga 200 km tra maggio 2012 e dicembre 2015 della regione di Planum Australe hanno evidenziato delle superfici riflettenti sotto la superficie del pianeta all'interno di una zona ben definita di 20 chilometri, centrata a 193°E e 81°S,  circondata da aree molto meno riflettenti, a circa 1,5 km di profondità. Una riflessione forte come questa la produce solo l’interfaccia fra il ghiaccio e l’acqua o il ghiaccio e una zona ad alto contenuto di acqua, come sedimenti saturi in acqua o una salamoia. L'analisi quantitativa dei segnali radar mostra che questo corpo liquido è caratterizzato da un'elevata permittività dielettrica relativa (in parole povere, il materiale si polarizza molto bene), e questo valore non può che essere interpretato come un’area in cui ‘è acqua liquida. 
È quindi dimostrata la presenza di acqua liquida intrappolata sotto il ghiaccio dei depositi stratificati polari meridionali.

Il profilo prodotto da MARSIS da Orosei et al, 2018

CARATTERISTICHE DI QUESTA ACQUA. Anche se essendo in profondità ci sarà una certa pressione, il fatto che sia liquida ad una temperatura di – 70°C ci fa già intuire che non si tratti di acqua come quella che troviamo normalmente nelle falde acquifere terrestri sfruttate a scopi idropotabili, industriali o irrigui: la presenza di perclorati sulla superficie sovrastante è un forte indizio infatti che si tratti di una salamoia salina: notoriamente il sale viene usato per contrastare il ghiaccio in quanto diminuisce la temperatura di fusione dell’acqua. In particolare la presenza di perclorati di magnesio lo abbassa proprio a valori di poco inferiori ai -70°C supposti per questa massa.

Sedimenti lacustri fotografati dal rover Curiosity nel 2014
(credit: NASA)
MARTE E LA SUA ACQUA SUPERFICIALE. Che l’acqua sia stata in un lontano passato il maggiore attore della modellazione della superficie del Pianeta Rosso era cosa nota fin dalla missione del satellite Mariner 9 nel 1971 ed era stato ipotizzato da tanto tempo che Marte ne contenesse al suo interno; però per avere delle conferme ci sono voluti più di 20 anni: la presenza di ghiaccio d’acqua perenne sulla superficie marziana fu sancita definitivamente proprio nel polo sud del pianeta nel 2003 (Titus et al, 2003) e sempre nello stesso anno il radar del satellite Mars Odissey ha evidenziato la presenza di ghiaccio sotto la superficie. Sull’origine dell’acqua marziana il dibattito più o meno è simile a quello sull’acqua terrestre, e il tutto verte sul rapporto fra Deuterio e Idrogeno “normale”. Per alcuni autori l’acqua su Terra e Marte sarebbe quella contenuta nei planetesimi che hanno formato i pianeti di tipo terrestre (Raymond e Inzidoro, 2017) e quella arrivata con le meteoriti condritiche. Di fatto nelle meteoriti marziane cadute sulla Terra, le lave basaltiche che più ricordano il mantello marziano (le shergottiti) mostrano un rapporto Deuterio / Idrogeno simile a quello delle meteoriti condritiche (Usui et al, 2012). 
Questa “stranezza” (un mantello secco e acqua molto diffusa in superficie) fu chiaramente evidenziata già negli anni ‘80 del XX secolo (Carr et al, 1991). Qualche tempo fa parlando con un astronomo in margine ad un caffèscienza ho avuto una piacevole discussione con lui sul rapporto deuterio / idrogeno negli oceani terrestri e nelle comete. A me torna benissimo che l’acqua della superficie terrestre abbia per la stragrande parte una origine cometaria, proprio perché l’idrogeno degli oceani è più “leggero” di quello delle comete: sarebbe esattamente quello che mi aspetto da un’acqua che deriva da un liquido con il rapporto deuterio / idrogeno tipico delle comete che abbia subìto nella sua storia più cicli di discesa i profondità e successiva risalita: nella risalita le molecole di acqua che hanno il deuterio e il trizio, che sono più pesanti, al posto dell’idrogeno, fanno più fatica a risalire rispetto a quelle con l’idrogeno senza neutroni perché appunto sono più pesanti ed è per quello che nelle comete ci sono più deuterio e trizio che negli oceani terrestri. Sulla Terra è stato ipotizzato un valore del rapporto originario fra Deuterio ed Idrogeno nel mantello molto più basso di quello contenuto negli oceani (Hallis et al, 2015) e anche su Marte il rapporto fra Deuterio e Trizio del ghiaccio superficiale è molto diverso da quello del mantello, simile a quello delle meteoriti condritiche (Usui et al, 2017), ed è intermedio fra questo e quello della nota cometa 67P / Churyumov - Gerasimenko (Altwegg et al 2015).
L'evoluzione del rapporto Deuterio - Idrogeno su Marte che dimostra
la differenza fra le acque superficiali e quelle del mantello del pianeta

Il "paradosso del sole debole", da Sagan e Mullen (1972)
DOVE É ANDATA L’ACQUA DELLA SUPERFICIE MARZIANA? Ma la domanda che viene spontanea è perché una volta di acqua sulla superficie marziana ce n’era tanta e perché adesso non ce n’è più, se non un po' di ghiaccio. Detto che nell’atmosfera attuale il ghiaccio sublima e quindi da solido può solo diventare gassoso senza passare dallo stato liquido, uno dei problemi dell’acqua liquida nel passato profondo del Pianeta Rosso è lo stesso che c’è sulla Terra, il paradosso del Sole debole, evidenziato da Sagan e Mullen (1972), ne ho parlato qui: il Sole sta aumentando la potenza della sua radiazione perché nel suo nucleo aumenta la densità a causa della fusione degli atomi di idrogeno che formano atomi di elio. Per cui come evidenzia il grafico fino a circa 1 miliardo e mezzo di anni fa con l’atmosfera attuale la radiazione solare sarebbe stata troppo debole per permettere la presenza di oceani liquidi e la Terra sarebbe stata irrimediabilmente coperta dal ghiaccio. Invece la vita era già presente almeno 3.8 miliardi di anni fa, quando sicuramente esistevano già oceani liquidi. Sulla Terra il problema si risolve soprattutto grazie all’effetto – serra di una atmosfera primordiale che, ci sono molte indicazioni al riguardo, era essenzialmente formata da CO2 (qui ho parlato di come e perché è avvenuta la prima trasformazione dell’atmosfera terrestre) e da una maggiore capacità di assorbire il calore rispetto ad oggi per una maggiore estensione dei mari e per una minore copertura nuvolosa.
Su Marte il problema si risolve soprattutto con una pressione atmosferica molto maggiore, vicina a quella nostra attuale, che permetteva appunto la presenza di acqua liquida anziché la eventuale sublimazione del ghiaccio in vapore. 
Quindi l’acqua marziana sarebbe svanita nello spazio soprattutto a causa del rarefarsi dell’atmosfera perché la gravità marziana è troppo debole per trattenere i gas, specialmente in un’epoca di forte vento solare come è stato 3 miliardi di anni fa.
I gradienti geotermici su Marte
all'epoca degli oceani e adesso
e sulla Terra attuale 
Ma c’è un’altro processo per il quale l’acqua può essere scomparsa dalla superficie ed è proprio quello grazie al quale i radar hanno trovato acqua e ghiaccio in profondità: la fine del calore interno marziano. Come si vede da questo grafico la Terra ha un forte gradiente termico per cui – detta in maniera semplice e schematica – l'acqua che scende in profondità a poco a poco si riscalda, fino a quando dalla fase liquida passa alla fase gassosa e quindi tende a risalire nuovamente verso la superficie.

Marte è proprio l'esempio di un corpo freddo in cui la maggior parte dell'acqua superficiale, cessata la fase in cui il pianeta era sufficientemente caldo per farla risalire, è rimasta  nella crosta. 
Non è quindi un caso che gli strumenti a bordo di satelliti in orbita intorno al Pianeta rosso abbiano rilevato ingenti quantitativi di acqua all'interno del pianeta.  
Un indizio importante sul fatto che il raffreddamento sia alla base della scomparsa dell’acqua dalla superficie marziana è portato da una considerazione interessante: le linee di costa visibili attualmente non sono allo stesso livello. Questo può voler dire due cose: o non c’erano dei vasti oceani ma una serie di laghi di dimensioni anche importanti ma scollegati fra loro (Malin et al, 1999), oppure le differenze sono dovute a deformazioni posteriori alla formazione delle linee di costa. Queste variazioni nella topografia del litorale possono essere spiegate dalla deformazione causata dalla messa in posto di Tharsis, la grande regione vulcanica equatoriale dove troviamo fra gli altri l’enorme Olympus mons, la cui formazione per Citron et al (2018) è avvenuta quando gli oceani esistevano di già. Questa circostanza, che ribalta studi precedenti in cui la formazione di Tharsis è precedente agli oceani, implica che gli oceani su Marte si sono formati prima del previsto e indica un rapporto diretto fra declino del vulcanismo marziano e dei corpi d’acqua superficiali: in questa visione è proprio la diminuzione del gradiente termico ad aver provocato un forte disequilibrio fra l’acqua che penetrava all’interno del pianeta e quella che grazie al calore endogeno, ritornava in superficie.
  
Altwegg et al (2015) 67P/Churyumov-Gerasimenko, a Jupiter family comet with a high D/H ratio Science, 347, Issue 6220, 1261952
Carr et al (1991) Water on Mars Abstracts of the Lunar and Planetary Science Conference, volume 22, page 181,
Citron et al (2018) Timing of oceans on Mars from shoreline deformation Nature, 555, 643-646
Hallis et al (2015) Evidence for primordial water in Earth’s deep mantle Science 350,795-797
Malin & Edgett (1999) Oceans or seas in the Martian northern lowlands: high resolution imaging tests of proposed coastlines. Geophys. Res. Lett. 26, 3049–3052 
Michalski et al 2018 The Martian subsurface as a potential window into the origin of life Nature Geoscience doi: 10.1038/s41561-017-0015-2 
Orosei et al (2018) Radar evidence of subglacial liquid water on Mars Science 10.1126/science.aar7268 
Raymond and  Izidoro (2017) Origin of water in the inner Solar System: Planetesimals scattered inward during Jupiter and Saturn’s rapid gas accretion Icarus 297, 134–148 
Sagan e Mullen (1972) Earth and Mars: Evolution of Atmospheres and Surface Temperatures. Science 177, 52-56
Titus et al (2003) Exposed Water Ice Discovered near the South Pole of Mars Science 299, 1048-1051
Usui et al (2012) Origin of water and mantle–crust interactions on Mars inferred from hydrogen isotopes and volatile element abundances of olivine-hosted melt inclusions of primitive shergottites Earth and Planetary Science Letters 357-358 (2012) 119-129
Usui et al (2017) Hydrogen Isotopic Constraints on the Evolution of Surface and Subsurface Water on Mars NASA technical report JSC-CN-38706

I terremoti indonesiani degli ultimi giorni e i Back-Thrust: eventi sismici "fuori" dalla zona sismica più importante che borda a sud l'arcipelago della Sonda

$
0
0
   
I due eventi sismici importanti (specialmente il secondo) che hanno colpito l'isola di Lombok, in Indonesia, sono un ottimo pretesto per parlare di un tipo di strutture meno note rispetto ad altre che sono comuni negli orogeni, i backthrust: si tratta di grandi faglie a basso angolo che interessano la parte posteriore della catena, intendendo per parte anteriore quella sul lato dello scontro fra placche che genera una catena montuosa orogenica. I backthrust rappresentano un pericolo piuttosto grave per le popolazioni che vivono sul retro delle catene, come dimostrano questi terremoti e, per esempio, il grande terremoto del Sichuan del 2008.




DUE EVENTI SISMICI APPARENTEMENTE INCOERENTI. I forti terremoti di Lombok di questi ultimi giorni (M 6.4 del 28 luglio e M 6.9 del 5 agosto 2018) meritano una certa attenzione per il loro significato tettonico particolare. Notoriamente la costa meridionale dell’Indonesia è una delle aree più sismiche che ci sono al mondo e corrisponde al limite in cui la placca indoaustraliana scende sotto quella euroasiatica. Ne consegue una serie di terremoti i cui ipocentri diventano sempre più profondi verso nord perché la crosta della placca indoaustraliana, dove si originano, scende sempre più sotto nel mantello. Vediamo il tutto, ricavato grazie alla collocazione degli ipocentri dei terremoti e alla tomografia sismica come descritto nell’utilissimo Atlas of the Underworld.
I tensori USGS mostrano piani di faglia debolmente immergenti verso sud
Però i due eventi sismici a Lombok non sono coerenti con questo quadro.
Innanzitutto la profondità. Il primo è stato molto superficiale (poco più di 6 km); quella del secondo nelle prime ore era un po' incerta (le stime variavano da 6 a 40 km) e ancora adesso le fonti sono un pò discordanti. Prendo buoni i 32 km dichiarati dall'USGS. Già questo con il quadro generale torna poco, perché come si vede dalla carta ripresa da Goes et al (1997) sotto Lombok, evidenziata dal pallino rosso, la profondità della crosta indoaustraliana in subduzione è oltre 100 km, quindi molto al di sotto del necessario se questi eventi fossero legati direttamente alla crosta in subduzione.
In più i meccanismi focali presentano un thrust diretto verso sud, mentre il piano di faglia in un terremoto di thrust “ordinario” di quelle parti dovrebbe essere orientato verso nord (lo "spiegone"è più sotto). 
Quindi né profondità né orientamento del piano di faglia sono apparentemente coerenti con la collisione in corso.
Carta della profondità della subduzione indonesiana da Goes et al (1997):
gli eventi a Lombok dovrebbero essere profondi  almeno 80 km per essere legati a questa struttura



Kulali et al (2016): i forti terremoti della costa settentrionale
delle isole della Piccola sonda
LA SISMICITÀ DI FLORES. Per trovare una soluzione al dilemma esaminiamo, nella figura qui sopra, la sismicità a M superiore a 6 degli ultimi 40 anni con l’Iris Earthquake Browser: vediamo che da Est di Giava compare una fascia a sismicità superficiale (pallini viola) lungo la costa settentrionale delle isole della Piccola Sonda, mentre Giava è priva lungo la costa settentrionale di una attività sismica di tale livello.
La carta qui accanto, tratta invece da Kulali et al (2016 ) illustra i forti terremoti che hanno interessato la costa settentrionale dell'Indonesia dal 1815. Per cercare un cambiamento dal punto di vista geodinamico che possa essere in relazione con questa sequenza di eventi importanti bisogna andare più a sud, nella placca indoaustraliana: a ovest sotto l’Indonesia subduce la crosta dell’Oceano indiano e quindi siamo in una classica collisione oceano – continente. Ma ad est c’è il continente australiano e quindi lo scontro fra le placche diventa una collisione continente – continente. 

I BACK-THRUST. Nelle collisioni continente – continente è comune la presenza dei cosiddetti back-thrust, cioè delle faglie a basso angolo che si trovano dall’altra parte rispetto al fronte principale dell'arco che si forma nello scontro e che contioene tutte le succesisoni deformate dalla compresisone. I back-thrust hanno andamento opposto a quello dei thrust principali del fronte dell'arco. Li troviamo in tutti gli orogeni derivati da uno scontro continente – continente, da quelli più recenti come Himalaya, Caucaso e Pirenei (e anche sulle Alpi ma qui è una questione molto complessa), a quelli più antiche di oltre 2 miliardi di anni fa. Però troviamo back-thrust anche in diversi contesti di scontro oceano – continente, ad esempio Panama, Vanuatu, Caraibi settentrionali (Ten Brink et al, 2009) o Ande (Armijo et al,  2015).
Insomma, sia nel fronte della catena (cioè la parte antistante alla linea lungo la quale si scontrano le due placche), sia nel retro della catena, dove finisce, si formano dei sovrascorrimenti diretti verso l’interno della catena. Anche i back-thrust sono capaci di produrre forti terremoti: lo dimostrano questi ultimi eventi e negli ultimi decenni soprattutto il grande terremoto cinese Mw 7.9 del 2008 nel Sichuan è stato provocato proprio dallo scorrimento, sul margine del S fra Tibet e Cina della Longmenshan fault, che è un back-thrust in direzione opposta a quelli che bordano Tibet ed Himalaya sul lato indiano (Jia et al, 2012). 

GEODINAMICA DELL'INDONESIA E BACK-THRUST DI FLORES. Per capire bene il concetto di back-thrust, applichiamolo proprio all’Indonesia: 
  • i thrust principali, come quello del terremoto di Sumatra del 2003, sono faglie a basso angolo dirette verso nord, come verso nord si immerge nel mantello la crosta dell'Oceano Indiano
  • invece i terremoti di Lombok sono avvenuti su piani che si immergono debolmente verso sud e che fanno parte, come si vede da questa carta, del thrust di Flores, già noto in letteratura da decenni (esempio: McCaffrey e Nabelek, 1984) e che è un tipico back-thrust. Studi recenti hanno evidenziato che il thrust di Flores continua verso ovest fino a Lombok, in armonia con la sismicità (Zubaidah et al, 2014). 


Una bella sezione delle Ande in cui si veono i back-trhust
sul lato amazzonico da Armijo et al (2015)
PERCHÉ ESISTONO I BACK-THRUST. Fondamentalmente esistono perchè quando l'arco deformato  si comporta in modo relativamente rigido agisce come un blocco rigido, traferendo così lo stress compressivo nella regione esterna. Queste spinte si possono ripercuotere anche a grande distanza, come si vede adesso nell'Asia a nord della convergenza fra India ed Eurasia. Nelle collisioni continente - continente questo succede ancora di più perchè manca la zona oceanica in subduzione che "assorbe" la maggior parte del raccorciamento. Back-thrust ed altre deformazioni dietro l'arco si formano specialmente se nella zona di contatto fra le parti deformate e il retro-paese non deformato esistono delle precedenti discontinuità. Lo si vede ad esempio in Australia orientale, dove la  Koonenberry Fault, che tra Cambriano e Ordoviciano ha guidato la formazione di un bacino in estensione, nel Siluriano divenne al contrario un back-thrust durante una delle fasi della formazione dell’orogene della Tasmania (Mills et al, 1992). 
Venendo ai back-thrust attuali, quello coinvolto nel Sichuan è una struttura ereditata da eventi tettonici precedenti, nel caso l'orogenesi indosinica,  durante la quale alcuni blocchi crustali si sono fusi con la Cina meridionale nel Triassico (referenze in Jia et al 2010).
Numerosi modelli hanno cercato di fare il punto sulla situazione. In particolare si vede che la deformazione è asimmetrica e molto più ampia e diffusa nella zona frontale della catena in formazione che in quella posteriore (Vittell et al 1993).

In fondo una mia annotazione personale: sono convinto che in letteratura l’importanza dei back-thrust nelle catene fossili sia sovraconsiderata. Mi spiego: per esiste esistono e sono un aspetto molto interessante. Ma siccome si formano soprattutto nelle fasi più tardive dell’orogenesi, e quindi si sovraimpongono in parte alle vecchie strutture; per questo sono più visibili delle precedenti, come su una superficie sabbiosa impronte più recenti possono obliterare quelle più vecchie e rischiano così di essere considerate più importanti di quanto realmente sono.

Armijo et al (2015) Coupled tectonic evolution of Andean orogeny and global climate Earth-Science Reviews 143, 1–35
Goes et al (1997) The complex rupture process  of the 1996 deep Flores, Indonesia earthquake (Mw 7.9) from teleseismic P-waves Journal of Geophysical research 24, 1295-1298
Jia et al (2010) Structural model of 2008 Mw 7.9 Wenchuan earthquake in the rejuvenated Longmen Shan thrust belt, China Tectonophysics 491, 174–184
Kulali et al (2016) Crustal strain partitioning and the associated earthquake hazard in the eastern Sunda-Banda Arc Geophys. Res. Lett., 43, 1943–1949
McCaffrey e Nabelek 1984 the geometry of back arc thrusting along the eastern Sunda Arc (Indonesia): constraints from earthquake and gravity data Journal of Geophysical Research 89, 6171-6179, 
Mills et al 1992. Geological evolution of the Wonominta Block. Tectonophysics 214, 57–68 
ten Brink et al 2009 Bivergent thrust wedges surrounding oceanic island arcs: Insight from observations and sandbox models of the northeastern Caribbean plate GSA Bulletin 121, 1522–1536
Willett et al, 1993  Mechanical model for the tectonics of doubly vergent compressional orogens Geology, 21, 371-374 
Zubaidah et al, 2014 New insights into regional tectonics of the Sunda–Banda Arcs region from integrated magnetic and gravity modelling Journal of Asian Earth Sciences 80,172–184

Mamma neandertaliana e babbo denisovano: un altra eccezionale scoperta nella grotta di Denisova in Siberia

$
0
0


La scoperta che i vari gruppi umani recenti (gli uomini anatomicamente moderni a parte gli abitanti dell'Africa subsahariana, i neandertaliani e i denisovani) portano nel loro DNA nucleare le tracce di incroci reciproci è abbastanza recente e ha diverse implicazioni scientifiche (e, volendo, morali, visto che qualcuno non "crede" a questo per suoi motivi che esulano dalla Scienza). La notizia del momento è che è stato trovato per la prima volta un ibrido diretto fra un denisovano (a sua volta non proprio "puro"...) ed una neandertaliana. Ripercorro quindi in particolare la questione dei Denisovani e del loro patrimonio genetico: una popolazione ancora oscura che potrebbe addirittura risalire a Homo erectus e il cui areale poteva comprendere tutta l'Asia Orientale. Di fatto il materiale fossile recente disponibile mostra delle caratteristiche anatomiche particolari, ma tranne che nella grotta siberiana il suo stato di conservazione non è sufficiente per poterne esaminare il DNA.  


IL PARTICOLARE DNA DELLA SIBERIA MERIDIONALE. La grotta di Denisova, nei monti Altai (Siberria centromeridionale), è nota per la grande concentrazione di reperti umani che parlano di una frequentazione del sito tra 300 e 30 mila anni fa, da parte di esponenti di Homo neanderthalensis (nota 1). Nel 2010 fece molto scalpore la scoperta di una falange e un molare di circa 50.000 anni fa il cui DNA mitocondriale era diverso sia da quello neandertaliano che da quello di noi Uomini anatomicamente moderni (definizione migliore rispetto a sapiens) (Krause et al, 2010): ciò faceva supporre che gli antenati dei possossori di questi frammenti (i Denisovani appunto), si fossero separati dalla linea che ha portato successivamente agli Uomini anatomicamente moderni e ai Neandertaliani oltre 700.000 anni fa. Insomma, dopo la scoperta nel 2003 del piccolo uomo di Flores – la cui scomparsa avvenne comunque oltre 40.000 anni fa e non fino a 12.000 come supposto in precedenza (Sutikna et al, 2016) –  c’è una chiara testimonianza della presenza in tempi recenti di una quarta “genia” umana (nota 2).


Bisogna comunque notare che datazione della divergenza e riferimenti non erano particolarmente sicuri, perché il MtDNA si trasmette esclusivamente per linea materna e quindi è soggetto a mutazioni (che possono essere anche parecchio selettive, caso nel quale l’età della divergenza può essere molto sovrastimata) ma non a rimescolamenti e fornisce una storia piuttosto parziale. Pertanto mancava una conferma da parte del DNA nucleare, il cui studio era ancora in corso e i cui risultati, presentati qualche mese dopo (Reich et al, 2010), hanno fornito una storia completamente diversa: gli antenati degli Uomini anatomicamente moderni si sarebbero separati precocemente dagli antenati comuni di Denisovani e neandertaliani e nei denisoviani se il DNA mitocondriale è piuttosto caratteristico, quello nucleare presenta una forte componente di ibridazione con i neandertaliani. Queste conclusioni sono state confermate da lavori più recenti arrivate più recentemente (Sawyer et al. 2015), che hanno anche confermato la vicinanza genetica dei diversi reperti denisoviani.
Considerando più realistico lo scenario proposto dal DNA nucleare, per spiegare questa discrepanza furono proposte due ipotesi:

  • la linea del mtDNA risale ad un’altra linea di Homo di cui non abbiamo dati (magari un erectus)
  • la discordanza è il risultato di una deriva genetica che può aver permesso casualmente nei Denisovani la sopravvivenza di una linea divergente del mtDNA persa nei Neandertal e negli uomini anatomicamente moderni

La morfologia del molare con DNA denisoviano trovato nel 2008 dimostra che questa popolazione si distingue sia dagli uomini anatomicamente moderni che dai neandertaliani; in particolare i denisovani si sarebbero separati dalla linea dei neandertaliani prima che questi ultimi sviluppassero delle caratteristiche dentali specifiche, la cui apparizione data a circa 300.000 anni fa. 


Il DNA mitocondriale e quello nucleare
dei Denisovani sono apparentemente non coerenti
DNA DENISOVANO IN SPAGNA 400.000 ANNI PRIMA! Ancora più sorprendentemente, individui attribuibili a Homo Heidelbergensis con tratti ancestrali neandertaliani, vissuti a Sima de los Huesos, nella Spagna di NW 430.000 anni fa (Arsuaga et al 2014) mostravano anch’essi, quasi 400.000 anni prima dei reperti siberiani, un DNA mitocondriale più imparentato con i denisovani che con altri Homo (Mayer et al 2013). Anche in questo caso tempo dopo sono usciti i dati sul DNA nucleare, che mostrava una maggiore affinità neandertaliana che denisovana (Mayer et al, 2016).
Per spiegare l’affinità denisoviana del DNA mitocondriale spagnolo antico sono state avanzate diverse ipotesi:
  • una ibridazione Neandertal – Denisova precoce
  • un segnale antico, forse addirittura risalente, appunto, a Homo erectus, ereditato dagli antenati comuni di Uomini anatomicamente moderni e neandertal, ma successivamente perso da entrambi (cosa che con il DNA mitocondriale, che si trasmette solo in linea femminile, non è poi così difficile)
  • due linee del DNA mitocondriale profondamente divergenti (mtDNA) coesistevano nella popolazione spagnola, delle quali una ha caratterizzato in seguito solo i denisovani perché nei neandertal si è estinta 
  • un flusso genico da un'altra popolazione di ominidi non neandertaliani ha portato il mtDNA simile a Denisova in questa popolazione o nei suoi antenati. Quest'ultimo scenario implicherebbe la coesistenza in Europa di due distinte popolazioni prima di quel periodo, un'interpretazione che non è contraddetta dalle prove fossili
C’è anche da chiedersi poi se gli abitanti di Sima de los Huesos abbiano lasciato discendenti: tra questi e gli ultimi neandertal c’è una importante fase glaciale in mezzo, in cui le popolazioni europee si sono trovate a mal partito, anche se sembra che l’area cantabrica sia stata abitata anche durante questo periodo. Come vedremo c'è anche la possibilità che i neandertaliani recenti rappresentino una migrazione successiva in Europa che ha sostituito gli abitanti precedenti.


Un possibile scenario della geografia umana di 50.000 anni fa 
CLIMA, AMBIENTE E POPOLAZIONI NELL'ASIA DI 50.000 ANNI FA. Sempre parlando del clima e tornando all’epoca dei reperti denisovani, dobbiamo notare che circa 50.000 anni si colloca il momento a massima temperatura della fase interglaciale, grazie a cui i gruppi umani potevano spingersi molto a nord e riconquistare regioni dal clima sensibilmente più ospitale dei tempi precedenti, perse durante la fase glaciale rissiana, il cui culmine è tra 140.000 e 120.000 anni fa, quando l’areale umano in Eurasia era stato sensibilmente ridotto, come è successo 20.000 anni fa durante l’ultimo massimo glaciale.
I neandertaliani di quel periodo, che occupavano Europa e Asia settentrionale, almeno fino alla Siberia centrale, mostrano una scarsa variabilità genetica a causa di un forte ridimensionamento della popolazione avvenuto tempo prima e di cui, appunto, la fase glaciale Rissiana è una causa realistica. E questa fase può aver anche inciso notevolmente sulla dinamica genetica dei Denisovani.
Gli uomini anantomicamente moderni oltre all’Africa occupavano parte dell’Asia sudoccidentale, mentre non è molto chiaro come fosse la situazione in Asia orientale: è possibile che fosse abitata proprio dai denisovani e che questi fossero discendenti di Homo erectus. Erectus dovrebbe essere vissuto lì almeno fino a 150.000 anni fa e di fatto i reperti fossili mostrano una certa ibridazione fra l’uomo anatomicamente moderno e una popolazione arcaica e di questi alcuni sono estremamente recenti, perchè datano addirittura a meno di 15.000 anni fa (Curnoe et al, 2015): questa popolazione arcaica potrebbe proprio essere rappresentata dai denisovani, ma purtroppo a quanto mi risulta non è mai stato possibile estrarre il DNA a causa del cattivo stato di conservazione del materiale.  


I DENISOVANI NELL'UMANITÁ ATTUALE. La scoperta dei Denisovani è stata seguita da studi che hanno indicato degli aspetti sorprendenti del genoma umano contemporaneo.
Praticamente in contemporanea alle scoperte di Denisova era uscito un lavoro in cui veniva dimostrato che l’umanità fuori dall’Africa subsahariana (quindi in Africa settentrionale, Europa, Asia, Oceania ed Americhe) possiede una certa percentuale di geni neandertaliani (Green et al, 2010): questa ibridazione è avvenuta prima della differenziazione degli euroasiatici, perché è comune dappertutto fuori dall’Africa, anche se è leggermente più elevata in Asia che in Europa; si tratta in genere di percentuali molto ridotte (1-3%), che comunque dimostrano una certa ibridazione e ancora di ibridi diretti sapiens – neandertal che io sappia non se ne sono ancora trovati: Il “più ibrido” che conosco è un sapiens in Romania di circa 40.000 anni fa che ha un antenato neandertaliano tra la sesta e l’ottava generazione (Fu et al, 2015). Diciamo che in qualche modo gli incroci diretti non hanno avuto un grande successo riproduttivo; il perché non è ancora chiaro, anche se secondo una buona parte degli Autori alla base ci sarebbe una scarsa fertilità di questi individui (esempio: Sankararaman et al 2016). Peraltro, specularmente, anche i neandertal mostrano segni di ibridazione con i sapiens (Kuhlwilm et al, 2016)
I denisovani non condividono con i neandertaliani quella parte del genoma Neander che è finita nel patrimonio genetico degli euro-asiatici, come era logico aspettarsi visto che la separazione fra queste due popolazioni è anteriore all'ibridazione neandertal –  uomo anatomicamente moderno avvenuta in Medio Oriente. È però evidente che parti del genoma denisovano sono diffuse nelle popolazioni attuali dell’Asia sudorientale insulare e dell’Oceania in misura variabile fra 1 e 4 %, segno di una ibridazione dell’uomo anatomicamente moderno anche con gli appartenenti a questa stirpe. Non solo, ma la diffusione capillare di questi segnali evidenzia che il flusso genico denisovano era presente negli antenati comuni delle popolazioni autoctone di Nuova Guinea, Australia e Melanesia (non dei polinesiani, che sono molto diversi dai loro vicini). Ultimamente è stato notata addirittura, la presenza di almeno due ibridazioni diverse (Browning et al 2018). Di fatto è proprio questa componente denisovana che distingue queste popolazioni dagli austronesiani, Asiatici continentali arrivati nelle isole non più di 4.000 anni fa. Insomma, il segnale denisovano esiste ancora oggi ma non nell’Asia continentale, nè nelle migrazioni più recenti dal continente (Indonesia, Filippine e Polinesia).


il quadro delle ibridazioni attualmente riconosciute
fra i gruppi umani recenti
L'IBRIDO APPENA INDIVIDUATO E LE PROSPETTIVE SCIENTIFICHE. In questi giorni è uscita una ricerca in cui un frammento osseo di Denisova, denominato Denisova 11, datato a circa 50.000 anni fa (Brown et al, 2016), si è dimostrato appartenente ad un individuo ibrido che più ibrido non si può: il padre era un denisovano, ma con un DNA nucleare dalle evidenti tracce di Neandertal (e fin qui, insomma, la cosa è abbastanza normale). La madre era invece, decisamente, una neandertaliana. E, tanto per complicare il quadro, la sua genetica è tipica dei neandertaliani europei più recenti che di quelli asiatici dell’epoca. 
È chiaro che una rondine non fa primavera e quindi da un singolo individuo non si può arrivare ad una regola generale, ma la presenza di questo DNA neandertaliano europeo può voler dire due cose: o all’epoca nelle popolazioni neandertaliane alcuni individui si muovevano molto velocemente, oppure tra 50 e 40 mila anni fa c’è stata una massiccia migrazione di neandertaliani asiatici verso l’Europa. 
Anche se è oramai evidente che uomini anatomicamente moderni  euroasiatici, neandertaliani e denisovani si siano abbondantemente e ripetutamente mescolati fra loro, è la prima volta che viene scoperto un ibrido di prima generazione. 

Note:
(1) la “h” di Neanderthalensis: una variazione introdotta nella grafia tedesca ha tolto la “h” dal termine “thal” (valle). Ma siccome questa variazione è intervenuta dopo che i resti sono stati classificati con la classificazione binomiale, che non può cambiare nome, si parla di “neandertaliani” con la nuova grafia ma dal punto di vista tassonomico rimane valida “Homo neanderthalensis

(2) ricordo che parlo di “gruppi” o “popolazioni” e non di specie diverse perché, come ho spiegato qui, tra chi parla di poche “specie” (considerando tutte le varie denominazioni per “comodità” senza dare loro un significato classificativo assoluto) e chi parla di tante specie nel corso dell’evoluzione umana io sono parecchio estremista: da Australopithecus ad oggi un’unica cronospecie.
  
Arsuaga et al (2014) Neandertal roots: Cranial and chronological evidence from Sima de los Huesos Science, 344, 1358-1363

Brown  et al (2016) Identification of a new hominin bone from Denisova Cave, Siberia using collagen fingerprinting and mitochondrial DNA analysis Sci. Rep. 6, 23559 (2016). 

Browning et al (2018) Analysis of Human Sequence Data Reveals Two Pulses of Archaic Denisovan Admixture  Cell 173, 1–9 

Curnoe et al (2015)  A Hominin Femur with Archaic Affinities from the Late Pleistocene of Southwest China. PLoS ONE 10(12): e0143332. doi:10.1371/journal. pone.0143332 

Fu et al (2015) An early modern human from Romania with a recent Neanderthal ancestor Nature 524, 216-219

Green et al (2010) A draft sequence of the Neandertal genome Science 328, 710–722

Krause, J. et al. (2010) The complete mitochondrial DNA genome of an unknown hominin from southern Siberia Nature 464, 894–897 

Kuhlwilm et al (2016) Ancient gene flow from early modern humans into Eastern Neanderthals Nature 530, 429-433

Meyer et al (2013) A mitochondrial genome sequence of a hominin from Sima de los Huesos Nature 505, 403–406 

Meyer et al (2016) Nuclear DNA sequences from the Middle Pleistocene Sima de los Huesos hominins Nature 531, 504-507   

Reich et al (2010) Genetic history of an archaic hominin group from Denisova Cave in Siberia Nature 468, 1053-1060

Reich et al (2011) Denisova Admixture and the First Modern Human Dispersals into Southeast Asia and Oceania The American Journal of Human Genetics 89, 516–528, 

Saywer et al (2015) Nuclear and mitochondrial DNA sequences from two Denisovan individuals PNAS 112, 15696-16000

Sankararaman et al (2016) The Combined Landscape of Denisovan and Neanderthal Ancestry in Present-Day Humans Current Biology 26, 1241–1247 

Sutikna et al (2016). Revised stratigraphy and chronology for Homo floresiensis at Liang Bua in Indonesia Nature, 532, 366-368

Tra Annapurna ed Everest, una ferrovia sul tetto del Mondo

$
0
0

Notoriamente sono un appassionato di ferrovie e della geologia dell’Himalaya. Non potevo quindi non parlare del progetto cinese di costruire una ferrovia fra Tibet e Nepal attraverso il tetto del mondo. Non è una cosa facile ma i cinesi sono sicuramente in grado di cimentarsi in questa ciclopica impresa: 350 km di cui 300 a oltre 4000 metri di altezza, in zone desertiche o quasi e ponti di altezza fuori dal comune, che dovrebbe avere la sua conclusione entro il 2022.

la Araniko highway e la  Pasang - Lhamu road
(Xu et al, 2018)
I TRAFFICI TRA I DUE VERSANTI DELL’HIMALAYA. Il Nepal è una piccola nazione stretta fra due giganti come India e Cina. La Cina sta tentando una penetrazione nel Nepal, tradizionalmente più legato all’India, anche per motivi geografici, e fra i due Paesi ci sono in corso tutta una serie di accordi commerciali; inoltre i cinesi hanno svolto un ruolo importante nella ricostruzione delle strade dopo il terremoto del 2015. Ma logisticamente parlando questi rapporti sono particolarmente difficili, perché fra questi due Paesi ci sono delle montagne (e che montagne… il Tibet e l’Himalaya!).
Fondamentalmente le strade tra Cina e Tibet sono due: una arriva a Kathmandu da Est, passando dal “Ponte della Pace” tra la località cinese di Zhangmu e quella tibetana di Kodari. In Cina è la strada nazionale 318, che parte da Shangai e arriva al confine con il Nepal 800 km dopo Lhasa; dal confine prende il nome di Araniko Highway, giungendo dopo poco più di 100 km a Kathmandu. La seconda strada, la Pasang – Lhamu, è stata inaugurata nel 2014: seguendo il corso del fiume Trishuli, uno dei diversi affluenti del Gange che attraversano la catena himalayana, parte dalla città tibetana di Gyrong, passa la frontiera presso Rasuwagadhi, alla Gyirong Port (aperta agli stranieri nel 2017), e giunge a Kathmandu da ovest. Entrambi gli itinerari sono stati pesantemente interessati dal terremoto M 7.8 del 25 aprile 2015, essenzialmente a causa delle frane; ne sono avvenute decine nell’immediatezza dell’evento, e purtroppo da quel momento ne è aumentata drasticamente la frequenza, come del resto è accaduto – e accade tutt’ora – in tutta l’area interessata da quel drammatico sisma, a causa della instabilità dei versanti che ne è conseguita (Xu et al, 2018). 

Per cui se la viabilità era già ostacolata “tradizionalmente” dal rischio – frana la situazione da quel momento è divenuta estremamente critica, specialmente nella stagione delle piogge. La Araniko, dopo una serie di pesanti interventi finanziati in larga parte dal governo cinese risulta ancora chiusa al ponte di confine fra Nepal e Tibet e di conseguenza il poco traffico stradale è attualmente assicurato dalla Pasang – Lhamu: secondo l’Himalayan Times non arriva a 100 container al giorno e per percorrere i 145 km dalla “porta di Gyirong" a Kathmandu ci vogliono non meno di 8 ore, fatte salve le interruzioni per frane o incidenti.


UNA ALTERNATIVA FERROVIARIA. Insomma… non è che fra Cina e Nepal la via stradale sia particolarmente appetibile… un itinerario molto difficile e dalle capacità molto ridotte, attraverso strade in cattive condizioni, vicine alla saturazione ed estremamente vulnerabili soprattutto nella stagione delle piogge a frane ed altri eventi geologici.
Il governo di Pechino sta promuovendo una alternativa ferroviaria al traffico marittimo con l’Europa, con la nuova Via della Seta, un sistema ferroviario che collega scali cinesi con scali europei – Italia compresa – e che ha già iniziato la sua attività e qualche anno fa si è fatta strada anche l’idea di una ferrovia transhimalayana per mettere in collegamento il Tibet con la capitale nepalese Kathmandu. Il Tibet è raggiungibile con il treno dal 2006, da quando è stata ultimata la costruzione della ferrovia che viene da nord (Golmud) e che attraversa il Qinghai (approssimativamente l’altopiano a nord della valle del Brahamputra); una ferrovia da record, con i binari più alti del mondo ai 5050 metri del passo Tanggula; nel 2014 la linea è stata prolungata da Lhasa verso ovest di altri 280 km, raggiungendo la città di Xigaze. Ci sono altri progetti in corso per le ferrovie tibetane: in costruzione c’è una linea che collega direttamente la Lhasa - Golmud verso ovest, verso il Sichuan e in progetto c’è, addirittura, una ferrovia per collegare il Tibet con la zona più occidentale della Cina, il bacino del Tarim.
Non pochi contestano questi progetti: sia il Tibet che il Tarim hanno una popolazione locale che non è e non si sente cinese (il caso del Tibet è ben più noto del Tarim) e la paura è sempre che le ferrovie servano soprattutto per una colonizzazione del territorio da parte dell’etnia cinese preponderante, gli Han
Xigaze nelle intenzioni di Pechino è dunque una tappa intermedia per raggiungere altre aree ben più lontane, come Gyirong, dove inizierebbe il tratto transhimalayano propriamente detto.
Un lavoro appena uscito mette in luce sia le caratteristiche tecniche che quelle geologiche dell’impresa (Shi et al, 2018). Da notare che questo articolo parla del tratto fra Tingri, Gyrong e Kathmandu, ma anche la tratta Xigaze – Tingri è in progetto e, molto diplomaticamente, parla nell’introduzione soprattutto dei traffici fra Cina e India (nonostante le tradizionali frizioni politiche, l’India è uno dei principali partner commerciali della Cina). Siccome la stragrande maggioranza delle merci si muove per mare, una via lenta e vulnerabile specialmente nella stagione dei tifoni, evitando di accennare alle mire di espansione di Pechino nella piccola nazione himalayana.

L'itinerario, da Shi et al, 2018
CARATTERISTICHE DELL’ITINERARIO. L’itinerario previsto è stato disegnato il più vicino possibile alle strade esistenti per motivi logistici e per servire i pochi centri abitati della zona ed è diviso in 5 sezioni.
1. Da Tingrì, città a circa 4100 metri di altezza, segue la strada nazionale 318 per un centinaio di km per la ampia (tra 2 e 6 km di larghezza) valle del fiume Pum Qu. Sembra una cosa semplice ma i problemi non mancano, sia dal punto di vista logistico (non è il “nulla assoluto” ma insomma non è facile reperire i beni necessari per i lavori e per la manodopera) che da quello geologico: è una zona con vegetazione scarsisssima, per cui il rischio di frane e flussi detritici è alto, mentre il fiume tende a erodere le rive sulle quali la ferrovia dovrebbe essere impostata; per questo sono raccomandate tutta una serie di operazioni per stabilizzare il terreno e agevolare il drenaggio, soprattutto dove l’itinerario si sviluppa sulle conoidi formate dagli affluenti del Pum Qu
2. Al km 98 e per 30 km la valle si stringe drasticamente e il fondovalle è considerato molto rischioso. In questo tratto sono previsti diversi ponti e gallerie, ma tutti di ridotta lunghezza 
Geologia dell'Himalaya da Carosi et al (2018) e l'itinerario
3. Siamo a Xiamude, dove l’itinerario lascia la strada 318 e inizia la strada regionale 214, che, siccome porta a Gyirong, rappresenta l’inizio dell’itinerario Pasang – Lhamu, che più o meno viene seguito anche dalla ferrovia. La valle si allarga nuovamente e ci sono gli stessi problemi del tratto iniziale
4. Poi c’è da valicare la catena dello Xixiabangma, un allineamento montuoso trasversale all’Himalaya, un assaggio di quello che verrà dopo. La strada 214 lo affronta con una serie di tornanti, cosa che ovviamente la ferrovia non può fare: infatti il progetto prevede un tunnel di quasi 20 km, che arriva molto vicino alla sede successiva di tappa, Gyjrong. In questa zona ci sono arenarie e calcari appartenenti alla Himalaya tedidea e la direzione della galleria sarà guidata anche dalle direzioni delle strutture geologiche esistenti (pieghe e faglie). Le serie dell’Himalaya Tetidea sono sedimenti deposti sul margine continentale dell’India (Torsvik et al, 2009) sull’oceano che è stato chiuso dalla successiva collisione  con l’Asia avvenuta nel Terziario inferiore e di cui ho parlato molto spesso. La sedimentazione è iniziata nel Paleozoico inferiore ed è continuata praticamente fino alla chiusura dell’oceano (Cai et al, 2015)
Il confine stradale Cina - Nepal alla Gyirong Port.
sulla strada tra Gyirong e Kathmandu
5. Finalmente, 215 km dopo Tingrì siamo a Gyirong, dover inizia il tratto propriamente transhimalayano. Da Gyirong a Katmandu in linea d’aria ci sono appena 130 km e 2800 metri di dislivello, che, sempre in linea d’aria, farebbero 22 mm/metro, una pendenza discreta per una ferrovia ma non impossibile. La linea segue la valle dello Gyirong Zangbo, che si getta nel Trishuli a meno di 30 km a valle della città. Da qui segue il corso di questo fiume. La valle è molto, molto stretta (e, appunto, franosa) e quindi nell’itinerario tra Gilong e Kathmandu sono previste una serie di gallerie, di cui le più lunghe di 20, 10, 8 e 7 km, tutte comprese fra i km 223 e 355. 
Un altro aspetto che colpisce sono i ponti: dei 9 principali 6 di lunghezza superiore al km. Ma quello che colpisce è la loro altezza: nel tratto propriamente transhimalayano il più basso di questi sarà alto 230 metri, gli altri tra 290 e 320 metri. Il più ardito è lungo 3200 metri e alto 320. Cifre da capogiro nel pieno senso della parola... Per dare un’idea il tristemente noto Viadotto del Polcevera crollato questo agosto era lungo 1180 metri e alto 90
Soprattutto, rispetto al tunnel dello Xixiabangma cambiano le condizioni geologiche: alle serie sedimentarie dell’Himalaya tetidea si sostituiscono le rocce cristalline della Grande Himalaya: si tratta di rocce ad alto grado metamorfico che evidenziano un seppellimento ed un riscaldamento fra 45 e 25 milioni di anni fa. Ad esse si accompagnano delle rocce magmatiche intrusive del Miocene inferiore, messe in posto poco dopo la fine del metamorfismo. Precedentemente ritenute una unica unità tettonica di grandi dimensioni, oggi le serie della Grande Himalaya considerata un insieme di più unità dalla storia e dalla tempistica metamorfica e tettonica differenti (Carosi et al, 2018), Data l’area, inoltre, è evidente che non solo il tratto trans-himalayano, ma tutta la linea debba essere costruita con stringenti criteri antisismici, in quanto le accelerazioni cosismiche possibili sono tipiche del VIII – IX grado in quasi tutto il percorso (Rahman et al, 2018)

Da queste immagini si capisce il rischio di frane
anche in caso dei pendii non ripidi delle sezioni 1 e 3
CARATTERISTICHE FERROVIARIE DELLA LINEA. Dal punto di vista tecnico generale si tratta di una ferrovia a binario singolo, con velocità massima di 120 km/h, che viene ridotta a 80 km/h nel tratto in cui il tracciato è costruita sul permafrost. È evidente come queste caratteristiche appaiano non eccezionali dal punto di vista “europeo”, ma la linea è pensata essenzialmente per le merci, per le quali rispetto al collegamento stradale attuale si tratterebbe di un deciso miglioramento.
Queste velocità sono consentite da curve di raggio non inferiore a 300 metri e da una pendenza media di 15 mm/metro. Sono comunque previste livellette isolate da 35 mm/m.
La lunghezza delle gallerie consiglia la trazione elettrica, mentre la ferrovia che arriva dalla Cina a Xigaze è a trazione diesel (a causa dell’altitudine queste locomotive hanno degli accorgimenti tecnici particolari), perché nel tratto non elettrificato, da Golmud a Lhasa, c’è solo una galleria di circa 10 km su un totale di 1100, che quindi da sola non giustifica l’elettrificazione.
Questo giustifica in pieno la velocità ammessa: ci sono due filosofie di fare treni merci: negli USA e in Australia, ma anche in Russia e Cina si usa in genere la trazione diesel, che permette di fare treni un po' lenti, ma estremamente lunghi, perché puoi mettere tutte le locomotive che vuoi. Con la trazione elettrica è diverso: come a casa nostra il contatore della corrente scatta se mettiamo in funzione contemporaneamente troppi apparecchi anche la trazione elettrica in ferrovia ha l’inconveniente che le locomotive in una determinata tratta non possono assorbire più corrente di una valore limite; di conseguenza il loro numero è limitato. Però in Europa, dove i convogli merci sono più corti, la capacità di trasporto è assicurata dalla maggiore velocità e il valore di 120 km/h giustifica la trazione elettrica, usando la velocità per aumentare le potenzialità della linea.

IL NEPAL E LE FERROVIE: LAVORI IN CORSO. Ho scritto che l’obbiettivo primario non è collegare Cina e India, ma Cina e Nepal. E l’India, che conosce le mire espansionistiche di Pechino, ne è consapevole, tanto è vero che ha già in costruzione alcune linee per collegarsi con il Nepal, a scartamento indiano (quindi 1676 mm contro quello ordinario di 1435 mm che è anche quello cinese) e proprio in questi giorni ha proposto la costruzione di una ulteriore linea che da Raxaul, cittadina indiana di confine, raggiungerà Kathmandu. Le due città sono abbastanza vicine in linea d’aria (90 km), ma fra loro ci sono ben 1300 metri di dislivello
Insomma, in pochi anni la capitale nepalese potrebbe essere raggiunta da ben due linee ferroviarie internazionali, mentre la compagnia ferroviaria di stato sta pianificando una linea nazionale che serva tutto il Paese da est a ovest.

Cai et al 2011 Provenance analysis of upper Cretaceous strata in the Tethys Himalaya, southern Tibet: Implications for timing of India–Asia collision Earth and Planetary Science Letters 305, 195–206

Carosi et al, 2018 Structural evolution, metamorphism and melting in the Greater Himalayan Sequence in central-western Nepal in: Treloar  & Searle (eds) Himalayan Tectonics: A Modern Synthesis. Geological Society, London, Special Publications, 483,

Rahman et al (2018) Probabilistic Seismic Hazard Assessment for Himalayan–Tibetan Region from Historical and Instrumental Earthquake Catalogs Pure Appl. Geophys. 175 , 685–705

Shi et al, 2018 Engineering geology of cross-Himalayan railway alignment and its preliminary design Journal of Nepal Geological Society, 2018, vol. 56, pp. 49–54

Torsvik et al (2009) The Tethyan Himalaya: palaeogeographical and tectonic constraints from Ordovician palaeomagnetic data Journal of the Geological Society, London 166,679–687

Xu et al, 2018 Landslide damage along Araniko highway and Pasang Lhamu highway and regional assessment of landslide hazard related to the Gorkha, Nepal earthquake of 25 April 2015 Xu et al. Geoenvironmental Disasters (2017) 4:13

Le due classi di terremoti in Giappone: oltre all'intensità di un evento, per i danni conta molto la sua posizione

$
0
0

Il recente terremoto a Hokkaido M 6.6 del 5 settembre 2018 ha provocato decine di morti a causa delle frane che hanno devastato i versanti collinari, resi particolarmente vulnerabili dalle intense piogge dei giorni precedenti. In Giappone c'è una apparente contraddizione fra terremoti fortissimi che provocano pochi danni e terremoni meno intensi come questo ed altri, a partire dal disastro di Kobe del 1995. La discriminante è la posizione degli ipocentri: i grandi terremoti di subduzione come nel 2011 si generano sotto l'oceano antistante, mentre questi terremoti sono più distuttivi perchè si generano, parafrasando Alessandro Amato, "sotto i piedi dei giapponesi". 

Uno dei danni più noti del teremoto di Kobe del 1995:
il crollo di alcuni viadotti
TERREMOTI PIÙ DEBOLI MA DANNI MAGGIORI. In Giappone fanno più morti e più danni (specialmente frane) eventi sismici a Magnitudo non troppo alta di quanti ne abbia fatti, tsunami a parte, il grande terremoto del 2011, uno dei più forti registrati da quando esiste la moderna sismologia: si tratta di terremoti che non hanno neanche raggiunto una M di 7, il che li fa essere 1000 volte più deboli di quell’evento spaventoso (ricordo che tra un punto e l’altro di Magnitudo l’energia sprigionata aumenta di oltre 30 volte, per cui un M 6 è qualcosa di più di 30 volte più potente di un M 5). Molti ricordano i danni del terremoto M 6.9 di Kobe del 1995, mentre diversi morti e danni hanno fatto i 3 terremoti con M>6 dell’aprile del 2016 a Kyushu, l’isola più meridionale dell’arcipelago; ho parlato diffusamente degli eventi del 2016 in questo post.
Mercoledì 5 settembre 2018, nella parte meridionale di Hokkaido, l’isola più settentrionale, un evento a M 6.6 ha provocato crolli di edifici e diversi morti soprattutto per le frane indotte, e rimarrà a lungo un importante caso di studio su questo specifico aspetto. Tutto quanto è accaduto a causa di questi terremoti è clamorosamente in contraddizione con l’Università della Vita, secondo la quale “in Giappone non crolla nulla quando c’è un terremoto”, nato soprattutto a seguito dei tanti filmati girati l’11 marzo 2011, in cui si vedono tanti edifici tremare ma senza subire danni.
Quindi, qual’è la differenza fra quel fortissimo terremoto e questi altri eventi che, sia pure più deboli, hanno provocato più danni (a parte, come detto, quelli dello tsunami)? Banalmente, il luogo dove sono avvenuti. 

Le tre placche in gioco e la sismicità con M > 5 in Giappone degli ultimi 50 anni: si vedono sia i terremoti
delle croste oceaniche in subduzione che si approfondiscono allontanandosi dai limiti fra le placche
che la diffusa sismicità superficiale (in viola) nell'arcipelago
IL GIAPPONE: UN’AREA DI SCONTRI TETTONICI INTENSI E NUMEROSI. Il Paese del Sol Levante è un territorio molto caldo dal punto di vista sismo-tettonico, perché è una zona di scontro fra ben tre placche: la placca pacifica, quella del mare delle Filippine e quella Euroasiatica. Lo scontro fra una placca continentale ed una oceanica comporta la subduzione di quella oceanica, che è più pesante. La subduzione provocata dalla convergenza di placche comporta una serie di fenomeni, a partire da terremoti e vulcani, esattamente come succede in Giappone. C’è solo una piccola differenza: tutte le subduzioni sono collegate a hanno terremoti, mentre in diversi casi ci sono delle interruzioni nella sequenza dei vulcani (ad esempio in Messico e in Cile).
In quest’area di scontri ce ne sono ben 3:

  1. la placca del mare delle Filippine scende sotto quella euroasiatica con una velocità di circa 3 cm/anno
  2. la placca pacifica subduce sotto l’Eurasia, alla rispettabile velocità di circa 9 cm/anno
  3. tanto per complicare il quadro, a sua volta la placca dell’oceano Pacifico scende pure sotto quella del mare delle Filippine, a circa 8 cm/anno 

Da un punto di vista tettonico il Giappone si può dividere in due parti:

  • la parte settentrionale è orientata circa N/S: la placca dell'Oceano Pacifico scende sotto il continente e tra l'arcipelago e l'Asia, il limite fra le due placche, la cui traccia è la fossa del Giappone, è praticamente parallelo alla costa; la placca pacifica si muove quasi perpendicolarmente rispetto alla costa
  • all'altezza di Tokyo il bordo della placca pacifica si dirige verso il mare aperto, lungo la fossa delle Bonin, e la placca pacifica scende sotto quella delle Filippine. La zona di scontro è indicata dal sistema di arco / fossa di Izu – Bonin e delle Marianne
  • per questo da quel punto in poi nella zona centro / meridionale del Giappone, orientata NW/SE, la placca che subduce sotto l'arcipelago è quella delle Filippine e la direzione del movimento è obliqua rispetto alla fossa corrispondente, quella di Nankai e alla costa dell’arcipelago

LA DUPLICE DISTRIBUZIONE DELLA SISMICITÀ IN GIAPPONE. In questa carta, che mostra i terremoti a M > 5 degli ultimi 50 anni circa, si vede bene che gli eventi sismici si dividono in due classi:

  • la prima, abbastanza intuitiva, è rappresentata dai terremoti lungo il piano di subduzione, posizionati nella crosta pacifica che scende sotto l’Asia.
  • una seconda classe è rappresentata da terremoti superficiali che si generano nella crosta dell’arcipelago


L'approfondirsi dei terremoti lungo un piano
di subduzione (da Wikipedia)
Come si vede nella carta ottenuta tramite l’Iris Earthquake Browser, gli eventi legati al piano di subduzione sono estremamente superficiali tra la fossa e l’arcipelago e poi diventano via via sempre più profondi andando verso il continente asiatico, tracciando la posizione della crosta dell’Oceano Pacifico che si immerge sotto l’Eurasia (i pallini assumono progressivamente colori diversi: viola, blu, verde giallo, arancione e rosso a seconda della profondità); in media sotto l’arcipelago la loro profondità è di 70 km. Ne segue che in genere vengono risentiti senza troppi danni, anche perché, notoriamente, i morti più che i terremoti li fa la cattiva edilizia e da quelle parti l’edilizia antisismica è di livello proverbiale
la seconda classe di eventi è diversa: le zone che si trovano davanti ad un limite fra placche evidenziano una certa sismicità anche allontanandosi dalla zona calda, ma in genere non si tratta di terrmeoti particolarmente intensi, tranne che nel caso di terremoti dovuti a  back-thrust e cioè fasce di compressione dal lato opposto a quello principale: succede ad esempio in Indonesia (Zubaidah et al, 2014) e nel Sichuan (Jia et al, 2010) e anche la sismicità lungo il fronte delle Alpi dalla Lombardia al Friuli è stata interpretata a questo modo da parecchi Autori (Michetti et al, 2011). Qui ho parlato specificamente dei back-thrust a proposito dei recenti terremoti indonesiani di Lombok
L’arcipelago giapponese è un caso particolare perchè è una area di retroarco caratterizzata da una attività sismica particolarmente intensa (oltrechè frequente) non dovuta a back-thrust (che non ci sono). Rimanendo negli ultimi decenni, a Honshu ci sono stati alcuni eventi particolarmente importanti e superficiali, come il M 7.2 del 13 giugno 2008, di meccanica compressiva, e quello del Kanto settentrionale M 7.0 dell’11 April 2011, caratterizzato al contrario dalla riattivazione di vecchie faglie normali. Questi terremoti sono considerati “intraplacca”. Il terremoto del Kanto è stato attribuito alle modifiche del campo di sforzi dopo il terremoto dell’11 marzo 2011, di appena un mese precedente (Fukushima et al, 2018). Un altro terremoto importante nell’area è stato il M 6.0 del 28 dicembre 2016. 
Nel Giappone meridionale abbiamo i terremoti di Kobe 1995 e del Khiyshu del 2016, che, tanto per completare la gamma dei meccanismi focali, sono di tipo trascorrente. 

La "Linea tettonica mediana" da Sato et al (2015)
PERCHÉ QUESTA SISMICITÀ SUPERFICIALE COSI' INTENSA IN GIAPPONE?Ma qual’è la differenza fondamentale fra il Giappone e altre zone di convergenza di placche come ad esempio l’Indonesia? In genere una placca continentale sotto la quale si immerge una placca oceanica è un blocco robusto e, possibilmente, abbastanza antico. Invece la crosta del Giappone è molto fragile, perché vi abbondano delle cicatrici di eventi tettonici piuttosto recenti. Inoltre non ha alle spalle il continente, ma è una stretta fascia di crosta continentale alle cui spalle si trova un bacino di retroarco. Quindi queste cicatrici che delimitano i vari blocchi rappresentano delle zone di debolezza che reagiscono con terremoti anche piuttosto violenti alle sollecitazioni che subiscono dallo scontro fra le placche. La più famosa di queste è la “linea tettonica mediana” del Giappone meridionale, che è attiva proprio a causa della direzione obliqua rispetto all’arcipelago della placca delle Filippine e che nel Cretaceo era la superficie lungo la quale la fascia metamorfica di alta pressione di Sanbagawa è sovrascorsa sopra blocchi più antichi; oggi, dal precedente comportamento compressivo è passata a una meccanica trascorrente (Sato et al, 2015). 

Una analogia “in grande” di questa situazione è rappresentata dalla diffusa sismicità a nord del Tibet, dove la spinta del continente indiano che si incunea nel continente euroasiatico provoca movimenti lungo vecchie direttrici tettoniche paleozoiche che vengono riprese essendo fasce di debolezza (Heron et al, 2016)
Anche il terremoto di Hokkaido è presumibilmente avvenuto lungo una linea tettonica antica, che però ha un certo significato anche attuale: è curioso infatti vedere che sia questo che l’evento M 6.4 del 21-03-1982 siano annidati lungo la fascia tettonica cretacea di Sorachi – Yezo che bene o male corrisponde anche ad una interruzione della linea di vulcani dell’anello di fuoco.

Le accelerazioni cosismiche nel 2011 e nel 2018:
nel 2011 il risentimento è stato percepito in un'area molto vasta,
mentre nel 2018 è stato localizzato ma molto più forte
DISTANZA EPICENTRALE, PROFONDITÀ ED EFFETTI DI UN TERREMOTO. Il terrificante terremoto del 2011 appartiene alla prima classe di eventi: è stato risentito in tutto il Giappone a causa della sua estrema forza, ma l’epicentro è stato nell’oceano Pacifico a circa 100 km dalla costa, e non sono state raggiunte in terraferma le accelerazioni del terreno locali raggiunte il 5 settembre. Nel caso dei terremoti del Kanto, del 1995, del 2016 a Kyushu e di mercoledì scorso l’epicentro è stato sotto l’arcipelago, a poca profondità. Per capire, facciamo un paragone con i suoni: una campana viene percepita a grande distanza ma non dà noia, mettere invece l’orecchio su un altoparlante a tutto volume lo danneggia ma a qualche centinaio di metri questo suono non è udibile a meno di non trovarsi in una zona di silenzio assoluto.
La cosa discriminante per i danni da terremoto infatti è la PGA (Peak Ground Acceleration), cioè la massima accelerazione che le onde sismiche imprimono al terreno, che è funzione sì della Magnitudo, ma anche della distanza dall’area della crosta dove si genera un terremoto: insomma più lontano e più profondo è un terremoto, meno danni fa. 
Lo dimostra il confronto delle due carte in figura, che sono alla stessa scala: a sinistra la mappa della accelerazione del terreno nel 2011 e a destra quella del terremoto di Hokkaido della settimana scorsa. Possiamo facilmente notare come nel primo caso l’area interessata dallo scuotimento sia stata estremamente più vasta che nel 2018, ma anche che l’intensità massima raggiunta dallo scuotimento sia stata ben più alta nel caso più recente. 
Un altro aspetto particolarmente importante di questo terremoto, come di quello del 2008  sono le frane. Si tratta di un fenomeno comunemente associato ai terremoti, che ne aumenta spesso considerevolmente le vittime ma, soprattutto, i danni. Il grande terremoto cinese del Sichuan nel 2008 e quello nepalese del 2015 hanno generato moltissime frane, sia nell’immediato che nella successiva stagione delle piogge. Il gran numero di frane che si sono generate dopo il terremoto di Hokkaido si spiega anche con le forti piogge dei giorni precedenti, le quali hanno indebolito il terreno, che non è stato in grado di resistere alle forti sollecitazioni prodotte dalle onde sismiche.

Fukushima et al 2018 Extremely early recurrence of intraplate fault rupture following the Tohoku-Oki earthquake Nature Geoscience  https://doi.org/10.1038/s41561-018-0201-x 

Heron et al (2016). Lasting mantle scars lead to perennial plate tectonics. Nature communications DOI: 10.1038/ncomms11834

Jia et al (2010) Structural model of 2008 Mw 7.9 Wenchuan earthquake in the rejuvenated Longmen Shan thrust belt, China Tectonophysics 491, 174–184

Michetti et al 2012 Active compressional tectonics, Quaternary capable faults, and the seismic landscape of the Po Plain (northern Italy) Annals of Geophysics, 55, 5, 2012 

Sato et al, 2015 Reactivation of an old plate interface as a strike-slip fault in a slip-partitioned system: Median Tectonic Line, SW Japan Tectonophysics 644/645 , 58–67 

Zubaidah et al, 2014 New insights into regional tectonics of the Sunda–Banda Arcs region from integrated magnetic and gravity modelling Journal of Asian Earth Sciences 80,172–184

La subsidenza: un fenomeno il cui monitoraggio è stato particolarmente semplificato con i dati satellitari e il caso della piana fra Firenze, Prato e Pistoia

$
0
0


Torno dopo un po' di tempo a parlare della subsidenza delle aree di pianura, perché è appena uscito un lavoro che parla dei movimenti verticali del terreno nel bacino intermontano tra Firenze, Prato e Pistoia, dove gli effetti antropici, passati e presenti, sono una chiave importante per leggere alcune deformazioni del terreno. Questi lavori non avrebbero potuto essere svolti senza l’uso delle tecnologie satellitari, GNSS e InSAR, che permettono una sorveglianza veloce e abbastanza dettagliata del territorio, specialmente il secondo con il metodo dei persistent scatterers.


Subsidenza provocata dai prelievi di acqua dalle falde
Si può definire la subsidenza come un abbassamento della superficie terrestre leggero e graduale, che alle volte, comunque, può anche accelerare vistosamente (Galloway & Burbey, 2011). La subsidenza è nella natura stessa delle zone soggette a sedimentazione: senza l’abbassamento del terreno sarebbe impossibile la deposizione di qualsiasi serie sedimentaria, dalle più sottili alle grandi serie delle pianure o delle piattaforme continentali spesse molti km. 
La subsidenza è un geo-rischio decisamente meno conosciuto rispetto ad altri (diciamo soprattutto che per la sua lentezza all’occhio umano è molto meno evidente, ad esempio, di una frana), ma le sue conseguenze possono essere drammatiche: può provocare  deformazioni su edifici ed altre infrastrutture e quindi innescare situazioni di rischio, e assume livelli piuttosto allarmanti in alcune  pianure costiere, dove l’abbassamento del suolo e l’attuale trend di innalzamento del livello marino preoccupano specialmente per l’ingressione di acque salate nelle falde acquifere di acqua dolce. La subsidenza è stata anche invocata come causa di terremoti: per esempio quello estremamente superficiale M 5.1 del 11-05-2011 nei pressi di Lorca, c’è chi afferma che il cambiamento dello stato di sforzo nel sottosuolo dovuto all'estrazione delle acque sotterrane abbia innescato un evento sismico che comunque sarebbe avvenuto lo stesso in un prossimo futuro (per esempio Gonzales et al, 2012), ma questa ipotesi ha incontato lo scetticismo della maggior parte dei ricercatori, perché è avvenuto su una faglia notoriamente attiva (Vissers e Meijninger, 2011).


Falde acquifere e subsidenza delle aree costiere
La subsidenza può essere provocata da diversi fenomeni: 

  • un abbassamento tettonico (che è anche la causa dell’inizio della deposizione di serie sedimentarie importanti
  • nelle aree di sedimentazione può essere la risposta isostatica della crosta all’aumento del carico sedimentario sovrastante (un po' come, al contrario, la Scandinavia si sta tutt’ora rialzando da quando non ha più la calotta glaciale che la ricopriva fino a 12.000 anni fa)
  • la risposta alla compattazione dei sedimenti dovuta al peso di quelli che gli si sono accumulati sopra
  • cambiamenti nella mineralogia dei sedimenti durante la diagenesi o per modifiche naturali dell'umidità del sottosuolo

Negli ultimi decenni la subsidenza registra una nuova componente che è di origine antropica: il prelievo di idrocarburi, ma soprattutto quello di acque a vari scopi (irriguo ed industriale soprattutto): in questo modo viene diminuita la pressione idrostatica dei pori del terreno e di conseguenza quanto vi sta sopra si rilassa, abbassandosi.


Ieri: livellazioni manuali
oggi: immagini da satellite
LA MISURA DELLA SUBSIDENZA: IERI UN AFFARE MOLTO COMPLESSO, OGGI COSA MOLTO PIÙ SEMPLICE. Misurare la subsidenza nel passato non era molto semplice: dovevano essere utilizzate delle reti geodetiche manuali e quindi il suo riconoscimento, lento e complesso attraverso il traguardamento di vari punti uno per uno, era forzatamente limitato a casi particolari ed importanti come la Central Valley della California (Poland et al, 1975), dove il tasso di subsidenza è anche influenzato dalle condizioni meteorologiche delle singole annate (Murray e Lohman, 2018).

Le tecnologie satellitari hanno consentito un salto in avanti nella misura della subsidenza. All’inizio fu il GNSS: è un sistema che in genere sfrutta i dati dell’americano GPS; di fatto il GNSS è spesso identificato tout court con il GPS che è – come dire – un marchio diventato nome; in realtà esiste da anni un altro sistema GNSS, il russo GLONASS, ed è in avanzato sviluppo il sistema europeo Galileo. Il GNSS fornisce i dati in maniera veloce ma necessita di stazioni opportunamente installate, per cui forzatamente non è possibile configurare una rete particolarmente fitta (ovviamente per misurazioni come queste, a scala millimetrica, si devono utilizzare strumentazioni estremamente più precise di quelle comunemente disponibili e usare algoritmi particolari per raffinare il dato). Per ottenere una copertura migliore a costi più bassi e tempi di realizzazione molto più brevi, la tecnologia ha fornito da una trentina di anni una soluzione molto pratica, l’interferometria da satellite con il metodo dei persistent scatterers, punti di cui viene registrata la posizione ad ogni passaggio di un satellite. In questo modo si misura molto bene la componente verticale dei movimenti del terreno ed è possibile monitorare praticamente tutta la superficie terrestre. Ad esempio in questo modo Rosi et al (2016) hanno potuto determinare rapidamente tutte le aree in subsidenza in Toscana, molte delle quali non sarebbero state riconosciute con i metodi classici. Ho parlato dettagliatamente della tecnica InSAR presentando il monitoraggio del territorio della Regione Toscana, la prima al mondo ad essersi dotata di questo strumento.
I punti studiati con ENVISAT (2003- 2010) e le correzioni
delle velocità verticali effettuate tramite i dati GNSS.
É molto chiara la subsidenza dell'area pistoiese a NW
Oltre alla grande quantità di dati ottenibili, questa tecnica ha un altro grande vantaggio: nella ricostruzione dei movimenti si può tornare indietro nel tempo fino a quando, in genere i primi anni ‘90, esistono i dati satellitari appropriati. È così, per esempio, che nel 2005 è stato possibile osservare come si evolveva la subsidenza nella valle del fiume Segura (SE della Spagna) oltre 10 anni prima (Tomas et al, 2005). 
Recentemente i ricercatori del Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze e dell’Istituto Geografico Militare Italiano hanno utilizzato i dati ricavati dalle immagini satellitari ENVISAT tra il 2003 e il 2010 e quelli di SENTINEL-1 tra il 2015 e il 2017, combinandole con i dati GNSS per investigare la subsidenza nella pianura di Firenze-Prato-Pistoia (Del Soldato et al, 2018). I primi dati delle stazioni GNSS sono disponibili da tempi diversi: i più vecchi partono dal 1998 e gli ultimi dal 2010.  
Le velocità di deformazione verticale risultanti sono allineate al dato del Sistema di riferimento terrestre europeo 89 (ETRS89) e possono essere considerate velocità reale di spostamento. Le mappe di deformazione verticale del terreno derivate dai dati ENVISAT e Sentinel-1, sono state corrette con il GNSS, e mostrano come si è evoluta l'area interessata dalla subsidenza nei periodi 2003-2010 e il 2014-2017.

Il Bacino dove sono Firenze, Prato e Pistoia è l'unica vallata
della Toscana interna a non avere un nonme geografico
IL BACINO DI FIRENZE, PRATO E PISTOIA. La vallata tra Firenze, Prato e Pistoia rappresenta un caso direi unico nella toponomastica mondiale: nel versante tirrenico degli Appennini si susseguono creste e depressioni: tutte naturalmente hanno un nome (ad esempio Casentino, Valdarno superiore, Mugello) a parte, appunto, questa fossa tra Rovezzano, alle porte di Firenze e Serravalle Pistoiese, paese a cavallo dello spartiacque con la piana della Lucchesia; nel cercarne una definizione, ovviamente essendo i toscani molto campanilisti, pensare di chiamarla semplicemente “Bacino di Firenze” si configura come un torto nei confronti di chi non viene nominato, per cui vanno citate almeno le altre due realtà più grandi che vi insistono e quindi il nome diventa “Bacino di Firenze – Prato – Pistoia”, in sigla BFPP, in attesa che protestino per l’esclusione gli abitanti di Campi Bisenzio, Poggio a Caiano, Montemurlo o Quarrata, tanto per citare i comuni principali (mi scuso con gli abitanti degli altri comuni che non ho ulteriormente elencato..).
Annoto comunque che anche la pianura che si stende fra Montecatini, Lucca, Empoli, Livorno e la Versilia a sua volta è priva di un nome generale che la comprenda nella sua interezza….
Uno scorcio del Bacino di Firenze - Prato - Pistoia
dai colli sopra Sesto Fiorentino:
la piana si estende a questo modo per 35 km
con una larghezza di circa 9 km
Il bacino di Firenze – Prato – Pistoia è orientato NNW-SSE; si è formato dalla fine del Pliocene e da quel momento si è avviata la deposizione di una serie spessa fino a 600 metri nella zona centrale, essenzialmente formata da sedimenti alluvionali e lacustri. Da notare che l’aspetto del BFPP è nettamente differente da quello dei suoi fratelli: in Mugello, Casentino, Valdarno superiore i sedimenti lacustri e fluviali plioquaternari che si sono deposti in quelle depressioni sono spesso visibili perché si è abbassato il livello di base dei fiumi e quindi sono andati in erosione; di conseguenza il paesaggio vede una serie di rilievi collinari all’interno del bacino stesso, come le famose balze del Valdarno superiore; il BFPP, che è posto ad un livello inferiore di quegli altri è invece quasi totalmente un’area di sedimentazione; di fatto il centro del bacino è tutt’ora spesso soggetto ad alluvioni ed è particolarmente noto nella storia perché è stato uno dei principali ostacoli naturali incontrati da Annibale nella sua spedizione in Italia: perennemente impaludato di suo, fu incontrato dall’esercito cartaginese in un momento in cui gli acquitrini erano particolarmente difficili ad attraversare e il grande condottiero proprio qui perse un occhio per una malattia contratta in queste malsane paludi; gli unici depositi attualmente in erosione formano un terrazzo fra Careggi e le aree sotto Fiesole e Settignano e alcune collinette a W di Bagno a Ripoli, tutte annidate quindi all’estremità orientale della valle. Arno, Ombrone pistoiese e Bisenzio sono i fiumi principali che lo percorrono.
I punti esaminati con Sentinel tra il 2015 e il 2017:
anche qui si nota facilmentela subsidenza a Pistoia

LA SUBSIDENZA DEL BACINO DI FIRENZE, PRATO E PISTOIA. La spessa serie sedimentaria fluvio – lacustre deposta nel bacino, la cui superficie è ora posta mediamente a poco meno di 50 metri sul livello del mare, dimostra l’elevato tasso di subsidenza che lo caratterizza naturalmente.
Inoltre ci sono diverse cause antropiche che la influenzano: il carico degli edifici ma, principalmente, l’estrazione di acque a scopo irriguo ed industriale. 

L’attività immediatamente visibile da chi passa per Pistoia è il florovivaismo, attività che utilizza grandi quantità di acque estratte dal sottosuolo. 
Il pratese è invece noto per l’attività tessile e le tintorie, che hanno costituito un importante elemento di consumo di acque, prelevate indiscriminatamente a livelli decisamente insostenibili per le falde, specialmente fra gli anni ‘50 e ‘80. Poi, fra la sensibile diminuzione del numero delle attività e l’attuazione di procedure per il riciclo delle acque industriali, i prelievi dalla falda acquifera sono molto diminuiti.
In buona sostanza le parti della piana comprese nelle province di Prato e di Firenze tra il 2003 e il 2010 possono essere considerate sostanzialmente stabili, tranne che in pochi punti compresi tra la il centro di Prato e i comuni di Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto Fiorentino, dove localmente sono raggiunte velocità di subsidenza fra 13 e 10 mm/anno e di innalzamento nel centro di Prato. Invece a Pistoia il centro urbano e una parte dell’area a SE della città sono in forte abbassamento.


Il sollevamento del centro di Prato
e la subsidenza nella zona di Campi Bisenzio
INNALZAMENTO E SUBSIDENZA ATTUALI NEL PRATESE. Esaminiamo adesso i dati specifici delle aree dove ci sono dei movimenti verticali intensi. Iniziamo dall’area tra Prato e Campi Bisenzio, a cavallo fra la provincia di Prato e quella di Firenze. In arancione i dati ENVISAT del primo periodo e in blu i dati SENTINEL del secondo periodo, che mostrano dei comportamenti diversi fra loro.
La parte a sinistra nella sezione DD’  (che è orientata grossolanamente NW-SE) dimostra che l’agglomerato principale della città di Prato presenta un tasso di subsidenza negativo, cioè il suolo si sta sollevando. Questo è dovuto essenzialmente alla fine delle attività industriali all’interno del tessuto urbano propriamente detto: la cittadina laniera ha avuto una crescita tumultuosa nel dopoguerra, per cui le aree residenziali hanno circondato le attività industriali, che a poco a poco hanno dovuto ricollocarsi  in zone più periferiche. 
La sezione EE’ rientra totalmente all’interno dell’abitato pratese (il vertice E è praticamente in piazza del Duomo). Il tasso di innalzamento tra le due epoche è diminuito nel secondo periodo di osservazione nella parte più vicina al centro, mentre nella parte più lontana presenta andamento opposto.   
Il motivo di questo sollevamento sta nel fatto che l’area residenziale è essenzialmente edificata sulla conoide del Bisenzio, la cui falda forniva acqua in abbondanza e adesso, grazie alla fine dei prelievi, si sta velocemente ricaricando.

Nella parte destra della sezione DD’ sono comprese invece alcune delle poche aree attualmente in subsidenza, che è aumentata negli ultimi anni in una fascia corrispondente ai nuovi insediamenti produttivi tra Prato e Campi Bisenzio. L’intersezione della sezione DD’ con la sezione FF’ corrisponde ad uno dei massimi della subsidenza, quello a sud del casello di Prato Est della A11. Le sezioni EE' e FF' sono disponibili su Del Soldato et al (2018)


Il confronto fra i dati ENVISAT e Sentinel, con i decisi
cambiamenti nel movimento tra i due periodi, in particolare
nell'area urbana di Pistoia
LA SUBSIDENZA A PISTOIA. Pistoia è un caso un po' più strano. Attualmente ci sono due aree principali in subsidenza, con valori dell'abbassamento che arrivano a 20 mm/anno:

  • quella a SE della città, lungo la via Fiorentina, centrata convenzionalmente nella frazione del Bottegone, in cui il fenomeno è chiaramente connesso agli emungimenti della falda da parte del florovivaismo. La situazione degli acquiferi è un po' complessa, ce ne sono diversi con tempi di ricarica diversi e provenienza delle acque ancora non molto chiara. Il tasso di  subsidenza è diminuito tra i due periodi, probabilmente per una riduzione delle attività e/o per una riduzione dei prelievi
  • il centro della città, che è all’intersezione fra le sezioni AA’ e BB’, mostra invece un vistoso aumento del tasso di subsidenza nel secondo periodo. Le misure dimostrano che questo abbassamento persiste tutt’ora a livelli elevati 

Anche in questo caso le altre sezioni (BB' e CC') sono in Del Soldato et al (2018). Il grafico qui sotto mostra la serie temporale di un sito rappresentativo all'interno del centro storico di Pistoia. Prima del 2007 c'erano delle oscillazioni, ma è da quel momento che è stata imboccata la via dell'abbassamento, i cui valori erano fino al 2010 abbastanza ridotti. La ripresa dei monitoraggi dal 2015 è arrivata ad accelerazione del movimento già avvenuta e quindi non è dato sapere quando è avvenuto nè come si è svolto il cambio di velocità. Le cause di questo improvviso mutamento del comportamento del suolo sotto la città non sono ancora state chiarite e sono tutt'ora oggetto di attenti studi.
Questo lavoro dimostra ancora una volta l’estrema utilità dei dati satellitari per lo studio delle deformazioni in aree di una certa grandezza e consente ancora una volta di dimostrare come le attività antropiche influenzino in maniera massiccia i movimenti verticali del suolo.

Il diverso comportamento del suolo nel centro di Pistoia
tra il periodo di osservazione con ENVISAT e quello con Sentinel



Del Soldato et al 2018 Subsidence Evolution of the Firenze–Prato–Pistoia Plain (Central Italy) Combining PSI and GNSS Data Remote Sens. 2018, 10, 1146; doi:10.3390/rs10071146 

Galloway, D.L.; Burbey, T.J. Regional land subsidence accompanying groundwater extraction. Hydrogeol. J. 2011, 19, 1459–1486 

Gonzales et al 2012 The 2011 Lorca earthquake slip distribution controlled by groundwater crustal unloading Nature Geoscience | Vol 5 | November 2012 DOI: 10.1038/NGEO1610 

Murray e Lohman, 2018 Short-lived pause in Central California subsidence after heavy winter precipitation of 2017 Sci. Adv. 2018;4:eaar8144 

Poland et al, 1975 Land subsidence in the San Joaquin Valley, California, as of 1972 Geological Survey Professional Paper 437-H

Rosi et al, 2016 Subsidence mapping at regional scale using persistent scatters interferometry (psi): The case of tuscany region (Italy). Int. J. Appl. Erth Obs. Geoinf. 2016, 52, 328–337. 

Tomas et al 2005 Mapping ground subsidence induced by aquifer overexploitation using advanced Differential SAR Interferometry: Vega Media of the Segura River (SE Spain) case study Remote Sensing of Environment 98 (2005) 269 – 283 

Vissers e Meijninger 2011 The 11 May 2011 earthquake at Lorca (SE Spain) viewed in a structural-tectonic context Solid Earth, 2, 199–204, 2011 


Alcune novità negli studi sull'origine dei mammiferi

$
0
0

Il passaggio fra i terapsidi cinodonti e i mammiferi è una delle pietre miliari nell’evoluzione dei vertebrati e ci riguarda molto da vicino. É avvenuto prima della fine del Triassico come testimoniano i fossili del genere Morganucodon, un mammaliforme basale. In questi giorni sono usciti praticamente in contemporanea tre lavori su alcune caratteristiche evolutive importanti ma meno evidenti a prima vista, che hanno dato un contributo importante alle conoscenze su questa transizione evidenziando alcuni aspetti per i quali mammiferi e terapsidi differiscono


Filogenesi semplificata dei vertebrati terrestri. Mancano gli anapsidi
(che non hanno finestre temporali) perchè questo clade è oggi parecchio in discussione
I mammiferi si distinguono immediatamente dagli altri vertebrati, in particolare dai rettili, per diverse caratteristiche molto appariscenti. Ad esempio:

  • il pelo al posto delle scaglie
  • la presenza delle vibrisse
  • la lattazione
  • femori e omeri in posizione verticale anziché orizzontale
  • una andatura al galoppo anziché a zig-zag come i pesci
  • una distinzione netta fra vari tipi di denti per forma e funzione

Ci sono poi delle caratteristiche che invece per essere osservate hanno avuto bisogno di studi più approfonditi, come la presenza di una sola finestra temporale per lato nel cranio (rettili e uccelli ne hanno due) ed altre. Tutte queste differenze vengono da molto lontano. Diciamo che i vertebrati terrestri (tetrapodi) si dividono in:

  • anfibi
  • sinapsidi (tetrapodi con una sola finestra temporale per lato, di cui i mammiferi sono gli unici superstiti)
  • diapsidi (che oltre a tante forme estinte includono gli attuali rettili e uccelli)  

Il termine sinapsidiè bene che sostituisca quello di “rettili mammaliani” perché i sinapsidi erano già ben differenziati dai rettili (i diapsidi dell’epoca) fino dal Carbonifero, poco dopo la comparsa dell'uovo amniotico. 

Diciamo che possiamo dividere la storia dei sinapsidi in quattro parti:

  1. i primi sinapsidi nel Carbonifero e all’inizio del Permiano (l’era in cui erano rappresentati soprattutto dai pelicosauri)
  2. l’affermazione dei terapsidi tra Permiano superiore e Triassico
  3. il periodo dell’oblio, fra Giurassico e Cretaceo, al seguito dell’estinzione di massa di fine Triassico, in cui dominano i diapsidi (in particolare gli arcosauri - dinosauri e simili) e in cui si evolvono i primi mammiferi “veri” del Giurassico, eredi di un gruppo di terapsidi, i cinodonti
  4. la ripresa del dominio sulla terraferma dopo l’estinzione di massa che ha cancellato la stragrande parte dei diapsidi arcosauri (dinosauri e simili) alla fine del Cretaceo

Gli odierni monotremi, l’ornitorinco e le echidna, rappresentano un gruppo di “quasi – mammiferi” se si intendono come “veri mammiferi” i marsupiali e – soprattutto – i placentati. Naturalmente non è che la mamma terapside abbia dato alla luce il primo mammifero… quindi il passaggio dai primi sinapsidi ai mammiferi propriamente detti è un passaggio complesso che coinvolge praticamente tutto il corpo. 

I pelicosauri: la vela (che non tutti possedevano!)
 è stata interpretata come un primo  sistema
per avviare la termoregolazione
DAI PRIMI TETRAPODI AI MAMMIFERI. I primi tetrapodi (vertebrati con 4 zampe) compaiono nel Devonano superiore, verso la fine del Frasniano, 375 Ma. Si trattava di creature ancora acquatiche, che vivevano in lagune nelle cui acque di ossigeno disciolto ce n’era ben poco: per cui le zampe e il collo facevano molto comodo per districarsi nei bassi fondali e per sporgersi meglio dalle acque per respirare aria (qui ho parlato della respirazione in acque con poco ossigeno). I primi veri animali terricoli li troviamo nel Carbonifero iniziale (Tournasiano) della Scozia (Smithson et al, 2012). Il successivo passaggio da ambienti acquatici o semi-acquatici ad un ambiente decisamente subaereo ha coinciso con la comparsa dell’uovo amniotico da cui nascono adulti in miniatura che non passano più dallo stato larvale e quindi non dipendono più strettamente dall’acqua: i primi amnioti sono vissuti a metà del Viseano (345-328 Ma); Gli amnioti esistevano quindi già 323 milioni di anni, in corrispondenza dell’evento di estinzione di massa piuttosto importante della fine del Serpukhoviano, di cui ho parlato qui), che ha comportato una evidente contrazione della biodiversità (Mc Ghee et al, 2012); la conseguente ripresa occupa tutti gli 8 milioni di anni del Baskhiriano e prioprio al passaggio Baskiriano – Moscoviano, 315 milioni di anni fa, si colloca la divergenza fra diapsidi e sinapsidi, con la comparsa dei sinapsidi più antichi, gli Ophiacodontidae (referenze in Brocklehurst et al 2013).
Tra Devoniano superiore e Carbonifero inferiore vivere non è stato semplice: ci sono stati diversi cicli glaciali e almeno 4 eventi di estinzione di massa importanti: 

  • nel Devoniano superiore Devoniano superiore al limite Frasnano – Famenniano
  • passaggio Devoniano – Carbonifero
  • nel Carbonifero inferiore al passaggio Viseano - Serpukhoviano
  • nel Carbonifero inferiore al passaggio Serpukoviano - Bashkiriano

Poi, ancora una volta, c’è una estinzione di massa, il cosiddetto “collasso delle foreste pluviali” del Carbonifero superiore, da cui escono molto bene i sinapsidi che da quel momento e per tutto il Permiano e il Triassico hanno rappresentato il gruppo dominante di vertebrati terrestri; solo tra Giurassico e Cretaceo i diapsidi, con dinosauri ed altri grandi arcosauri, hanno rappresentato il clade dominante ma l’estinzione di fine cretaceo ha restituito ai sinapsidi, rappresentati dai mammiferi, il ruolo di clade dominante fra i vertebrati terrestri
La storia è ovviamente un po' più complessa all’interno dei sinapsidi, dove succedono diverse cose: fino al Permiano inferiore la fauna è dominata dai sinapsidi pelicosauri, insieme a diapsidi Captorhinidae e vari anfibi; dal Permiano medio e superiore inizia il dominio dei terapsidi, i più diretti antenati dei mammiferi, i quali hanno pure ridotto l’importanza di altri cladi che si spartivano i principali ruoli insieme ai pelicosauri, diventando i più comuni fra gli animali di maggiori dimensioni, sia erbivori che carnivori, in un ecosistema che diventa più complesso di prima (Brocklehurst et al 2017).
La differenziazione della colonna vertebrale presacrale
in terapsidi fossili e in rettili e mammiferi viventi
ripresa da Jones et al, 2018


LA DIFFERENZIAZIONE NELLA COLONNA VERTEBRALE. Il primo dei lavori di cui parlo si occupa della colonna vertebrale, nella parte al di sopra della zona sacrale (Jones et al, 2018), che nei mammiferi mostra a seconda della zona anatomica delle morfologie diverse, per esempio fra la regione toracica e quella lombare. La transizione da una colonna presacrale "non regionalizzata" a una "regionalizzata"è un passo importante nell'evoluzione dei mammiferi ed è stata collegata all'origine di andature specializzate e al miglioramento della respirazione. In tutto ciò è probabile che un ruolo importante lo abbia giocato la maggiore mobilità delle spalle, che potrebbe avere non poco influenzato l’evoluzione del bacino. 

Nei rettili generalmente questa zona è più uniforme.
I ricercatori hanno esaminato le colonne vertebrali presacrale di 16 sinapsidi non mammiferi eccezionalmente conservati (inclusi pelicosauri, terapsidi basali e cinodonti), un gruppo di diapsidi paleozoici estinti e una vasta gamma di salamandre, rettili e mammiferi esistenti. Usando i dati morfometrici, hanno quantificato i modelli di regionalizzazione ed eterogeneità della colonna vertebrale  e confrontato la loro evoluzione per chiarire quando e come si è verificata la differenziazione della colonna vertebrale nei sinapsidi. 

Come era prevedibile nella maggior parte dei rettili e nei mammiferi monotremi la colonna vertebrale presenta 4 regioni, mentre in marsupiali e placentati ne presenta 5. 

la figura qui accanto confronta anfibi e diapsidi esistenti con alcuni sinapsidi permo – triassici e i loro discendenti mammiferi esistenti. Si vede che:

  • gli anfibi attuali, ad esempio le salamandre, hanno 2 sole regioni presacrali, torace e collo (come quelli fossili, non compresi nella tabella), per cui in questo gruppo non c’è stato un aumento della regionalizzazione della colonna vertebrale pre-sacrale da quando si è differenziato il collo nei primi tetrapodi 
  • l’aumento della regionalizzazione invece è una caratteristica comune negli amnioti,  indipendentemente in sinapsidi e diapsidi: gli amnioti basali, come gli anfibi, avevano anch’essi due sole regioni nelle vertebre pre-sacrali e se nei sinapsidi la differenziazione avviene a livello della schiena, nei anapsidi riguarda invece il collo
  • nei diapsidi attuali (rettili) la regionalizzazione, sia pure maggiore che nei non-amnioti anfibi, non è molto spinta, tranne che nei varani 
  • nei sinapsidi i pelicosauri hanno ancora solo 2 regioni presacrali e l’aumento della regionalizzaizone inizia dai terapsidi basali
  • fra i mammiferi, i monotremi hanno una regionalizzazione minore di marsupiali e placentati
  • nelle forme attuali ci sono casi isolati di bassa regionalizzazione, che quindi talvolta si è nuovamente ridotta nel tempo

Nella immagine, presa anche essa da Jones et al, 2018, si vede come la differenziazione
proceda nella schiena nei sinapsidi, mentre nei diapsidi riguarda il collo 
nei 3 crani di mammiferi molto diversi fra loro è
visibile il processo angolare della mandibola,
mentre la mandibola dei rettili è dritta


EVOLUZIONE DELLA MANDIBOLA MAMMALIANA E DELL’ORECCHIO INTERNO. Un altra questione interessante è quella della mandibola, la cui evoluzione rappresenta una delle più importanti innovazioni nella storia dei vertebrati, al passaggio fra i terapsidi più mammaliani, cinodonti, e i mammiferi:


  • l'osso che ospitava i denti inferiori si è ingrandito rispetto agli elementi postdenari, trasformando la mandibola a sette ossa dei cinodonti in un osso unico e massiccio;
  • alcuni elementi post-dentari sono stati integrati nell'orecchio medio e interno, migliorandone le prestazioni 
  • si è formata una articolazione secondaria delle mascelle 
  • la modifica della mascella è avvenuta indipendentemente, e in modo differente, in diversi gruppi di cinodonti e anche in tempi relativamente recenti visto che la mascella dell’ornitorinco non ha il processo angolare, la caratteristica curvatura di quella dei placentati e della maggior parte dei marsupiali (fra questi ultimi alcune forme che ne ne sono prive l’hanno successivamente persa durante l’evoluzione)

Questa evoluzione è ben documentata nei fossili, ma fino ad oggi c’è stato un paradosso: come potevano le ossa dell'articolazione mandibolare ancestrale funzionare sia come cerniera articolare per la masticazione che come orecchio? Di fatto molti lavori avevano evidenziato questo problema da parecchio tempo (ad esempio Bramble, 1978).


Lautenschlager et al (2018) hanno creato delle simulazioni al computer sui crani di diversi esemplari di cinodonti vicini ai mammiferi. È stato visto che il rapporto fra lunghezza della mascella da una parte e le sue prestazioni dall’altra (sforzi di trazione e compressione assoluti dell'articolazione mandibolare e forza del morso) non è lineare; insomma… nelle fauci le prestazoni diminuiscono meno delle dimensioni. Quindi la miniaturizzazione dell’animale ha fornito delle condizioni ideali per l'evoluzione dell'articolazione mascellare dei mammiferi, seguita dall'integrazione delle ossa postdentarie nell'orecchio medio.


Il quoziente di encefalizzazione in Cinodonti, mammiferi
basali (Mammaliformes), monotremi (prototheria).
marsupiali (metatheria) e placentati (eutheria)
da Kishida 2017 

PROLE E CERVELLO. Un terzo lavoro dimostra che due caratteristiche importanti dei mammiferi, basso numero di piccoli e espansione del cervello, non erano possedute da parecchi cinodonti. Nell’Arizona i sedimenti fluviali della formazione di Kayenta hanno fornito una grande quantità di nidiacei ben conservati del cinodonte Kayentatherium wellesi (segnalato nella figura della regionalizzazione della colonna vertebrale) con uno scheletro di un adulto che li ricopriva. La nidiata, evidentemente sepolto da una piena improvvisa, era composto da almeno 38 individui, un numero ben superiore a quello documentato nei mammiferi esistenti (Hoffman e Rowe al, 2018). Questa scoperta conferma che la produzione di una prole numerosa rappresenta la condizione ancestrale per gli amnioti, e inoltre fornisce un vincolo temporale per la riduzione del numero dei nati nella linea che ha portato ai mammiferi

Un altro aspetto interessante è nella morfologia dei piccoli: la forma del loro cranio è nel complesso simile a quella degli adulti, senza allungamento allometrico del viso tipico dello sviluppo fetale dei mammiferi. Lo svluppo maggiore del cervello è un tratto tipico dei primi mammiferi: nel genere Morganucodon, un mammaliforme basale – anzi “basalissimo”… –  aveva un indice di encefalizzazione molto più alto dei cinodonti (0.32 – praticamente il doppio) (Kishida, 2017).  Le uniche allometrie positive dei piccoli di Kayenatherium sono associate alle ossa che supportano la muscolatura masticatoria. Siamo già nel Sinemuriano, quindi nel Giurassico inferiore, quando esistevano già mammaliformi con caratteristiche più avanzate come Hadrocodium wui (Luo et al, 2001), con un indice di encefalizzazione di 0,49, superiore persino a quello di alcuni placentati odierni.
Quindi la divergenza fra gli antenati di Kayentatherium e quelli dei mammiferi è avvenuta prima della riduzione del numero della prole e della espansione del cervello che ha riorganizzato l'architettura cranica alla base di Mammaliaformes.
C'è l'ipotesi che il cervello si sia ingrandito per la necessità di migliorare l’olfatto dettata dalle abitudini notturne (e infatti in Morganucodon il bulbo olfattivo è molto grande), però è probabile che già molti pelicosauri avessero abitudini notturne 100 milioni di anni prima (Angielczyk e Schmitz 2014) e questo mette n pò in discussione questa idea

Angielczyk e Schmitz 2014 Nocturnality in synapsids predates
 the origin of mammals by over 100 million years. Proc. R. Soc. B 281: 20141642. http://dx.doi.org/10.1098/rspb.2014.1642 
Bramble, 1978 Origin of the mammalian feeding complex: models and mechanisms. Paleobiology 4, 271–301 (1978)
Brocklehurst et al 2013 The early evolution of synapsids, and the influence of sampling on their fossil record  Paleobiology, 39(3),. 470–490 
Brocklehurst et al 2017 Olson’s Extinction and the latitudinal biodiversity gradient of tetrapods in the Permian. Proc. R. Soc. B 284: 20170231. 
Hoffman e Rowe  2018 Jurassic stem-mammal perinates and the origin of mammalian reproduction and growth Nature 561, 104-10 8   
Kishida 2017  Evolution of the Mammalian Brain with a Focus on the Whale Olfactory Bulb in Shigeno et al (eds) Brain Evolution by Design - From Neural Origin to Cognitive Architecture Spinger 
Jones et al 2018 Fossils reveal the complex evolutionary history of the mammalian regionalized spine Science 361, 1249–1252 
Lautenschlager et al 2018 The role of miniaturization in the evolution of the  mammalian jaw and middle ear Nature, in press
Luo et al, 2001 A New Mammaliaform from the Early Jurassic and Evolution of Mammalian Characteristics Science, 292, 1535-1538
McGhee et al 2012 Ecological ranking of Phanerozoic biodiversity crises: The Serpukhovian (early Carboniferous) crisis had a greater ecological impact than the end-Ordovician Geology 40, 147-150
Smithson et al 2012 Earliest Carboniferous tetrapod and arthropod faunas from Scotland populate Romer’s Gap PNAS 109/12, 4532-4537



Il monitoraggio satellitare continuo del territorio toscano è da oggi disponibile sul sito della Regione

$
0
0

Il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze sta effettuando un monitoraggio satellitare in continuo delle deformazioni del terreno sul territorio regionale toscano per conto della Regione Toscana, avente come obiettivo generale l’aggiornamento dinamico del quadro conoscitivo per il rischio idrogeologico: si tratta, considerando le varie orbite, di quasi due milioni di punti (bersagli permanenti) di cui si conoscono i movimenti dal 2015. L’analisi delle mappe di deformazione ricavate dal movimento dei singoli punti permette l’individuazione delle aree interessate da fenomeni di dissesto (principalmente frane e subsidenza) e l’analisi delle serie temporali permette di rilevare aree anomalie, ovvero quelle zone che si muovono in modo diverso rispetto al passato e che quindi necessitano di ulteriori indagini ed approfondimenti. È quindi possibile effettuare uno screening generale di strutture ed infrastrutture, compatibilmente con la risoluzione dei satelliti utilizzati. Questo progetto, che rappresenta la prima esperienza mondiale di un monitoraggio satellitare continuo a livello regionale al mondo, dopo un periodo di sperimentazione era stato presentato nell'aprile 2018 a stampa e professionisti interessati: da oggi una sua parte e cioè la mappatura generale e le elaborazioni delle serie temporali dei dati di ogni singolo punto, sono accessibili a tutti dal portale della Regione Toscana.


Ho già parlato, quando fu presentato al pubblico, del monitoraggio radar satellitare in continuo delle deformazioni del suolo in Toscana. Riassumo brevemente la questione: il progetto è partito dal 2015 e si fonda sulla analisi dei dati dei radar interferometrici, grazie al lancio e alla messa in opera dei satelliti della famiglia Sentinel-1, lanciati e gestiti dall’Agenzia Spaziale Europea e progettati proprio per acquisire dati di deformazione in continuo su scala regionale e nazionale. 

Gli attori principali del progetto sono 4:

  1. la Regione Toscana, il committente, che trasmette le informazioni acquisite dal monitoraggio radar satellitare agli enti competenti 

  2. il Dipartimento di Scienze della Terra dell’Università di Firenze, che analizza e interpreta i dati, monitora in continuo lo scenario deformativo del territorio della Regione Toscana ed emette il relativo bollettino ogni 12 giorni 

  3. il LAMMA, che recepisce i dati (PS) derivanti dall’elaborazione delle immagini (shapefiles), li archivia sui suoi server in un database relazionale e li rende fruibili (sia come download diretto che come servizi web su geoportale) a tutti i potenziali utilizzatori
  4. 
la Protezione Civile che ne fa strumento di prevenzione e organizza le procedure per gli eventuali interventi che i dati suggeriscono

I beneficiari sono anche tutti gli enti locali quando si tratta di programmare l’uso del territorio, perché il monitoraggio consente di evitare la scelta di realizzare infrastrutture in zone a rischio di movimento; inoltre è un ottimo ausilio per i DODS (Documenti Operativi per la Difesa del Suolo). La descrizione del sistema la potete trovare in questo post. 
L’uso dell’interferometria satellitare non è certo una novità: è infatti impossibile determinare quanti territori sono sorvegliati in questo modo, ma la novità del progetto è un monitoraggio, principalmente a scopo preventivo, di un intero territorio regionale. 

Il progetto si divide in due attività diverse:

  • 
il mapping. un prodotto in cui l’elaborazione dell’archivio storico, e cioè le serie temporali 
dei dati di ogni singolo punto, consente di elaborare una mappa della deformazione del 
suolo e la evidenziazione delle zone e degli elementi a rischio 
  • 
il monitoring, un servizio che viene elaborato ogni 12 giorni in base ai dati degli ultimi passaggi dei satelliti ed emette i bollettini di monitoraggio

Ricordo che un singolo dato anomalo in un bersaglio non può essere considerato una anomalia perché una anomalia per essere considerata tale deve persistere per un certo periodo di tempo: infatti lo scostamento del singolo dato può avere cause diverse da quella del movimento (per esempio può essere solo dovuto a variazioni atmosferiche non calcolate).
 Sul portale pubblico è stata inserita esclusivamente la parte di mapping, nella quale è consultabile la serie temporale dei dati; e a questo proposito è interessante notare che i nuovi dati consentono una correzione di quelli precedenti per cui più il dato è vecchio, più è affidabile.

Un esempio di anomalia:
Un bersaglio ha cambiato bruscamente comportamento, 
iniziando un forte movimento di abbassamento
CHE COSA SI VEDE E COSA NON SI VEDE CON QUESTO MONITORAGGIO. Le criticità che vengono segnalate, sono di due tipi: 
  • un movimento che inizia bruscamente 
  • un movimento costante che cambia la velocità. 
La soglia fissata per l’allarme è una variazione di velocità maggiore di 10 mm/anno.
I bersagli permanenti sono edifici o speroni rocciosi: se gli edifici si muovono si suppone che lo facciano a causa dei movimenti del terreno, specialmente se edifici vicini fra loro mostrano lo stesso comportamento. Inoltre con certi accorgimenti è possibile fare delle osservazioni anche su terreni erbosi (i cosiddetti “bersagli diffusi”), ma le superfici boscate sfuggono in ogni caso al monitoraggio perché gli alberi si muovono.
È possibile comunque creare dei dispositivi che diventano dei bersagli permanenti: essenzialmente si tratta di scatolari metallici che se orientati nel modo giusto, e cioè lungo la linea di vista dei satelliti, possono diventare, appunto, dei bersagli permanenti. Ovviamente questi dispositivi devono essere visibili dai satelliti e quindi in caso di superficie boscata occorrerebbe una radura.

Un esempio di frana: nell'orbita discendente i bersagli si allontanano
mentre in quella ascendente si avvicinano al satellite
ex miniera di Cavriglia (Ar)

I valori positivi di una misura rispetto a quella precedente indicano avvicinamento al satellite, i valori negativi indicano allontanamento dal satellite. Ne consegue che essendo le orbite sfalsate, in caso di movimenti verticali i dati delle due orbite saranno concordi. Se invece i dati indicano movimenti opposti (ad esempio l’orbita discendente indica un allontamento al satellite, quella ascendente un avvicinamento, come nella figura), il movimento avrà una componente orizzontale prevalente, in questo caso verso est. Siccome i satelliti guardano “a destra” in un’orbita ascendente (dal polo sud al polo nord) l’avvicinamento è un movimento verso ovest, l’allontanamento è un movimento verso est. Viceversa nell’orbita discendente.

É importante considerare che questa tecnica non è in grado di rilevare cedimenti e movimenti improvvisi e questo è valido sia per le frane che sugli edifici, ad esempio nel caso che un edifico subisca un collasso strutturale rigido improvviso senza deformazioni precedenti all'evento o nel caso di una frana che si verifichi per l’intervento improvviso di cause esterne. Inoltre il sistema vede al meglio la componente verticale e quella est – ovest del movimento, ma per la sua geometria non può vedere la componente nord – sud

In caso di movimenti verticali, in particolare la subsidenza
in entrambe le orbite i satelliti leggono lo stesso movimento (Pistoia)
FENOMENI E STRUTTURE MONITORABILI. Queste osservazioni sono utili nel caso di deformazioni progressive, essenzialmente per:
  • frane a cinematica lenta: da questo punto di vista il monitoraggio è molto interessante, sia perché una frana così (meno di 2.5 cm/anno) può passare inosservata, sia perché anche un frana veloce inizia sempre con movimenti lenti. È evidente che osservare movimenti che possano precedere l’innesco di un fenomeno franoso più importante rappresenta una ottima occasione per prevenire il fenomeno stesso e, soprattutto, i suoi possibili danni. È altrettanto evidente, come ho già fatto notare, che il sistema non funziona in caso di innesco rapido di un evento franoso dovuto a cause che perturbano improvvisamente lo stato del terreno: un evento classico è quello avvenuto nei pressi di Laces il 12 aprile 2010, quando una frana dovuta alla rottura di una condotta dell’acqua per l’irrigazione di un frutteto si è abbattuta improvvisamente e inaspettatamente sulla linea ferroviaria Merano – Malles, provocando il deragliamento di un treno 

  • subsidenza del terreno: ne ho parlato spesso, per esempio qui, riferendomi al caso di Pistoia, e ne parlerò di nuovo, perché i dati dei radar interferometrici hanno letteralmente rivoluzionato lo studio di questo fenomeno e ne rappresentano oggi la base analitica ottimale, offrendo uno straordinario sguardo di insieme a livello regionale del problema
  • movimenti tettonici: l’interferometria radar è fondamentale non solo per determinare le modificazioni della topografia dopo un evento sismico principale, ma anche per evidenziare il creep asismico lungo alcune faglie che si muovono lentamente senza produrre terremoti. In questi casi rispetto all’uso di stazioni GPS appositamente allestite l’interferometria a bersagli permanenti permette una copertura ben più fitta del territorio senza azioni a terra
  • attività vulcanica: anche in questo caso valgono le stesse considerazioni fatte sui movimenti tettonici, con in più la notazione che l’osservazione dallo spazio evita rischi per il personale che studia l’evento. Questa è una considerazione a livello generale perché in Toscana non ci 
sono vulcani attivi 

  • strutture arginali: le dighe foranee sono degli ottimi riflettori e sono ben monitorabili con questa tecnica. È invece difficile monitorare gli argini, quando non presentano specifici bersagli
  • 
per quanto invece riguarda gli edifici, per essere un bersaglio un manufatto in genere deve essere un buon riflettore delle microonde 
Il Ponte Vespucci è invisibile con le microonde
Quindi, a proposito dei manufatti, non tutte le strutture sono monitorabili in questo modo, e questo vale specialmente per una classe di manufatti verso i quali attualmente c’è una focalizzazione particolare dell’opinione pubblica e cioè i ponti. Per esempio, a Firenze l'interferometria radar è in grado di sorvegliare la maggior parte dei ponti, perchè presentano numerosi bersagli utili; solo il Vespucci e il San Niccolò hanno qualità scadenti dal punto di vista della riflessione delle microonde, per cui la loro osservazione satellitare sarebbe possibile solo tramite i dispositivi appositamente installati per fungere da bersagli: altrimenti vanno usate tecniche differenti da terra. 
Inoltre è bene ricordare che dati interferometrici non sono uno strumento utile al fine di stimare la presenza di problemi strutturali in edifici ed infrastrutture ma servono per valutare gli effetti di movimenti del terreno sulle strutture.

IL PORTALE ONLINE
si trova a questo indirizzo. Tutta l’infrastruttura per l’ottenimento, l’archiviazione e la fruizione dei dati è stata implementata facendo uso di tecnologie Open Source e i dati geospaziali vengono condivisi attraverso gli standard per l’interoperabilità dell’OGC (Open Geospatial Consortium) 
Entrando nel portale sono disponibili i termini di utilizzo dei dati, un breve manuale (per favore, leggete, soprattutto, la sezione sulle “pratiche da evitare”!!!!) e i file .zip da scaricare delle varie mappe. In più può essere effettuata la consultazione online, in ambiente webGIS. 

Il WebGIS è organizzato secondo un layout standard proprio dei visualizzatori dei dati spaziali: 

  • la tavola dei contenuti, dove sono elencati i livelli disponibili alla visualizzazione e alcuni strumenti di interazione con tali livelli 

  • la mappa per la visualizzazione e l’interazione con i dati contenuti
  • 
vari strumenti che permettono di zoomare nella mappa, interrogare gli oggetti, stampare la mappa e aggiungerci nuovi livelli (siano essi dei dati presenti in locale che provenienti da geoservizi messi a disposizione da altri enti) 


I livelli presenti sulla mappa possono ovviamente essere attivati e disattivati a piacere e il tool di interrogazione dei punti corrispondenti ai bersagli è attivato di default, permettendo la visualizzazione della serie temporale di deformazione dall’inizio del periodo monitorato fino alla data dell’ultima acquisizione satellitare disponibile. 
Oltre ai dati interferometrici sono presenti alcuni dati provenienti dai servizi di Geoscopio di Regione Toscana, come i dati di infrastrutture e trasporti provenienti dal progetto ITERNET (strade, ferrovie e loro classificazione). Sono anche a disposizione le varie tipologie di ponti presenti sul territorio regionale. 

Ci sono altre utili possibilità: 


  • effettuare ricerche geografiche per indirizzi o località,
  • 
aggiungere dinamicamente altri livelli da altri geo-servizi come ad esempio Geoscopio o Portale Cartografico Nazionale
  • aggiungere a piacere vari formati di file vettoriali in possesso dell’utente (shapefile compressi, file di tracce gps, o file in formato kml/kmz)

Insomma, questa esperienza, per adesso unica al mondo, oggi è in parte disponibile a tutti sul portale della Regione Toscana ed oltre ad essere un servizio utile è anche un esempio di come le tecnologie satellitari possano essere un ausilio importante non solo in aree specifiche dove c’è un problema, ma anche servire a livello regionale per l’uso del territorio e la prevenzione dei danni di alcuni fenomeni



Il terremoto e lo tsunami di Sulawesi del 28 settembre 2018.

$
0
0

Il 28 settembre un forte terremoto M 7.4 ha colpito la parte NW dell’isola di Sulawesi, preceduto 3 ore prima da un evento M 5.9 con un epicentro ad una trentina di km più a sud rispetto a quello dell’evento principale. Quello che è successo dopo rappresenta una classica serie di avvenimenti caratteristici di uno scenario disastroso innescati da un forte evento sismico, e cioè tsunami, frane e liquefazioni del terreno. La situazione umanitaria è molto difficile, sia dal lato squisitamente tecnico di un post-terremoto di questo tipo sia dal lato sanitario: le previsioni del tempo non sono per niente favorevoli e il rischio di epidemie è particolarmente alto. Ho aspettato a parlare di questo evento perché ho voluto vederci chiaro sulla questione dello tsunami e dalla relativa allerta, la cui tempistica all’inizio non era molto chiara. In particolare sembrava che lo tsunami fosse avvenuto molto dopo e che quindi non fosse dovuto direttamente al terremoto ma ad una successiva frana sottomarina. La ricostruzione degli eventi dimostra con certezza che l’emissione dell’allerta sia stata tempestiva e che lo tsunami sia avvenuto durante l’allerta; comunque si ipotizza che una frana sottomarina abbia contribuito all’entità del fenomeno.

L'evento principale (stella rossa) e le repliche dimostrano
la vastità dell'areainteressata dal movimento
L’Indonesia è notissima per i terremoti: lo scontro fra la placca indoaustraliana e l’Eurasia ha consumato l’oceano che stava fra India e Tibet formando l’Himalaya; da qui il limite fra le placche scende verso sud provocando la sismicità della Cina di SW e della Birmania per poi dirigersi in mare: tra Birmania e Australia infatti c’è ancora tanta crosta oceanica che scende sotto l’Eurasia provocando l’intensa sismicità presente tra Andamane, Giava e Timor: tutti ricordano in particolare il terribile terremoto del dicembre 2004 a Sumatra. Ma il fronte dell’arcipelago della Sonda che dà sull’Oceano Indiano non è l’unica zona sismica importante di questa regione, come dimostrano gli eventi di questa estate a Lombok, sul back-thrust nella parte opposta dell’arcipelago rispetto quella rivolta all’oceano, di cui ho parlato qui; adesso, per la seconda volta nel 2018, la nazione del SE asiatico è alla ribalta nelle cronache sismiche in una zona diversa dalla grande linea sismica e vulcanica rivolta verso l’oceano indiano: il terremoto M 7.5 del 2018 09 28 avvenuto a Sulawesi, quasi 1000 km a nord di questo allineamento, che ha provocato danni ingenti e molte vittime, non solo per i crolli in se, ma anche per le liquefazioni del terreno e per i successivo tsunami.
L’epicentro del terremoto è stato localizzato circa 80 km a nord di Palu, ma una Magnitudo del genere corrisponde ad una sorgente non puntiforme: di fatto si è mosso un segmento della faglia di Palù – Koro lungo ben oltre 100 km e quindi la fascia di massimo risentimento, che essendo una faglia trascorrente subverticale è una striscia lunga e stretta, si estende molto lontano dal punto in cui è iniziata la rottura. Questa carta, ottenuta tramite l’Iris Earthquake Browser, dimostra quanto lungo è il segmento della faglia interessato dal movimento.

La compressa interazione fra Eurasia, Wallacea, Australia
e placca del Mare delle Filippine
QUADROGEOLOGICO REGIONALE. Sulawesi è tra le 15 isole più grandi del mondo ed è una delle più strane dal punto di vista della forma, con quelle 4 penisole che si estendono da un piccolo corpo centrale. La geodinamica di quest’area è diversa ma, soprattutto, ben più complessa di quella, semplice, dell’arcipelago della Sonda: al posto di una convergenza lineare fra due placche abbastanza ben definita, pur con qualche struttura accessoria, come dimostrano gli eventi di qualche mese fa già citati, quelli all’interno di Sumatra del 2009 e quelli dell’Oceano Indiano nel 2012, Sulawesi è la periferia di una regione in cui troviamo interazioni molto intense fra 3 placche maggiori diverse: la placca indoaustraliana (grossolanamente) e quella del mare delle Filippine, che si scontrano con velocità rispettivamente di 7,5 e 9 cm / anno con la placca eurasiatica (o più precisamente con il blocco dell’Asia di SE o “blocco della Sonda”). Ho scritto “grossolanamente” a proposito della placca indoaustraliana perché tra Kalimantan e Nuova Guinea ci sono attualmente diverse piccole placche di minore grandezza (Halmahera,  Bird’s Head, Sula, Caroline, mare delle Molucche); tutte queste placche esprimono una intensa sismicità non sono ai loro confini, ma anche lungo zone di deformazione interna e ci sono molteplici subduzioni. Ho scritto “attualmente” perché nel blocco della Sonda tra Sumatra e Kalimantan ci sono le tracce di altre microzolle o di piccoli bacini oceanici tipo l’attuale mare delle Molucche che sono state inglobate in questo dopo essercisi scontrate e che quindi non esistono più (Metcalfe, 2013). Proprio quella del mare delle Molucche è un esempio attuale di microplacca in via di estinzione: la sua crosta oceanica sta subducando sia verso est sotto la placca di Halmahera sia verso ovest sotto le isole Sangihe (il prolungamento verso le Filippine della penisola di Minnahassa, il braccio settentrionale di Sulawesi) (Zhang et al, 2017), con relativi archi magmatici; per fate un esempio di casa nostra, un pò come la placca adriatica sta finendo sia sotto gli Appennini che sotto le Dinaridi.
Globalmente questo insieme di microplacche è compreso in Wallacea. Si tratta di blocchi di affinità gondwaniana, originariamente posti vicino all’Australia, che stanno andando a collidere con l’Eurasia come hanno già fatto quelli oggi inglobati nel blocco della Sonda tra Sumatra e Kalimantan.
Wallacea prende il nome dalla “linea di Wallace”, il limite orientale delle faune euroasiatiche a mammiferi placentati (passata solo, in maniera naturale, dai soli roditori): questa linea scorre proprio tra Kalimantan (il nome attualmente corretto del Borneo) e Sulawesi, lungo lo stretto di Makassar che le divide, e questa differenza principale nella zoogeografia è una conferma indipendente della non appartenenza di Wallacea all’Eurasia. Il nome è, ovviamente, un omaggio al grande naturalista Alfred Russell Wallace. Più ad est scorre la linea di Lydekker, che è il limite occidentale delle faune marsupiali di Australia e Nuova Guinea.

Il moto dell’Australia verso nord ha avuto delle conseguenze importanti a lunga distanza anche sull’origine di Homo, perché ha chiuso la porta asiatica di SE, una delle principali aree di scambio delle acque fra gli oceani che esistevano nel Terziario, sostituendo un braccio di mare piuttosto importante tra l’Oceano Pacifico e l’Oceano Indiano con un sistema di piccole soglie, spesso di debole profondità; ciò ha precluso alle acque tropicali del Pacifico il passaggio verso SW e di conseguenza l’oceano Indiano si è raffreddato e ne è diminuita l’evaporazione, contribuendo all’inaridimenti nel quaternario di buona parte delle sue coste (Cane e Molnar, 2001) e soprattutto consegnando alle australopitecine un paesaggio molto diverso da quello della foresta tropicale nella costa africana che vi si affaccia.

La faglia di Palu - Koro in Walpersd et al, 1998
SULAWESI E LA FAGLI DI PALU – KORO. Sulawesi si trova proprio nel centro della giunzione tripla tra le 3 placche principali maggiori (considerando grossolanamente Wallacea una parte dell’Australia) e il terremoto è avvenuto lungo la faglia di Palu-Koro, che attraversa l’isola e che insieme alla faglia di Matano delimita il blocco di Sula, che ne forma la parte settentrionale; poco più a nord la faglia cambia significato e diventa la linea lungo la quale la placca del mare delle Filippine subduce verso sud lungo la penisola di Minnahassa e quindi sotto la parte settentrionale di questo blocco. Negli anni ‘90  misurazioni GPS hanno dimostrato che la faglia Palu – Koro è caratterizzata da uno scorrimento asismico laterale di ben 3,4 cm / anno, con una piccola componente estensionale di 0,4 cm / anno e che la faglia è bloccata ad una profondità stimata intorno agli 8-16 km. In più i terremoti importanti vicini la fanno ulteriormente muovere: ad esempio in occasione dei terremoti di Minnahassa del 1996 (M 7.9 del 1 gennaio e M 6.6 del 16 e 7.0 del  22 luglio, localizzati nel nord dell’isola e collegati alla compressione lì in atto) ha fatto aumentare la media annua del movimento lungo la faglia a 6.3 cm/anno. Gli autori di quella ricerca hanno ipotizzato che gli eventi del 1996 abbiano determinato un aumento dello stato di sforzo lungo questa faglia (Walpersd et al 1998). 

TSUNAMI E TERREMOTI A SULAWESI.  La parte settentrionale dell’isola è continuamente bersagliata da terremoti molto forti: solo dal 1990 contiamo 7 eventi a M 7 o superiore, e altri 17 con M compresa tra 6 e 6.9. Wichmann (1918) documenta sulla costa occidentale di Sulawesi uno tsunami nel 1820. Ma fra quelli generati direttamente nello stretto di Makassar e quelli che vi arrivano da lontano, se si considerano tutte le coste dell’isola, Sulawesi è stata colpita da 20 tsunami dall’inizio del XX secolo, piccoli o grandi. In particolare sulla costa occidentale sono noti uno tsunami nel 1927 e uno nel 1968. Sull’evento del 1927 qualcosa personalmente non mi torna, perché risulta innescato dal terremoto M 6.3 del 12 gennaio con onde alte oltre 10 metri, provocando 50 vittime: mi pare una M troppo debole, a meno del concorso nell’innesco delle onde da parte di una frana e in effetti in un bollettino dell’ASEAN Coordinating Centre for Humanitarian Assistance on disaster management (AHA Centre) ne parla come di un evento a M 7.4, ma non sono riuscito a trovare la referenza bibliografica indicata; quello del 1968 è invece in relazione al terremoto M 7.2 del 14 agosto 1968, più o meno nella posizione e con il significato, degli eventi del 1996, con onde alte più di 8 metri.

LO TSUNAMI DEL 28 SETTEMBRE. La dinamica dello tsunami del 28 settembre non è ancora del tutto chiarita: in generale i terremoti a meccanismo trascorrente non sono ritenuti in grado di muovere il fondo marino in maniera tale da produrre onde di particolare importanza. Quindi vengono ipotizzate delle concause oltre allo scuotimento del fondo marino; in particolare l’innesco di una frana circa 200 – 300 metri sotto il livello del mare nei sedimenti che provengono dai fiumi e che non sono ancora consolidati (ricordo che data la quantità di pioggia e l’energia del paesaggio, il tasso di erosione da quelle parti è molto alto e i fiumi portano un carico di sedimenti piuttosto elevato). Questo spiegherebbe anche la fangosità delle prima delle 3 ondate che hanno colpito la costa. Inoltre è probabile che anche la topografia della baia di Palu abbia contribuito ad aumentarne l’altezza. Sono molti gli tsunami che vengono provocati da frane innescate da terremoti, per esempio nei casi del terremoto M 7.2 del 2 settembre 1992 in Nicaragua e del terremoto M 7.0 del 17 luglio 1998 in Nuova Guinea e questa ipotesi è considerata anche per lo tsunami di Messina del 1908

TSUNAMI E ALLERTA: TUTTO REGOLARE. Per quanto riguarda l’allerta, non è vero che lo tsunami è arrivato dopo la fine dell’allerta. Il BMKG, l’agenzia nazionale indonesiana per la meteorologia, la climatologia e la geofisica, aveva regolarmente attivato l’allerta per le coste dalla baia di Palu in poi verso nord, allerta conclusa alle 18.36 quando le tre ondate si erano già abbattute sulle coste. In realtà l’unica discrepanza è un ritardo nell’arrivo: previste per le 17.22 locali, le tre onde sono arrivate fra le 17.27 e le 17.32. Tantomeno, in questo caso, si può dire che il problema sia stato quello delle boe non funzionanti, perché l’allerta c’era; sarebbe stato un problema se e solo se l’allerta non fosse stata emessa: in quel caso senza le boe non ci sarebbe stato l’allarme. Annoto che in Indonesia il mancato funzionamento delle boe ha avuto delle ripercussioni, ad esempio nel 2010 a Sumatra quando non segnalarono uno tsunami  perché erano fuori uso in quanto utilizzate come ormeggi dai pescatori.

LE LIQUEFAZIONI DEL TERRENO. Una parte importante dei danni la dobbiamo alle liquefazioni del terreno, che sono state veramente imponenti e di cui circolano diversi video e immagini.  Faccio solo vedere questa immagine satellitare dei danni a Palu, dove si vede un quartiere intero, Balaroa, che è andato totalmente distrutto proprio per le liquefazioni.

danneggiamenti a Palu. Immagine del satellite ESA Copernicus

I danneggiamenti sulle strade a su di Palu (AHA Center)
SITUAZIONE ATTUALE. Per fortuna ci sono diversi aeroporti agibili, anche se con piste non lunghissime e quindi l’affluenza nell’isola dei soccorsi è abbastanza regolare, mentre i problemi sono ad uscire dagli aeroporti:  il quadro è davvero critico, perché le repliche si succedono senza interruzione (siamo ad oltre 500); molte di queste sono distintamente avvertibili e il rischio è che scuotimenti anche modesti possano mettano in movimento altre frane, aggiungendosi a quelle che, già cadute, bloccano molte strade. La viabilità è resa difficile anche da liquefazioni del terreno, macerie e dai ponti crollati o danneggiati. Vediamo qua la situazione a sud di Palu, dal sito dell’AHA center. 
Inoltre fa caldo e il rischio di epidemie è altissimo, soprattutto tifo e colera. Per questo la sepoltura dei cadaveri è avvenuta in fretta in fosse comuni allestite rapidamente. Inoltre le prossime settimane si annunciano più piovose e più calde del normale, tanto per complicare ulteriormente le cose.

Cane e Molnar 2001 Closing of the Indonesian seaway as a precursor to east African aridification around 3±4 million years ago Nature 411, 157-162
Metcalfe 2013 Gondwana dispersion and Asian accretion: Tectonic and palaeogeographic evolution of eastern Tethys Journal of Asian Earth Sciences 66, 1–33 
Walpersd et al 1998  Monitoring of the Palu-Koro Fault (Sulawesi) by GPS Geoph. Res. Lett.  25/13, 2313-2316 98 
Wichmann 1918 Die Erdbeben Des Indischen Archipels J. Müller (Amsterdam)
Zhang et al 2017 Geodynamics of divergent double subduction: 3-D numerical modeling of a Cenozoic example in the Molucca Sea region, Indonesia J. Geophys. Res. Solid Earth, 122, 3977–3998



i movimenti della base dell'Etna e gli tsunami vulcanici

$
0
0


Fra i terremoti a sud del vulcano e l’articolo – uscito con un singolare tempismo in questi giorni – sulle faglie che si sono mosse  in mare immediatamente a largo di Acireale non si contano le esternazioni della stampa (soprattutto quella web da clickbaiting) in tutto il mondo secondo le quali l'Etna si sta tuffando nello Ionio, con scenari apocalittici di mega-frana e tsunami. In realtà questi scenari sono, a scala planetaria, poco frequenti ma parecchio catastrofici quando si verificano in un vulcano che si affaccia sul mare e c’è davvero da augurarsi che non succedano presto, visto appunto sono rari e che l’ultimo è di poco meno di 150 anni fa (correva l’anno 1883 quando esplose il Krakatoa). Quanto all’Etna, in effetti sta scivolando lentamente ma da qui a dipingere scenari così catastrofici dopo un articolo che porta delle ricerche innovative su un argomento comunque noto da quasi 30 anni ce ne corre…. Vediamo però di che rischio si tratti e cosa succede in questo momento nei dintorni di Catania.

I vari tipi di collassi dovuti ad una eruzione da Hunt et al (2018)
è chiaro il rischio tsunami se questi eventi avvengano su pendici esposte al mare
I VULCANI: GIGANTI APPARENTEMENTE MASSICCI MA SPESSO MOLTO DELICATI.Due giorni dopo l’inizio di una eruzione laterale effusiva due frane si staccarono dalla montagna lungo la Sciara del Fuoco a Stromboli il 30 dicembre 2002 e precipitando in mare crearono uno tsunami che fece un po' di danni tra Eolie e Sicilia (Bonaccorso et al, 2003). Nel XX secolo Stromboli ha prodotto diversi eventi di questo tipo, di cui purtroppo si ricorda solo la Scienza ma non la memoria collettiva. Alla fine è stato un evento di ridotte dimensioni rispetto a quello che può accadere, ad esempio quando un vulcano posto in un’isola esplode, come successe in Indonesia per l’eruzione del Krakatoa del 1883. 
In generale i pendii dei vulcani sono soggetti a franare, perché sono strutture in cui si accumulano molti materiali in uno spazio ristretto e infatti, a parte alcune eccezioni, sono montagne che possono raggiungere altezze considerevoli in poche migliaia di anni e molte di quelle più basse lo sono a causa di esplosioni o di collassi calderici che ne hanno distrutto le parti più alte: limitandoci a casa nostra guardiamo i 3300 metri di altezza dell’Etna, ma nel Tirreno le altezze sono paragonabili: la base dello Stromboli è situata molto in profondità per cui si tratta di un picco ben più alto dei 1000 metri di quota a cui arriva la sua cima; un altro esempio noto è il Marsili, la cui vetta si trova ad appena 700 metri dalla superficie, ma la piana batiale su cui è cresciuto è ad oltre 3000 metri di profondità. 
Si comprende quindi come i vulcani possano essere strutture piuttosto instabili anche non in caso di eruzioni distruttive e sono spesso oggetto di frane, che possono assumere dimensioni catastrofiche e in quelli che si affacciano sul mare (una discreta percentuale del totale) la cosa pone una seria minaccia di tsunami, con onde che possono arrivare a dimensioni mai viste nella breve storia umana. 
Chiaramente in fase eruttiva queste frane sono molto più probabili e aumentano la drammaticità dell’evento anche sulla terraferma lontano dal mare, come successe ad esempio nell’eruzione del St. Helens del 1980, dove per effetto di un terremoto con M5 si creò una imponente frana: all’interno della montagna la perdita del peso della parte franata fece diminuire la pressione che confinava l’acqua calda che vi era contenuta, provocandone un rilascio improvviso ed esplosivo (caso "C" della figura).
E alla fine si è trattato di un evento che ha rilasciato solo (si fa per dire) un volume inferiore a 5 km3. In realtà i fondi marini intorno a certi arcipelaghi vulcanici come Hawaii e Canarie testimoniano collassi che interessano volumi ben maggiori: ad esempio alle Canarie sono documentati, eventi che hanno coinvolto oltre 300 km3 di materiali (Hunt et al. 2018) in corrispondenza di esplosioni maggiori a cui segue il collasso di uno dei vari vulcani dell’arcipelago; una cosa del genere avrebbe oggi conseguenze incalcolabili su tutte le coste dell’oceano Atlantico, innescando a causa dei danni anche una crisi economica devastante. 


L'area tra la faglia della Pernicana e il sistema Tremestieri-Acitrezza
che si sta muovendo verso est (da Urlaub et al, 2018)
IL CASO-ETNA. In Italia oltre ai vulcani delle Eolie (ricordo che oltre a Stromboli e Vulcano, anche Lipari e Panarea sono tutt’altro che spenti), un vulcano che potrebbe provocare degli tsunami a causa delle frane è l’Etna.
Il vulcanologo dell’INGV Boris Behncke osserva: che i fianchi orientale, sud-orientale e meridionale dell'Etna si stiano muovendo verso l'esterno, lo sapevamo (e l'abbiamo detto in numerosissime pubblicazioni ma anche in molte conferenze per il pubblico) da più di 15 anni. Le prime ipotesi su questi movimenti sono uscite nel 1991, la conferma l'abbiamo avuta in maniera impressionante durante l'eruzione etnea del 2002-2003.
In questa occasione proprio l’amico Boris ha riscontrato che lo sciame sismico precedente alla eruzione aveva prodotto una dislocazione di diversi decimetri (Behncke and Neri, 2003). Le prime ipotesi a cui accenna invece sono contenute in Neri et al (1991).
Movimenti dello stesso tipo di quelli del 2002-2003 sono stati documentati anche prima delle eruzioni avvenute tra luglio e agosto 2001, tra maggio 2008 e giugno 2009 e tra settembre 2004 e marzo 2005.
L’Etna “respira” e prima delle eruzioni principali si registra un rigonfiamento dell’edificio (una cosa normale per un vulcano del genere) che provoca anche uno scivolamento verso il mare. 
Fondamentalmente la parte orientale dell’edifico etneo sta scivolando verso lo Ionio tra due linee:

  • a nord-est lungo il sistema di faglie della Pernicana
  • a sud-est lungo il sistema di faglie di Tremestieri – Acitrezza

Naturalmente questi sistemi sono trascorrenti e altrettanto ovviamente quello settentrionale è una trascorrente sinistra, mentre quello meridionale è una trascorrente destra.
La situazione a sud è più complessa, perché è influenzata anche da una compressione sottostante che dovrebbe essere dovuta alla presenza e del sistema di alimentazione del vulcano, per qualche motivo è bloccato da una superficie sovrastante sulla quale esercita uno sforzo (Alparone et al, 2011). Il magma è presente solo nella parte meridionale del sistema perché la crosta in quella parte della Sicilia si sta muovendo verso NW rispetto alla sorgente nel mantello e quindi grossolanamente le parti più settentrionali del vulcano sono quelle più antiche.
Questi sistemi di faglia dalla terraferma proseguono in mare: in corrispondenza della faglia della Pernicana lungo la piattaforma continentale a nord c’è la dorsale di Riposto e il sistema di Tremestieri – Acitrezza continua con una importante faglia trascorrente.
A largo esistono anche due pieghe anticlinali che denotano una certa compressione in atto verso il margine della scarpata. Li vediamo nella figura tratta da Urlaub et al (2018).


I movimenti del versante orientale dell'Etna (da Puglisi e bonforte, 2004)
Tutti i dati satellitari concordano: il versante orientale dell’Etna si muova verso il mare ad una velocità di qualche centimetro l’anno (Puglisi e Bonforte, 2004). Ancora una volta si può osservare che è una cosa normale per vulcani di questo tipo, specialmente quando, come l’Etna, un enorme ammasso di materiale pesante si è messi in posto sopra successioni sedimentarie più leggere: è più o meno come mettere uno scatolone di materiale pesante sopra a un cuscino di gommapiuma; l’Etna ha pure l’aggravante di essere immediatamente a lato di una scarpata, e quindi nel caso della gommapiuma sarebbe uno scatolone posto al limite di uno dei lati del cuscino. Una situazione quindi decisamente delicata.
Nel 1996 fu appunto ipotizzato che la Valle del Bove fosse il risultato di un vasto collasso di una parte dell’edifico vulcanico avvenuto all’inizio dell’Olocene che avrebbe prodotto uno tsunami di vaste dimensioni, le cui tracce sul vulcano sarebbero rappresentate dal conoide del Chiancone (Calvari e Groppelli, 1996), ma sono difficili da trovare in marea a causa dell’aumento del livello marino dopo la fine dell’ultima glaciazione. Una traccia archeologica in verità forse esiste, un villaggio (Atlit-Yam) che ora si trova  a qualche metro di profondità lungo la costa israeliana e che mostra di essere stato abbandonato all’improvviso (Zohar et al., 2001), come sono stati attribuiti a questo evento dei depositi della piana batiale dello Ionio (Pareschi et al, 2006). Comunque questa ipotesi oggi sembra godere di meno favore rispetto a qualche anno fa. Venendo a Israele, carotaggi effettuati recentemente in mare a poche centinaia di metri dalla costa hanno evidenziato tracce di ben 4 tsunami di età molto più recente di quella dell’abbandono di Atlit-Yamdal (Tyuleneva et al 2018) ed è noto che anche in epoca storica degli tsunami si sono abbattuti sulla costa. Quindi un collegamento fra l’Etna e Atlit-Yam non può attualmente essere considerato sicuro o probabile, ma solo possibile.  


La variazione della distanza fra due sensori separati dalla faglia che continua
il sistema di Tremestieri - Acitrezza nel maggio 2017 (da Uralub et al, 2018)
MISURE DI DEFORMAZIONE DEI FONDALI ANTISTANTI L’ETNA. Il lavoro di cui si parla in questi giorni (Urlaub et al, 2018) colma una lacuna importante: i dati satellitari sono eccezionalmente utili (ne ho parlato spesso e li uso...) ma si possono ottenere esclusivamente sulla terraferma. Dei ricercatori hanno quindi messo sul fondo marino alcuni localizzatori. Il risultato è stato estremamente importante, perché tra il 12 e il 20 maggio 2017 i sensori hanno variato la distanza fra loro. La dislocazione è compatibile con un  movimento non inferiore ai 4 centimetri lungo la faglia trascorrente meridionale (il prolungamento in mare del sistema di Tremestieri – Acitrezza); inoltre l’area a nord della faglia si è sollevata di circa 1 centimetro (ricordate le pieghe anticlinali lungo la scarpata?). Visto che questi spostamenti non possono essere addebitati ad una frana, l’unica causa possibile è che ci sia stato una scorrimento lungo questa faglia e siccome nel periodo in oggetto non sono stati registrati dei terremoti siamo evidentemente davanti a un chiarissimo esempio di scorrimento asismico, che ha comunque rilasciato, nell’arco di qualche giorno, una energia pari ad un terremoto di M 5. 
Annoto che questo evento si colloca poco dopo le eruzioni di febbraio-aprile 2017, quando sull'Etna era ancora presente una piccola attività sommitale (Behnke, com. pers.)
La conclusione importante di questo lavoro è che le zone di taglio lungo le quali il versante orientale dell’Etna scivola lentamente verso est non solo iniziano ben oltre la linea di costa ma addirittura che la loro attività maggiore potrebbe essere appunto in mare.


LE VARIE IPOTESI SULLE MOTIVAZIONI DEL MOVIMENTO. Per spiegare il perchè di questo lento collasso, che viaggia alla velocità non certo irrilevante di qualche centimetro all’anno (Puglisi e Bonforte, 2004) sono state avanzate diverse ipotesi, che essenzialmente si dividono in tre campi:

  • il collasso è indotto dalla attività vulcanica, in particolare da episodi di aumento della pressione nel magma o dalla intrusione di filoni che si fanno posto nel basamento del vulcano
  • il collasso è indotto dalla gravità che agisce in qualche modo su un edifico in equilibrio precario
  • il collasso è indotto da cause tettoniche, in particolare dal sollevamento del basamento (di cui esistono ampie prove)

Urlaub et al (2018) propendono per una origine gravitativa del fenomeno; io penso che la causa non sia unica e che tutti questi meccanismi concorrano al movimento. Ho qualche idea su questo, ma essendo, appunto, idee e non potendo fornirne una dimostrazione la logica mi impone di evitare di esprimermi con maggiore dettaglio, anche se si può pensare che la attività vulcanica e quella tettonica farebbero anticipare i movimenti gravitativi che comunque avverrebbero lo stesso in seguito.


CONCLUSIONI. I giornalisti e soprattutto i siti che campano evidenziando cose più o meno fintamente clamorose si sono ovviamente buttati a picco su questa notizia, amplificandola e deformandola. In soldoni, il rischio esiste eccome, come esiste dovunque ci sia un vulcano lungo il mare. Per fortuna eventi di portata epocale sono estremamente rari e quindi è piuttosto difficile per un singolo essere umano assistervi.
Altrettanto per fortuna in genere una eventuale frana di ampie dimensioni dell’Etna verrebbe sicuramente prevista prima osservando un aumento della velocità di deformazione.   


Alparone et al 2011 Evidence of multiple strain fields beneath the eastern flank of Mt. Etna volcano (Sicily, Italy) deduced from seismic and geodetic data during 2003–2004 Bull Volcanol 73,869–885 

Behncke B, Neri M 2003 The July–August 2001 eruption of Mt. Etna (Sicily). Bull Volcanol 65:461–476. 

Bonaccorso et al 2003 Dynamics of the December 2002 flank failure and tsunami at Stromboli volcano inferred by volcanological and geophysical observations Geophysical Research Letters, 30/18, 1941 

Calvari e Groppelli 1996 Relevance of the Chiancone volcaniclastic deposits in the recent history of Etna volcano (Italy), J. Volcanol. Geotherm. Res., 72, 239–258

Hunt et al 2018 Multi-stage volcanic island flank collapses with coeval explosive caldera-forming eruptions Scientific Reports 8:1146 | DOI:10.1038/s41598-018-19285-2 

Neri et al (1991) Studio strutturale e modello cinematico della Valle del Bove e del settore nord-orientale etneo Acxta Vulcanologica 1, 17-24

Pareschi et al (2006) Lost Tsunami Geophys. Res. Letters VOL. 33, L22608, doi:10.1029/2006GL027790, 2006

Puglisi e Bonforte 2004 Dynamics of Mount Etna Volcano inferred from static and kinematic GPS measurements Journal Of Geophysical Research, 109, B11404, doi:10.1029/2003JB002878, 2004 

Tyuleneva et al 2018 A new chalcolithic-era tsunami event identified in the offshore sedimentary record of Jisr al-Zarka (Israel) Marine Geology 396,67-78

Urlaub et al (2018) Gravitational collapse of Mount Etna’s southeastern flank Sci. Adv. 2018; 4 : eaat9700

Zohar, I., T. Dayan, E. Galili, and E. Spanier (2001), Fish processing during the early Holocene: A taphonomic case study from coastal Israel, J. Archaeol. Sci., 28, 1041–1053

Riflessioni sull'assetto del territorio dopo gli ultimi eventi atmosferici

$
0
0




Ho già avuto qualche screzio con un paio di detentori di case abusive (dei quali uno potrebbe essere graziato – a nostre spese – dal nuovo condono strisciante ischitano) e continuo a non capire come sia possibile che una costruzione abusiva possa essere venduta, affittata, servita da utenze e segnalata con un numero civico… Continuo anche a chiedermi se l’abusivismo edilizio in zone a rischio sia una questione di irresponsabilità o di ignoranza: la differenza non è di poco conto perchè un irresponsabile sa di stare facendo una cosa sbagliata e/o pericolosa, mentre un ignorante non si rende conto di attuare un comportamento a rischio. D’altro canto è evidente l’atteggiamento quantomeno passivo nei confronti dell’abusivismo di alcune macchine comunali (dai sindaci in giù): visto che una casa non si costruisce in una notte, spiegatemi come sia possibile fare operazioni edilizie così evidenti senza che nessuno le noti…. Quando poi sento il sindaco di Agrigento (non so e non mi interessa il partito in cui milita) dire che i regolamenti urbanistici devono mettere al centro il cittadino, anziché, come sarebbe più logico, le esigenze dell’assetto del territorio e specialmente quelle dei fiumi, capisco che c’è poco da fare: bisogna rassegnarsi al “disastro continuo”. Ma facciamo il punto sulla situazione.




IL PARAGONE FRA 1966 E 2018, IN PARTICOLARE A PROPOSITO DEL VENETO. Martedì 30 ottobre tramite amici che stanno da quelle parti avevo capito che la situazione nell’Alto Veneto era estremamente drammatica e che la grande copertura mediatica sugli yacht di Portofino non puntava alle cose più importanti che erano successe in quei giorni; purtroppo solo qualche giorno dopo anche i media si sono – finalmente – accorti del dramma. D’accordo, anche qui qualcuno avrà esagerato costruendo qualcosa in un posto non troppo sicuro, ma stiamo parlando in questo caso soprattutto di frane e danni a boschi, anche se qualche vittima c’è scappata lo stesso… ma non riesco ad immaginare neanche lontanamente cosa potrebbe essere accaduto se ci fosse stata una situazione edilizia come quella di Contrada Cavallaro...

Domenica 28 ottobre era chiaro che la faccenda si stava mettendo molto male e ne parlavo con l’amico Michele Cavallucci dell’Osservatorio meteo – sismico di Perugia (seguite anche la pagina FB dell’osservatorio… interessante…): le figure atmosferiche erano le stesse, però non volevo essere il primo ad agitare lo spettro del 1966 e ho aspettato che lo dicesse qualcun altro. Trovo significativo che a farlo sia stato il governatore del Veneto, Zaia: è importante che il Governatore di una Regione potenzialmente interessata da un grave evento atmosferico sia il primo ad annunciare il rischio. 
Già, il Veneto. Perché se l’evento del novembre 1966 è ricordato universalmente per i danni subìti da Firenze, io insisto a chiamarlo “evento alluvionale della Toscana e dell’Italia di nord-Est”, in quanto gli epicentri del problema sono stati due: oltre alla Toscana (una buona parte, non solo Firenze), anche per i monti del Triveneto è stato un avvenimento epocale.
La situazione dei primi di novembre del 1966
Ai primi di novembre del 1966 sulla Spagna c’era un’area depressionaria, il cui profondo minimo di 994 hPa provocò una massiccia evaporazione nel Mediterraneo occidentale. Purtroppo, contemporaneamente, sui Balcani insisteva un’alta pressione che ha bloccato la perturbazione nel suo movimento verso est, costringendola a scaricare quindi sulla nostra penisola tutta la sua acqua; in più la fortissima differenza di pressione fra il Mediterraneo e i Balcani innescò sull’Adriatico venti meridionali caldi ad oltre 100 km/h.
Ed è esattamente quello che è successo anche la settimana scorsa in Veneto: perché i danni oltre alle piogge che hanno gonfiato i fiumi e provocato tutte quelle frane sono stati causati dai venti meridionali incredibilmente forti innescati anche questa volta dalla differenza di pressione esistente fra il Mediterraneo occidentale e i Balcani; venti che, come nel 1966, hanno spinto le acque dell’Adriatico, provocando uno dei peggiori episodi di “acqua alta” degli ultimi 100 anni e questa volta hanno devastato, insieme alle piogge, la parte più elevata della catena alpina in Veneto.
La tempesta di vento è stata dunque eccezionale nella sua violenza e dovuta alle circostanze meteorologiche particolari. E che non sia un evento comune lo attestano proprio le devastazioni di alberi pluricentenari venuti giù come fuscelli. La differenza principale è che nell’ottobre 1966 il tempo freddo e umido aveva depositato anche a quote basse parecchia neve e il suo scioglimento dettato da piogge e riscaldamento dette un fattivo contributo alle piene. Stavolta – per fortuna – questo contributo è mancato, il che ha almeno salvato le pianure da larghe esondazioni.


Densità di frane in maglie di 2 km dal rapporto
sul dissesto idrofeologico di ISPRA 2018

PERCHÈ COSÌ TANTE FRANE ED ALLUVIONI IN ITALIA? Anche le piogge del 2018 sono state eccezionali, ma lo è stato soprattutto il vento che raramente procura nel nostro Paese danni così vasti; per il resto, frane ed alluvioni in caso di forti piogge sono una caratteristica “classica” del territorio italiano, in quanto dal punto di vista della difesa del suolo l'Italia è uno dei Paesi più difficili che si possano immaginare, offrendo delle specificità peggiorative rispetto alla situazione classica europea:

- un rilievo giovane, con due catene montuose in cui i processi tettonici sono ancora attivi, come dimostrano i frequenti terremoti ma anche le elevate differenze di altitudine in zone meno sismiche 
-  colline e monti bellissimi ma spesso composti da sedimenti vagamente consolidati più che da rocce litificate
- una idrografia che si sviluppa in tanti piccoli bacini anziché in pochi grandi bacini
- un territorio circondato da mari caldi che apportano piogge molto intense
- una densità di popolazione molto elevata, come il tasso di occupazione artificiale del suolo



Quindi è per la natura stessa del territorio che i processi dominanti nell’evoluzione naturale del paesaggio italiano siano frane, alluvioni (e anche terremoti). Il mix di queste circostanze è terribile, perché i bacini idrografici piccoli quando sono esposti a forti piogge sono molto più soggetti a piene improvvise di bacini grandi: andando nei casi estremi il Fereggiano a Genova nel 2014 e il Rio Maggiore a Livorno nel 2017 sono esondati quando ancora pioveva; invece nel 2000 le Ferrovie ebbero tutto il tempo di rialzare il ponte di Rovigo sulla Bologna – Padova prima che la piena del Pò causata dall’alluvione piemontese avvenuta giorni prima arrivasse nel basso Veneto; anche l'inondazione di Dresda del 2002 e quella di Parigi del 2015 furono preannunciate diversi giorni prima, dando il tempo di mettere in sicurezza diverse opere d'arte.

Una situazione del genere imporrebbe particolari precauzioni dal punto di vista dell'uso del territorio. E invece fra tutte le Nazioni europee la nostra è probabilmente quella in cui il rispetto per il territorio è minore, un Paese in cui sono state fatte molte cose che non dovevano essere fatte e ne sono state realizzate ben poche di quelle che dovevano essere fatte per un suo corretto uso.


l'alveo del Bientina (Pisa) tornato palude durante una alluvione

FIUMI, PALUDI E LAGUNE COME DOVREBBERO ESSERE E COME SONO. Vediamo i fiumi nascere, ricevere gli affluenti e sboccare in mare. È una configurazione quasi totalmente artificiale: in Natura un fiume, dopo una ripida discesa dal monte, arrivando nel piano si impaluda, si divide in più rami, ed è libero di modificare a suo piacimento il suo corso in lungo ed in largo per tutta la valle, dove zone asciutte si alternano ad acquitrini e laghi.

L’uomo invece ha confinato i fiumi in alvei sempre più stretti, spesso rettificati con una lunghezza ridotta anche a un terzo di quella originaria. Le rettifiche, ideate per aumentare lo spazio per l’agricoltura e diminuire le distanze agevolando i trasporti (prima delle ferrovie le merci viaggiavano quasi esclusivamente sui fiumi), ha comportato gravi effetti negativi: l’incremento della pendenza e l’eliminazione delle curve hanno aumentato la velocità della corrente, diminuendo il volume di acqua contenibile dall'alveo e la distanza fra gli affluenti, i quali ormai riversano le loro piene quasi contemporaneamente nel corso principale.
Le paludi sono praticamente inutili per l’Uomo (anzi, erano luoghi malsani ed inospitali, quindi fino alla scoperta della cura per la malaria erano anche estremamente pericolose) ed erano così sgradite che Dante ne parla così:


Qual dolor fora, se de li spedali

di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali
fossero in una fossa tutti ’nsembre,
tal era quivi, e tal puzzo n’usciva
qual suol venir de le marcite membre
Inferno XXIX, 46 - 51

Siamo nella nona bolgia dell'ottavo cerchio, insomma il puzzzo delle paludi si trova quasi in fondo all'inferno...
Le bonifiche, che hanno fornito spazio per le attività umane (principalmente l'agricoltura) nel contempo hanno tolto aree di stoccaggio per le piene e pertanto i fiumi si ritrovano a dover gestire anche quella percentuale di acqua che si sarebbe fermata nelle paludi, mentre a causa del disboscamento i suoli montani trattengono meno le piogge e immettono più velocemente l’acqua nei fiumi.
Anche le coste lungo le pianure non sono naturali: la laguna veneta, che ci sembra una eccezione, in realtà è proprio quello che ci si dovrebbe aspettare per una costa lungo una pianura, dove al posto di una linea di costa precisa in condizioni naturali ci sarebbe una successione di stagni, dune, cordoni litorali - insomma.. una laguna - con un limite fra acque salmastre e quelle dolci delle paludi all’interno molto più sfumato di quello che vediamo oggi.
Insomma, in Italia buona parte delle aree pianeggianti sarebbe per natura coperta da specchi d’acqua e ciò che vediamo adesso, dalle pianure interne a quelle costiere, è il risultato di vaste operazioni di bonifica.
Per chi volesse qui ho scritto qualcosa sul problema delle bonifiche.


Nelle aree urbanizzate sparisce il reticolo superficiale delle bonificihe: il sistema fognario sarà adeguato?
Immagine dell'Autorità di bacino dell'Appennino Settentrionale di Prato, Campi Bisenzio e la parte occidentale di Firenze) 


I SUOLI SIGILLATI. Già i suoli agricoli non sono il massimo rispetto a quelli naturali quanto ad assorbimento dell'acqua (specialmente quelli in cui i filari o islchi sono paralleli alla massima pendenza), ma in quelli artificiali (intendendo con questo termine solo i suoli sigillati, cioè coperti da edifici, strade etc etc) diventa impossibile: la copertura artificiale toglie al suolo la possibilità di assorbire la pioggia e in città soltanto i giardini la drenano naturalmente; pertanto è necessario un sistema fognario efficiente (che – comunque – immette l’acqua piovana nei fiumi prima rispetto ad un suolo naturale).

Non ci si deve quindi stupire se a volte bastano poche ore di pioggia per esondare: se piove una certa quantità di acqua in qualche modo una certa percentuale di essa dovrà per forza defluire. Allora i fiumi escono dal loro alveo, o meglio da quel poco che gli abbiamo lasciato, sommergendo quanto incautamente gli abbiamo costruito intorno.

La costruzione delle casse di espansione, zone che possono essere allagate in caso di piena è finalizzata proprio a catturare l'acqua in eccesso, rilasciandola a piena finita. Il rischio alluvione zero non si può ottenere e le alluvioni in quanto tali non si potranno mai evitare, anche se è possibile evitarne alcune conseguenze trattando meglio i fiumi e costruendo in zone più sicure (o meno insicure). Ma l’attuale domanda umana di uso del territorio potrebbe consentire di vivere solo in zone a basso rischio idrogeologico?



SITUAZIONE ODIERNA. Specialmente dal dopoguerra abbiamo assistito ad una edificazione incontrollata (e spesso abusiva) nelle aree a rischio frana o alluvione e adesso ne paghiamo le logiche conseguenze, mentre la legislazione è stata – spesso consapevolmente – carente e/o farraginosa. A dimostrazione della nostra scarsa propensione ad un uso corretto del territorio in pochi anni abbiamo avuto diversi condoni edilizi, di cui quello del 1993 approvato mentre in Piemonte si stavano contando i danni della peggiore alluvione dopo quelle del 1966.

La farraginosità riguarda anche le procedure, complicate dalla dispersione delle competenze dal punto di vista burocratico fra i vari enti per cui spesso non si sa chi deve fare cosa.



A questo si aggiungono altre importanti concause antropiche: dopo bonifiche, rettifiche e restringimento (se non tombinature!) dei fiumi, circostanze quali il degrado del reticolo idrografico minore e l’abbandono delle montagne e delle fasce collinari hanno diminuito la capacità dei corpi d’acqua di assorbire le acque piovane, ridotto i tempi di concentrazione delle piene e favorito il dissesto del territorio.  Inoltre le operazioni di bonifica erano basate su un fitto reticolo di canali per il deflusso delle acque, che in molte zone è stato cancellato e in altre è oggetto di una manutenzione insufficiente come lo è quello di altre opere idrauliche di regimazione come le briglie.

Però bisogna ricordarsi che, come dicono ad Arezzo,  l’acqua affitta, ma non compra e quando un fiume ha bisogno di spazio… se lo riprende, punto e basta.
Non ci si può allora stupire che a fiumi e torrenti siano sufficienti pochi giorni (se non ore) di pioggia per esondare: quando piove una certa quantità di acqua (e non si può evitare che succeda ....) è perfettamente logico che in qualche modo una certa percentuale di essa dovrà pure defluire. Allora i fiumi escono dal loro alveo, o meglio da quel poco che gli abbiamo lasciato, sommergendo quanto incautamente gli abbiamo costruito intorno e i versanti franano.

  
Malguzzi et al (2006) The 1966 ‘‘century’’ flood in Italy: A meteorological and hydrological revisitation. Journal of Geophysical Research 111, D24106, doi:10.1029/2006JD007111, 200


Viewing all 407 articles
Browse latest View live